(FOLLI ?) VALUTAZIONI DI BORSA

Quanto sono folli le (attuali) valutazioni di borsa? Mano mano che le borse toccano sempre nuovi massimi gli analisti, gli economisti, gli investitori e persino i banchieri centrali continuano a chiederselo da molto tempo e in particolare da almeno un anno i timori di un loro crollo si fanno più insistenti.

 

LO SCENARIO “GOLDILOCKS” E I TIMORI DI TORNARE A UN NUOVO 2008

 

La fatina dei mercati dai riccioli d’oro (la oramai mitica bambola Goldilocks che preferisce un ambiente misurato: non troppo freddo, non troppo caldo ecc…) continua a regalarci uno scenario incantato nel quale la crescita economica economica globale è meravigliosamente in atto ma non è troppo forte (e dunque non fa crescere l’inflazione né i costi dei fattori di produzione), le borse galleggiano sui massimi di sempre ma senza strappi e nemmeno rilevanti oscillazioni, il commercio mondiale ha ripreso la sua corsa nonostante la diffusione di tecnologia e informazioni non necessiti più di dover produrre solo in alcune parti del mondo (perché la globalizzazione prosegue alla grande e le fabbriche sono oramai dappertutto) e dunque i mercati finanziari assaporano i frutti (e i profitti) dell’espansione economica mondiale apparentemente senza doverne scontare i tipici aspetti negativi (fiammate salariali, tassi di interesse in aumento, dinamiche dei prezzi in tensione, valori degli “assets” troppo speculativi, eccetera).

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: da più di un anno si è diffuso tra gli investitori il timore di vivere all’interno di una gigantesca bolla speculativa attanaglia ogni categoria di investimenti nel mercato dei capitali e perciò coloro che si aspettano brusche correzioni di rotta sono oramai divenuti la maggioranza. Ovviamente questo ha determinato una loro pesante sotto-performance rispetto all’andamento dell’indice di borsa, come è mostrato dal grafico qui riportato.

Il punto è che da altrettanto tempo sentiamo cornacchie gracchiare pervicacemente contro le smisurate valutazioni implicite delle imprese quotate in borsa e ogni volta dobbiamo constatare che esse hanno avuto torto. E si dà il caso che le cornacchie siano giustappunto animali estremamente intelligenti, come del resto lo sono i professori, i premi Nobel e i capi degli uffici studi di tutto il mondo che le impresonano ma quando la campana suona a morto così a lungo e poi invece tutti gli astanti risultano essere in buona salute, allora bisogna chiedersi: “cosa sta succedendo”?


COSA STA SUCCEDENDO?


Le risposte che troppe volte ci siamo sentiti propinare a questa domanda sono state la favoletta (assolutamente fondata, per la verità) della liquidità in eccesso che fa galleggiare anche ciò che dovrebbe andare a fondo, l’altra favola degli effetti perversi di tassi troppo bassi che generano l’assenza di valide alternative all’investimento azionario (come negarla?) e, per i più sofisticati, anche quella della “congestione dei risparmi” (saving’s glut) dovuta ai cicli generazionali della demografia (altrettanto vera) che provoca sovraffollamento nella domanda di attivi finanziari.

Secondo chi ce le propina però, sono situazioni congiunturali che hanno prodotto effetti significativi anche perché fortemente concomitanti ma, per loro natura, sono vicende destinate a smorzarsi nel breve termine perché connesse a fattori tendenzialmente irripetibili.


Sarebbe stato tutto molto credibile se effettivamente i picchi delle quotazioni di borsa (cui rischiamo di abituarci senza più fare domande) fossero risultati temporanei e connessi ad un incremento della volatilità dei corsi, che tipicamente si associa a movimenti di breve periodo. Il breve periodo però è passato da un pezzo e la domanda resta: quanto sono folli le (oramai consolidate) valutazioni di borsa?

Il cittadino americano medio (grande frequentatore dei borsini rispetto alla media degli altri nel mondo) si fida oramai molto più dell’investimento in borsa rispetto al resto degli altri investimenti possibili.

