BANCHE ITALIANE AL BIVIO

È di qualche giorno fa una duplice batteria di riflettori che ha acceso l’attenzione dei media sull’andamento delle banche italiane: da un lato un sibillino resoconto sullo stato di salute dei loro bilanci pubblicato da Equita Sim, denominato “Hit but not Sunk” (colpite ma non affondate) e dall’altro lato lo scandalo della truffa dei diamanti, che ha rivelato non soltanto la propensione delle aziende di credito nazionali a trasformarsi in un supermarket della qualsiasi, ma anche lo scarso regime di verifiche che avvolge il mondo dorato della sollecitazione del pubblico risparmio. Tuttavia, a causa di una serie di fattori contingenti, da circa un mese a questa parte i titoli azionari delle banche quotate in borsa sono tornati a crescere, proponendo un legittimo dubbio sulle prospettive del comparto creditizio in Italia.

 

LA TRUFFA DEI DIAMANTI

Se torniamo per un istante alle questioni sollevate dalla truffa dei diamanti proposti alla clientela come forma alternativa di investimento, non può sfuggire il fatto che quello bancario dovrebbe essere un setttore fortemente regolamentato e vigilato dalla Banca d’Italia. Se infatti gli “asset manager” (i gestori di patrimoni) sono numerosi e spesso indipendenti, le reti di vendita che lanciano i promotori finanziari a caccia dei risparmi da gestire e indirizzare sono in numero molto minore e anche quando sembrano indipendenti sono spesso controllate o partecipate da banche e assicurazioni (altro settore che, direttamente o indirettamente, sollecita il pubblico risparmio).

LA SCARSA EFFICACIA DELLA VIGILANZA

Da notare che i compiti istituzionali della Banca d’Italia, compiti fortemente ritagliati e ridimensionati dal conferimento di buona parte di quelli precedenti alla Banca Centrale Europea (BCE) ai tempi della nascita della Moneta Unica , dovrebbero riguardare principalmente la vigilanza sugli istituti di credito, mentre al contrario il numero di persone stabilmente assunte continua inspiegabilmente a crescere…

Nemmeno questa volta, come era già successo nei casi più eclatanti di Banca Etruria, e poi delle popolari venete, alcun ispettore si è accorto di nulla, e nemmeno è stato citato dai media che se ne sono occupati, come fosse un problema di qualcun altro. Il sospetto perciò che le maglie della vigilanza siano larghe anche in altri ambiti come quello della contabilizzazione delle minusvalenze o del calcolo della correttezza dei costi applicati alla clientela, accentua la sensazione di rischio che provano gli investitori per l’intero comparto bancario, quando esaminano la possibilità di prendere posizione sul mercato borsistico ovvero di partecipare ad un aumento di capitale.

LA TENDENZA DI LUNGO PERIODO È AL RIBASSO

E se prendiamo l’indice borsistico relativo al comparto banche, non a caso si nota una costante discesa del medesimo da un anno a questa parte:

Per Scauri, il gestore azionario Italia di Lemanik Asset Management, è meglio ridere nei portafogli di investimento il settore bancario alla luce del rallentamento del pil italiano, della crescente pressione da parte del regolatore europeo (la BCE, che si fida sempre meno di Bankitalia) e della difficoltà nel generare un accettabile margine di interesse.

Tornando però al report sopra citato di Equita, viene fatto notare che il giro di vite della Bce sui crediti deteriorati potrebbe anche lasciare indenni le banche, che sono in grado di gestire la richiesta della Vigilanza senza troppi scossoni.

CALERÀ ANCORA L’EROGAZIONE DEL CREDITO

Ma a pagare il prezzo del meccanismo con cui Francoforte chiede alle banche di svalutare completamente i crediti deteriorati entro| il 2026 – saranno probabilmente le famiglie e le piccole e medie imprese italiane: l’erogazione del credito nei prossimi anni potrebbe stringersi del 15% rispetto ad oggi, con un calo cumulato dei prestiti atteso nell’ordine di 185 miliardi in 7 anni. In un mio precedente articolo facevo notare che, nel corso del 2018, i prestiti delle banche alle piccole e medie imprese si sono contratti in totale del 5%, cioè di 40 miliardi di euro, nonostante che le sofferenze creditizie verso le medesime imprese si siano ridotte del 31%, vale a dire di 53 miliardi (da 173 miliardi a 120).