I commentatori che gridano “al fuoco” sempre più a corto di argomenti si sono allora spostati sull’arcinoto concetto di “bolla speculativa”, secondo il quale una serie di concause psico-sociologiche possono determinare un rigonfiamento innaturale dei valori espressi dai mercati, ma prima o poi tale rigonfiamento, come una bolla di sapone, è destinato a scoppiare, esattamente come è già successo in precedenza per i prezzi dei tulipani, per le valutazioni immobiliari, per i crediti al consumo e i titoli derivati. Peccato che la maggior crescita delle quotazioni borsistiche si sia accompagnata alla più bassa volatilità dei corsi che la storia ricordi…

 

Dunque, a causa della durata record del ciclo rialzista (abbiamo superato l’ottavo anno in USA) la situazione degli investitori —soprattutto le grandi banche e società di gestione del risparmio— è perciò divenuta kafkiana, anzi beckettiana e, come nel notissimo dramma teatrale “Aspettando Godot”, la condizione esistenziale dei personaggi cui ogni volta viene mandato a dire “il signor Godot oggi non viene, verrà domani”, pur angosciosa si tramuta in irrinunciabile, poiché, come accade nel dramma di Samuel Beckett, i protagonisti a un certo punto, prima che il sipario cali, riprendono a dire “adesso andiamo” eppur non si muovono. Evidentemente quei protagonisti, come del resto gli investitori sempre più timorosi di crolli sui mercati, sono la metafora dell’animo umano il quale sebbene resti nell’attesa di un evento che non accade mai, si rafforza sempre più nelle sue convinzioni.


GLI EFFETTI COLLATERALI DEGLI ECCESSI DEI MERCATI : VALUTAZIONI ECCESSIVE

Tornando alle valutazioni di borsa, senza dubbio eccessive secondo i più, esse non risultano essere soltanto materia riservata agli investitori e speculatori che operano sul mercato mobiliare. Come minimo invece influenzano anche le valutazioni di tutte le altre imprese, cioè quella miriade di società e gruppi industriali i cui titoli non sono quotati sui mercati borsistici ma risultano ugualmente essere oggetto di stima di valore. Ciò vale innanzitutto per i titoli tecnologici che hanno mostrato negli ultimi anni la miglior dinamica degli utili operativi e che pertanto influenzano le valutazioni persino delle start-up.

Ma non solo. Le borse ai massimi storici dunque influenzano anche il mare magnum di fusioni e acquisizioni che si estende al mondo intero, come pure l’oceano sconfinato delle valutazioni di credito da parte di banche e società finanziarie. Valutazioni che si basano sempre più, secondo le ultime teorie, sul cosiddetto “equity value” delle imprese affidate (cioè sul valore di mercato delle loro quote sociali, più o meno indipendentemente da quello contabile).

Se oggi i moltiplicatori dell’utile (p/e) che girano in borsa toccano la media di 30 volte, allora, pur scontando significativamente per la minor liquidità i titoli che non risultano quotati, difficilmente scendiamo sotto livelli di 15 o 20. I quali però risultano comunque al di sopra delle medie storiche di borsa (mi pare che la media delle medie risulti pari a 16 volte e, ovviamente, si riferisce a titoli mediamente molto “pesanti”. Lo stesso vale per la valutazione dei titoli a garanzia ai fini dei finanziamenti per le acquisizioni: se voglio indebitarmi per 50 per comperare un titolo che viene comunemente valutato 100 sto facendo un’operazione chiaramente molto prudente. Ma se quel 50 che prendo a debito corrisponde alla metà delle suddette valutazioni “prudenziali” di 15 o 20 volte l’utile, allora chi finanzia sta fornendomi un finanziamento che anmonta a 7 o 10 volte l’utile, che comunque rischia di risultare eccessivo.

Ecco dunque che l’economia reale risulta in ogni caso fortemente influenzata dai valori borsistici, sebbene talora sembri che i due mondi (quello dell’economia reale e quello dell’economia “di carta”) non si parlino.

MOLTE (DISCORDANTI) MISURE DELLA SOPRAVVALUTAZIONE

Esistono in proposito numerosi criteri da considerare se vogliamo affrontare il tema delle valutazioni d’impresa senza parteggiare per alcuna delle scuole di pensiero, a partire da quelli suggeriti dal famoso professor Robert Shiller e dal suo “CAPE RATIO” (cyclically adjusted price-to-earnings ratio: il rapporto prezzo/utili ponderato con la misura dell’inflazione e dei tassi di interesse) sulla base del quale egli ha lanciato ripetuti allarmi.

Numerosi sono però altri illustri pensatori come il professor Jeremy (autore del libro “Stocks for the Long Run” del 1994) che non condividono quei punti di vista perché, anche volendo considerare un eccesso nel livello dei moltiplicatori di valore, quando l’aggiustamento dell’indice viene operato sulla base della progressione degli utili in rapporto alla crescita economica, le attese di valore crescono fino a livelli più che accettabili.

Lo stesso vale quando andiamo a prendere il medesimo indice prezzo/valore ma lo consideriamo su base prospettica e lo compariamo con il cosiddetto “Misery Index “, vale a dire con la somma del tasso di inflazione più quello della disoccupazione. Se andiamo a osservare le serie storiche di nota una decisa correlazione inversa tra l’uno e l’altro indice: quando inflazione e disoccupazione sono contemporaneamente più basse è logico che gli investitori risultino più ottimisti e accettino quotazioni basate su multipli di valore più elevati.

Un indicatore ancora più deciso che punta a sfatare il mito delle valutazioni eccessive riguarda l’ultimo grafico qui riportato: l’indice dei rendimenti reali dei titoli azionari (il tasso di rendimento del paniere di azioni che compongono l’indice S&P500 di Wall Street depurato del tasso di inflazione dei prezzi al consumo): se esso risultasse troppo basso questo significherebbe che le azioni quotate risulterebbero troppo care, ma non è così. Se guardiamo alla media di lungo termine (dal 1935, pari al 3,7%) ci troviamo oggi al 2,6% vale a dire poco al di sotto di essa.

A dirla tutta ci sono altri indicatori molto meno rassicuranti da guardare con altrettanta attenzione, in particolare quello preferito da Warren Buffett, il rapporto tra capitalizzazione di mercato e valore del prodotto interno lordo (che rappresenta una misura grossolana del valore dei titoli quotati rispetto ad un anno di attività economica (e soltanto dell’America) oggi apparentemente a livelli preoccupanti: 135%. Ben oltre la misura suggerita in passato dal mago di Omaha (non oltre il 100%).

Non per niente la sua holding di partecipazioni, la Berkshire Hathaway, oggi detiene un livello record di denaro liquido : $100 milioni sul totale dei propri investimenti: $450 milioni. Un segnale di cautela.

Come pure un elemento da non trascurare nelle valutazioni di borsa è rappresentato dalla convenienza (in termini di rendimenti prospettici) ad investire in azioni come alternativa ai titoli obbligazionari, oggi invertita (convengono i bond) sebbene riferita ai rendimenti passati, non a quelli futuri (che è sempre difficile stimare).


ALLORA CHI HA RAGIONE: OTTIMISTI O PESSIMISTI?

Allora forse ha ragione Warren Buffett a preferire investimenti obbligazionari e ad accumulare grande liquidità? A modesto avviso di chi scrive, forse questa volta meno del solito.

A parte il fatto che abbiamo notato in precedenza (il ripetersi da più di un anno di segnali di allarme sulle borse, a posteriori del tutto ingiustificati), bisogna ricordarsi del fatto che l’investimento azionario ha caratteristiche di rischiosità correlate alla speranza di rendimenti futuri che possono differire non poco da quelli passati, soprattutto negli anni di deflazione e bassa crescita che abbiamo appena sperimentato.