Inoltre prosegue il rapporto di Equita, entro il 2020 le banche dovranno rifinanziare una raccolta pari a 200 miliardi, di cui 188 miliardi attraverso il programma di liquidità della Bce ma stima che se il 40% dell’esposizione con la Bce dovesse essere rinnovata, non ci dovrebbero essere “rischi di ulteriore deleveraging sugli impieghi” e perciò “le banche dovranno emettere almeno 70 miliardi di bond e ridurre di 27 miliardi (-18%) i Btp nel loro portafoglio. Il contesto in cui operano le banche italiane viene definito dunque “sempre più sfidante”.

LA MINACCIA “DIGITALE”

Da non sottovalutare poi il pericolo di disintermediazione che proviene dalle cosiddette FinTech (le società tecnologiche che puntano a rimpiazzare il ruolo della banca creando sulla rete digitale un punto d’incontro “autonomo” tra domanda e offerta di capitali). Uno studio della BAIN&Co evidenzia proprio in Italia il massimo del rischio di riduzione della raccolta di depositi a causa di ciò.

 

Per non parlare dell’ulteriore rischio di disintermediazione che proviene dai sistemi digitali di pagamento che stanno progressivamente rimpiazzando quelli bancari.

 

 

MA LA BORSA SEMBRA CREDERCI

Le prospettive insomma, comunque le si gira, non sono splendide per il settore bancario, senza contare il fatto che l’apparentemente inevitabile riduzione dell’erogazione del credito per il sistema bancario potrà comportare il rischio di una progressiva disaffezione della clientela, dal momento che si fa largo l’idea che nel prossimo futuro non sarà più la banca il luogo dove trovare risposte a tutte le esigenze finanziarie.

A meno di decise manovre di riduzione dei costi e di recupero di efficienza, i margini di profitto delle banche non potranno non risentirne. Ecco il bivio: riusciranno le banche italiane ad incrementare l’efficienza economica più di quanto il mercato ridurrà i loro margini economici? La borsa sembra crederci oggi, ma per i mercati finanziari anche i semestri possono risultare delle eternità!

 

Stefano di Tommaso




CON LA QUOTAZIONE DI NEXI E SIA, LA BORSA VA VERSO LE FINTECH

Con l’ipo di Nexi (la ex Carta SI) si prospetta per la Borsa Italiana una delle più importanti quotazioni previste nel 2019 in tutta Europa. Il gruppo Nexi, attivo nella gestione delle carte di credito e leader nei pagamenti e nella monetica, è nato dall’Istituto Centrale delle Banche Popolari (Icbpi) e da CartaSì ed è posseduta da un consorzio di fondi di private equity: Bain Capital, Advent e Clessidra. Ha un valore che, secondo le ultime indiscrezioni, potrebbe essere compreso tra 7 miliardi e 7,5 miliardi.

 


L’operazione Nexi è destinata a muovere le acque stagnanti della Borsa Italiana non soltanto perché si tratta di una delle maggiori ma anche perché il mercato dei sistemi di pagamento è in grande fermento in tutta Europa! Il gruppo, guidato da Paolo Bertoluzzo ha in progetto di sbarcare sul listino del mercato telematico azionario entro aprile per permettere ai fondi di private equity Clessidra, Bain e Advent di disinvestire, dopo essere rimasti soci di Nexi dal 2014 con il 93,2% del capitale.

ANCHE SIA GUARDA ALLA BORSA

Alla faccia del rischio-Italia poi, la quotazione in Borsa di Nexi non sembra peraltro destinata a rimanere isolata per la Borsa Italiana, dal momento che si fa un gran parlare anche di quella di SIA, società italiana che ha Cassa Depositi e Prestiti come primo azionista attraverso Fsia Investimenti srl (49%, oltre a un 17% indirettamente detenuto tramite F2I) ma che può vantare tra i propri azionisti anche Banca Intesa, Unicredit, Banco Bpm, Mediolanume e Deutsche Banked ed è attiva nella progettazione, realizzazione e gestione di infrastrutture tecnologiche per istituzioni finanziarie, banche, imprese e pubbliche amministrazioni, nelle aree dei pagamenti e della monetica in oltre 50 Paesi, anche attraverso società controllate in Austria, Croazia, Germania, Grecia, Repubblica Ceca, Romania, Serbia, Slovacchia, Ungheria e Sudafrica. La società ha inoltre filiali in Belgio e Olanda e uffici di rappresentanza in Inghilterra e Polonia.