Molti analisti oggi concordano che non solo l’economia globale cresce ben più del previsto, ma soprattutto cresce di più in funzione di fattori demografici in zone diverse da quelle dove precedentemente ha fatto meglio (l’Asia invece che l’America) e in modo esponenziale, a causa del diffondersi della digitalizzazione e delle altre nuove tecnologie. Se una piccola parte delle attese economiche legate a tali tecnologie si tramuterà in realtà allora gli utili aziendali delle principali imprese multinazionali quotate in borsa andranno alle stelle, giustificando ampiamente le attese oggi implicite nelle elevate quotazioni azionarie. Nessuno oggi può dirlo con certezza (e nel frattempo qualche ruzzolone di borsa non potrà che capitare), ma forse meno degli altri può parlare del futuro un ottantacinquenne (per quanto arzillo).

Il mondo potrebbe essere a una svolta che lo vede finalmente assaporare i frutti del progresso tecnologico in corso, come potrebbe invece avvitarsi attorno a nuove minacce o sciagure. I mercati finanziari riflettono tali attese, tanto nel bene quanto nel male, ma di solito non hanno torto. E questa volta le premesse perché gli ottimisti abbiano ragione sulla carta ci sono tutte!

Stefano di Tommaso




ALLA FINE UNICREDIT COMPRERÀ COMMERZBANK

Molte voci si sono rincorse quando è venuta fuori, all’attenzione della stampa, la notizia di una trattativa segreta tra Unicredit e Commerzbank.

 

SMENTITE E PRECISAZIONI

Innanzitutto sono corse le smentite, da entrambe le parti e addirittura con il commento che piuttosto l’azionista al 15% (lo Stato tedesco) della possibile preda avrebbe preferito una banca francese (BNP PARIBAS) come acquirente. I soliti simpaticoni!

Poi sono ancora in molti a ricordarsi l’avventura straniera del 2005 con la HypoVereinsbank poi divenuta Unicredit Bank AG e oggi significativamente ridimensionata ma pur sempre presente in Germania.

Infine sono arrivate le precisazioni, attraverso le quali si faceva notare che entrambe le banche sono nel bel mezzo dei rispettivi processi di ristrutturazione, ivi compresi tagli di spesa e riduzione del personale.

Dunque i sindacati non avrebbero gradito che da una parte si faccia economia e si dichiari di voler concentrare la propria attenzione sul mercato interno e sul core business e dall’altra si profondano risorse in una avventura oltre frontiera tutta da precisare, senza prima aver pubblicato un nuovo piano industriale (quello attuale ha come orizzonte il 2019) e poi consultato le parti sociali.

IL RUOLO DEI GOVERNANTI TEDESCHI

In Germania probabilmente la minor pressione della disoccupazione rende l’argomento molto più “morbido” da trattare, ma il problema di non poter procedere contemporaneamente alla messa in atto di una lenta ristrutturazione (va avanti dal 2010, dopo che l’anno prima il governo tedesco era entrato nel capitale per salvare la banca) ce l’ha anche Commerzbank e lo scenario ambientale è complicato dal fatto che il paese è in piena campagna elettorale.

La verità anzi è che i vecchi azionisti di Unicredit (a partire dalle fondazioni bancarie) si sono già ridimensionati con le perdite degli anni post-crisi e si sono diluiti con i decisi aumenti di capitale (l’ultimo di 13 miliardi ha spiazzato tutti e provocato il plauso degli analisti) mentre se oggi cedesse la sua partecipazione in Commerzbank il governo tedesco dovrebbe iscrivere al proprio stato patrimoniale una perdita decisa nel valore dell’asset, stimato dal mercato circa la metà di quanto ha investito. Un portavoce del governo lo ha già dichiarato: agiremo nell’interesse di chi paga le tasse.

Dunque ne hanno dedotto tutti gli osservatori che manzonianamente parlando “il matrimonio non s’ha da fare” e che l’argomento è quantomeno rimandato di un paio d’anni.

L’AMBIZIONE DI MUSTIER E LE PRESSIONI DEL MERCATO DEI CAPITALI

Ma sebbene sia entrato in azione solo un anno fa (nel 2016) chi conosce Pierre Mustier sa che è uomo di grandi ambizioni e poi molti investitori stanno concentrando le proprie attenzioni sui principali titoli bancari, scommettendo inizialmente un po’ su tutti ma si sa che alla fine essi preferiranno quelli che riescono ad esprimere una maggior crescita di valore. E -come direbbe Totò- qui casca l’asino!

Il mondo negli ultimi anni è cambiato a tal punto che l’attività creditizia è tornata in auge tra gli investitori, le economie del vecchio continente sembrano puntare a sempre migliori risultati man mano che l’Unione procede nel suo accidentato percorso di integrazione e la Germania resta il centro dell’attrazione dei capitali in fuga tanto dall’America quanto dalla Cina.

E nessuna grande azienda, nemmeno una banca “di interesse nazionale” (come si sarebbe detto in passato), nemmeno se sottoposta a un aspro confronto con i sindacati dei lavoratori, può sottrarsi alle pressioni dei propri azionisti e del mercato dei capitali, i quali possono risultare molto pazienti ma alla fine vogliono dire l’ultima parola.

Il boccone è goloso: la combinazione delle due realtà risulterebbe ai vertici delle classifiche bancarie europee e potrebbe vantare attivi totali per la bellezza di 1300 miliardi di euro (cioè ben oltre un trilione e mezzo di dollari).

Molte attività nelle quali le economie di scala contano (a partire dal “consumer business” ne risulterebbero avvantaggiate e la caratteristica he in passato ha reso debole Commerzbank: quella di avere una maggior clientela tra le piccole e medie imprese, per Unicredit risulterebbe invece di grande interesse per potersi piazzare come leader incontrastato di quel segmento nel continente europeo. L’unico nel quale la concorrenza delle grandi banche d’affari americane e asiatiche ha molto meno presa e capacità di attrazione.

SI FARÀ MA NON SUBITO

Solo che un orizzonte di un paio d’anni può risultare normale per la ristrutturazione di due grandi aziende ma appare come un tempo infinito a coloro che operano sul mercato dei capitali. Questi ultimi non aspetteranno così a lungo per emettere il loro verdetto e questo Mustier lo sa bene! Ecco allora che i tempi dovranno stringersi, magari già all’inizio del 2018 o nel corso dell’anno.

Dunque se fosse a Unicredit non converrebbe mollare l’osso nel frattempo, con il rischio che la potenziale sposa nel frattempo si accasi altrove. È più probabile che le trattative proseguano sotto traccia.

Mentre entrambe le banche provano a mettere a punto i rispettivi nuovi piani industriali magari ne abbozzano anche uno comune, magari con la complicità di qualche importante advisor, come Mediobanca di cui UniCredit è il primo singolo azionista, insieme a Vincent Bollorè. E non a caso Mediobanca che di solito tace sulla stampa invece resta, unica voce fuori dal coro, possibilista sul matrimonio.

E IL VALORE DEI RISPETTIVI TITOLI SALIRÀ

È solo il titolo di una favola oppure è realistico pensarlo? Si vedrà. Ma aspettiamoci che l’ultima parola la dicano i mercati, che hanno già premiato il titolo Unicredit con un +80% e che potrebbero adesso fare altrettanto con Commerzbank. Allora forse per il Governo tedesco sarebbe politicamente più accettabile dare il consenso, insieme alla necessità di fare cassa, mentre inizialmente si era parlato di un’operazione “carta contro carta” meno conveniente per lo stato germanico e per gli azionisti di minoranza.


Resta il fatto che la strategia di Mustier non sarà abbandonata così in fretta e che di conseguenza è piuttosto probabile che da oggi ai primi del 2018 entrambi i titoli potranno registrare prezzi più elevati degli attuali, anche perché i fondamentali si avviano ad essere molto migliori e di terreno, negli ultimi anni, ne avevano perduto parecchio. E questa sì che è una buona notizia per gli azionisti!