Anche per SIA il dossier quotazione è aperto da tempo, per due grandi motivi: per finanziare la crescita interna dei ricavi (Payments Canada ha appena scelto Sia per realizzare il nuovo sistema nazionale per i pagamenti di importo rilevante denominato Lynx) che si prevede arrivino a 800 milioni in 2 anni, e per effettuare due importanti acquisizioni in Europa dove SIA è già in short-list.

L’IPOTESI DI FUSIONE TRA NEXI E SIA

La valutazione che circola sul mercato per SIA è di circa 3 miliardi di euro e l’importo previsto di raccolta dalla Initial Public Offering, assommando l’aumento di capitale e la cessione di azioni da parte degli attuali soci, dovrebbe raggiungere il miliardo di euro. Non è nemmeno esclusa la fusione tra le due realtà (Nexi e SIA), da cui potrebbero nascere sinergie immediate per quasi 100 milioni di euro e un gruppo risultante dall’aggregazione con valorizzazione superiore a 10 miliardi di euro, in grado di competere con colossi come Wirecard, Worldpay, Igenico, Worldline e Nts nelle acquisizioni di realtà minori, nonostante i multipli siano stellari (con valutazioni intorno alle 20 volte l’EBITDA).

IL PRECEDENTE DI ADYEN

La verà novità è perciò quella che in Europa gli investitori del mercato dei capitali stanno tornando a rivolgere la loro attenzione ai titoli delle società attive nei servizi digitali di pagamento. Il mercato delle FinTech sino all’altro ieri sembrava destinato ad essere oggetto di attenzione soltanto da parte del Venture Capital, ma oggi non è più così.

C’è ad esempio il precedente di Adyen, società olandese che si è quotata pochi mesi fa alla borsa di Amsterdam con una valutazione di circa 7 miliardi di euro, che offre servizi di pagamento estremamente competitivi grandi banche e emittenti di carte di credito, nonché sistemi di pagamento online. Ayden ha acquisito clienti di primissimo piano tra cui, da Facebook a Uber, e ha registrato ricavi per oltre un miliardi di euro nel 2017. Non solo. Poco tempo fa Adyen ha rimpiazzato PayPal come fornitore ufficiale di Ebay, posizionandosi così al vertice del settore dei pagamenti.

LO SGUARDO LUNGO DELLE BIG TECH


Oltre ai tradizionali operatori dell’universo dei pagamenti digitali, compresi Bancomat (società partecipata da 132 istituti di credito e che fornisce servizi finanziari a 440 banche), e i gestori di carte di credito come Visa e Mastercad, a cercare di rafforzare le posizioni a livello internazionale ci sono anche le BigTech mondiali, da Apple a Alibaba fino a Samsung, e non è un caso che Amazon, Google, Facebook stanno cercando di ottenere licenze bancarie in Lussemburgo, Irlanda e Lituania.

Da non sottovalutare poi la contiguità di questo mercato con quello delle «fintech», piattaforme in grado di offrire servizi finanziari e di trasferimento di denaro tra privati come, per quanto riguarda l’Italia, Satispay, che oggi conta 430mila clienti, o Tinaba che promette di trasformare lo smartphone in un portafoglio.

UN MERCATO CHE PUNTA AL RADDOPPIO

Nel 2021, secondo uno studio di Cap Gemini e Bnp Paribas, i pagamenti digitali nel mondo arriveranno a raddoppiare i valori attuali, toccando gli 880 miliardi. In Italia, dove solo il 28% delle transazioni avviene senza denaro contante, lo spazio di crescita appare più ampio che mai.

Stefano di Tommaso




CRESCITA ECONOMICA : TUTTO DIPENDERÀ DAGLI INVESTIMENTI

Il 2019 ha quasi compiuto un mese di vita e si è presentato fino ad oggi ai mercati finanziari come un anno le cui prospettive di crescita economica globale sono difficili da interpretare ma sicuramente è stato foriero di cospicui rialzi di borsa nonché di una decisa stabilizzazione dei rendimenti (che si sono addirittura ridotti).
Persino la volatilità si è data una regolata, dopo un Dicembre da brivido. Ciò è accaduto piuttosto inaspettatamente a partire dal periodo di Natale, dopo mesi preoccupanti di borse in ribasso e di grandi tensioni geo-politiche, e nonostante che molti risparmiatori hanno liquidato le loro posizioni nei fondi di investimento.
A influenzare positivamente i mercati è intervenuto anche il cambio di atteggiamento delle banche centrali, che fino all’anno passato sembravano avviate in direzione “ostinata e contraria” a continuare con il raffreddamento monetario e la risalita dei tassi.