Stefano di Tommaso

 




IL MASSIMO DEI MASSIMI

Uno studio di Bloomberg Magazine mette a fuoco il particolare momento storico dei mercati finanziari. La scorsa settimana il più importante indice di borsa a Wall Street (Standard &a Poor 500) ha toccato un nuovo record: quota 2500.


LE BORSE SALGONO MA LA VOLATILITÀ SCENDE

La notizia del nuovo massimo di Wall Street potrebbe non avere nulla di sensazionale se non fosse che essa giunge :

  • Nel modo più “soft” che si possa immaginare e cioè senza alcuno strappo: è un anno e mezzo che Wall Street non registra uno storno di almeno il 5% sui corsi delle azioni quotate,
  • Con la più bassa volatilità dei corsi azionari mai riscontrata (si veda qui sotto il grafico dell’indice VIX a 10 anni),
  • Quando oramai quasi tutti i più grandi “guru” avevano predetto un’imminente e importante correzione,
  • Mentre i maggiori fondi azionari americani toccano un altro record nelle richieste di disinvestire da parte dei privati: oltre 200 miliardi di dollari dal 2009 ad oggi!


IL RUOLO DEI BUY-BACK

Ma se tutti i fondi azionari vendono per stare dietro ai disinvestimenti allora chi è che compra? Quello che salta fuori frugando tra le statistiche è che sono le stesse aziende che hanno emesso titoli che poi se li ricomprano. I “buy-back” delle aziende americane hanno raggiunto da 2009 ad oggi la cifra stratosferica di tremila miliardi di dollari.


Il fenomeno può far discutere a lungo perché può essere considerato alternativo agli investimenti aziendali in innovazione e capacità produttiva, ma bisogna ricordare che le aziende che comprano i propri titoli lo fanno sulla base degli utili già realizzati e con la liquidità di cui già dispongono. Dunque non si tratta della classica volata dei corsi trainata dalla speculazione, che magari fa tutto a debito e l’indomani mattina, se lo scenario muta, è costretta precipitosamente a vendere.

Certo quello dei Buy-Back è un fenomeno innegabilmente collegato a quella parte della remunerazione aziendale legata alle “Stock-Options”, strumenti che in teoria intendono allineare gli interessi del management con quelli dell’azionariato ma che di fatto rischiano di orientare le scelte aziendali a far crescere le quotazioni anche artificialmente.

MA I RENDIMENTI SONO BUONI

Ma il record delle quotazioni non cancella la buona redditività dei medesimi titoli azionari: tanto per cominciare essi a Wall Street rendono più dei titoli di stato, come mostra il grafico sull’andamento dell’indice prezzo/rendimento (P/E) confrontato con il rendimento dei titoli di stato americani a 10 anni (qui sotto riportato). Quindi non sembrano così sopravvalutati e acquistare quei titoli appare comunque una scelta razionale compiuta dal management, anche ai prezzi attuali:

IL RUOLO DEI GRANDI TITOLI TECNOLOGICI

La cavalcata di Wall Street eccede poi quella di tutte le altre borse mondiali, ma anche perché è a Wall Street che si concentrano le maggiori multinazionali tecnologiche come Facebook, Apple, Amazon Microsoft e Google: le famose componenti del super ristretto club denominato FAAMG. Da sole queste società hanno contato nel 2017 per il 31% della crescita del medesimo indice S&P500 !


Le FAAMG ono anche le società i cui utili crescono più velocemente e quelle che prospettano non soltanto le maggiori capitalizzazioni di borsa della storia (qualcuna di esse, come Apple, è ripetutamente giunta vicino al tetto mai toccato sin’ora dei 1000 miliardi di dollari), ma anche le migliori prospettive nel tempo di ulteriore crescita.

 

LE BORSE DEL RESTO DEL MONDO NON SONO DA MENO

Ma se Wall Street registra la miglior crescita e nuovi record, come stanno andando le altre borse? Nemmeno a casa nostra ci possiamo lamentare un granché: l’indice MIB della borsa di Milano è tornato decisamente a correre nel 2017 raggiungendo quasi i massimi storici del 2014 e del 2015 e questo nonostante il cambio dell’Euro con il Dollaro si sia rivalutato di quasi il 15% nell’ultimo anno (da 1,05 a 1,20).

Se guardiamo all’indice europeo complessivo (Stoxx 600) il quadro appare quasi identico:


Per non parlare dell’indice Hang Seng della borsa di Hong Kong: anch’esso al massimo storico come Wall Street! In Cina, nonostante la stretta ai rubinetti del credito che la banca centrale sta dando per motivi di prudenza, l’economia è cresciuta del 6,9% annuo nel secondo semestre 2017, battendo le stime degli analisti. Non stupisce dunque che la borsa sia così euforica:

CONCLUSIONI AFFRETTATE?

Proviamo perciò a riassumere cio che vediamo: il fenomeno delle quotazioni azionarie giunte ai massimi di sempre si estende a tutto il mondo e si accompagna all’immensa fortuna generata dai grandi titoli tecnologici, principalmente quotati a Hong Kong e Wall Street.

Esso accade in contemporanea al record di disinvestimenti dai fondi azionari da parte degli investitori privati e al crescere di indicazioni di prudenzada parte dei maggiori analisti, i quali però notoriamente lo fanno da oltre un anno e sino ad oggi possono soltanto ammettere di aver avuto torto.


Abbiamo anche notato che persino a questi livelli di capitalizzazione il rapporto prezzo utili è alto ma non esagerato se rapportato alle effettive prospettive di crescita dei profitti.

L’economia mondiale cresce inoltre altrettanto forte nel 2017 (o almeno è questa la prospettiva per l’ultimo scorcio dell’anno in corso) ma indubbiamente la parte del leone nella corsa delle borse la fanno i buy-back delle imprese quotate: un fenomeno particolarmente difficile da interpretare nella sua interezza ma che non può scatenare, di per sé, una corsa al ribasso.


Certo in generale più crescono le quotazioni azionarie e più cresce la possibilità che si verifichi un tonfo delle borse con tutto quello che ne consegue.

Oppure accadrà che la crescita economica globale prosegua la sua accelerazione e arrivi a consentire all’intera umanità di vivere una vita migliore. Certo ad oggi il 2017 sembra essere un anno migliore (soprattutto per chi stava peggio). Persino migliore delle rosee prospettive riassunte dal Fondo Monetario Internazionale nel grafico qui sopra riportato.

Stefano di Tommaso




LA CALMA SUI MERCATI, IL NERVOSISMO DEGLI INVESTITORI E LA LEZIONE DI MARK TWAIN

Quando l’indice della volatilità tocca minimi storici come quelli attuali e lo fa nell’ambito di un trend chiaramente discendente verrebbe a tutti da pensare che la calma piatta dei mercati sia divenuta un elemento acquisito.

 

Se invece si guarda le vette che le valutazioni aziendali hanno raggiunto dai tempi (quasi remoti oramai) dell’elezione di Donald Trump alla presidenza delle presidenze, giustamente si teme che quella attuale sia solo la classica calma prima della tempesta e l’istinto suggerirebbe che all’orizzonte dei mercati si intraveda un bel ribaltone, potente e improvviso, come tante volte è successo in passato dopo un periodo di eccesso di ottimismo.

OTTIMI FONDAMENTALI

Peccato che il ragionamento sopra riportato qualcuno va ripetendolo da oltre un anno e quello che invece è successo è più o meno l’opposto: i listini delle borse hanno continuato a salire di livello per svariate e molteplici ragioni: all’inizio per l’euforia di una possibile nuova era di bassa fiscalità e elevati investimenti infrastrutturali, poi con la motivazione dell’eccesso di liquidità che “affligge” le borse, di seguito per la splendida notizia della decisa ripresa degli utili aziendali (il “consensus” di mercato cita un più 4,4% nel 2017 per le blue chips di Wall Street e addirittura un più 4,5% nel 2018) un po’ in tutto il globo e per la constatazione della notevole crescita economica globale (e per di più sincronizzata), infine per la notizia della decisa ritirata dell’inflazione dalla parata dei possibili mostri all’orizzonte, accompagnata da quella che ne è conseguita per necessità: la caduta delle aspettative di rialzo dei tassi di interesse.


Se tutte queste ragioni per proseguire con l’euforia dei mercati finanziari siano fondate o illusorie solo i posteri potranno sentenziarlo, ma… “fattostà”…! Se le borse potessero scrivere una lettera agli investitori oggi forse citerebbero la più famosa delle battute di Samuel Langhorne Clemens, al secolo Mark Twain (Florida, 30 novembre 1835 – Redding, 21 aprile 1910): “le notizie della mia morte sono fortemente esagerate”!

MOTIVI DI PREOCCUPAZIONE

Eppure di motivi di preoccupazione gli investitori ne avrebbero davvero parecchi!

Dalle minacce geo-politiche di un’escalation militare attorno alla vicenda dei test termonucleari della Corea del Nord, alla debolezza della crescita dei consumi, fino alla possibilità (sempre meno realistica, invero) di un impeachment dello stesso presidente Trump, passando per la minaccia dei partiti populisti in Europa (in realtà già in fase calante dopo la vittoria di Macron in Francia) e per il rischio di implosione del sistema bancario e finanziario cinese. I debiti pubblici delle maggiori nazioni del mondo poi non accennano affatto a diminuire come pure continuano ad essere ripetute le espressioni di volontà di ridurre i portafogli dei titoli posseduti dalle banche centrali di America e Europa, con il rischio che questo fornisca la scusa per un brusco scivolone dei mercati finanziari e come se non bastasse il Dollaro si permette tra l’usco e il brusco una bella svalutazione a due cifre del cambio contro le principali valute. Ma tant’è. Le borse continuano a prosperare e lo fanno anche esibendo una calma olimpica.

AL LUPO AL LUPO

Se vogliamo rincarare la dose, sono così tanti mesi che gli investitori più importanti, quelli che “fanno opinione” continuano a suonare la campanella d’allarme e con questa scusa continuano a sobbarcarsi dosi da cavallo di derivati e altri strumenti di copertura del rischio, sono così tante le volte che essi hanno dichiarato di voler diversificare il loro portafoglio al di fuori delle borse (dagli immobili alle opere d’arte), che probabilmente oggi non solo si mangiano le unghie, ma avranno anche effettivamente indirizzato altrove parte dei portafogli gestiti per conto della clientela. Questo significa che esiste un’importante quota della ricchezza mondiale che non è stata più indirizzata verso le borse valori, proteggendole indirettamente dal rischio di un repentino collasso!

Sono in molti gli analisti che oggi prevedono che, proprio per questo motivo, se uno scivolone ci sarà, difficilmente sarà brusco e troppo importante.

MA IL MONDO GIRA…

Nel frattempo dalla parte meno rumorosa e più operosa del mondo moderno -l’Oriente- provengono quasi solo segnali positivi, di grande fiducia nel futuro e di grandi investimenti in nuove tecnologie.

La crescita economica mondiale che quest’anno rischia di macinare quasi il 4% è oramai per più di due terzi dipendente da quella del continente asiatico, che da solo totalizza oltre cinque miliardi di abitanti. A sua volta l’Asia traina le esportazioni americane ed europee e i profitti delle principali società quotate multinazionali. Ma quei cinque miliardi di asiatici, Kim Yong Un e i suoi missili sparati sui cieli del Giappone permettendo, delle paturnie prudenziali degli investitori conservativi anglofoni e continentali probabilmente se ne fregano alla grande.

 

Stefano di Tommaso