 

UN AUTUNNO DIFFICILE

Quello appena trascorso è stato un autunno-inverno denso di tensioni e guerre psicologiche, commerciali e politiche: è difficile definire diversamente non soltanto quella (ancora) in atto tra l’America e la Cina, ma anche quella che abbiamo vissuto nello stesso periodo tra il nuovo Governo Italiano e la vecchia classe dirigente dell’Unione Europea. Magicamente invece, nell’anno appena iniziato non solo l’inflazione ha mostrato di essere un fantasma e il petrolio è risultato in ribasso, ma persino le prospettive dell’economia reale sembrano decisamente meno peggiori di quel che si poteva ritenere.

IL MIGLIOR GENNAIO DAL 1987

Dunque ciò che è accaduto nella prima parte del 2019 è che per le borse è stato il miglior mese di Gennaio dal 1987). Nel grafico a destra l’indice MSCI WORLD (che rappresenta l’andamento medio delle borse di tutto il mondo nell’ultimo mese):

Quel che stupisce di più è che è possibile che il trend al rialzo delle borse addirittura prosegua anche nei prossimi mesi, nonostante il pessimismo che si è respirato a Davos, diffuso tra i grandi leader del mondo radunati per il World Economic Forum, nonostante i forti venti della mini-recessione europea d’autunno abbiano fatto temere i più per il peggio (i soliti Tedeschi avevano già aperto l’ombrello prima della pioggia con l’indice IFO ai minimi storici) e nonostante che quei timori abbiano immediatamente amplificato altri timori: quelli riguardanti la conseguente possibile fragilità dei debiti pubblici di molti Paesi sovraindebitati, come il nostro.

I CONSUMI RISTAGNANO

Ammettiamolo. Sicuramente alla fine del 2018 (e altrettanto sicuramente all’inizio del 2019) l’economia mondiale ha subìto una forte frenata, complici molte concause sbandierate dal “mainstream” (cioè i giornali, le televisioni e gli opinionisti prevalenti): dai populismi alla Hard Brexit, dal Blocco della spesa degli uffici del Governo Americano alla protesta dei Gilet Gialli, eccetera eccetera… Ma probabilmente la causa principale della frenata dello sviluppo economico globale poco ha a vedere con tutto ciò: dopo l’avvento di un ciclo economico positivo (che è risultato estremamente longevo nei Paesi Anglosassoni, sin troppo roboante in quelli Asiatici e molto più recente ma al tempo stesso estremamente fragile in quelli Latini), i consumi di beni e servizi in tutto il mondo hanno mostrato un’intrinseca tendenza alla flessione, com’è d’altronde normale dopo un lungo periodo di bonanza.

GLI INVESTITORI SONO DUBBIOSI

Al tempo stesso anche gli investimenti hanno segnato il passo: “Si investe per produrre, si produce per vendere. Se non sono in grado di sapere che ci sarà qualcuno pronto a comprare, io smetto di investire” ha detto al World Economic Forum Angel Gurrìa, Segretario Generale dell’OCSE. Ma questo non significa necessariamente che il mondo sia inevitabilmente avviato verso la recessione, almeno non sùbito.

Le abitudini della gente stanno cambiando radicalmente e così anche i panieri di spesa, quelli su cui si basano le attese statistiche di inflazione. Crescono ugualmente infatti quella sanitaria, quella per gli adeguamenti tecnologici, quelle per la formazione e l’istruzione. Cresce persino la spesa per alimenti più sani e di migliore qualità. Decresce la spesa per accessori e gadgets, per l’arredo e l’abbigliamento, e scendono gli acquisti per autoveicoli, elettrodomestici e altri beni di uso durevole. Cioè gli oggetti che erano più “glamour” in passato ma che interessano meno ai “millennials” (le nuove generazioni divenute adulte). Di conseguenza anche gli investitori si orientano diversamente nel selezionare i settori industriali più interessanti.

LE STATISTICHE INGANNANO

Ma il punto è che molti servizi oggi non sono più oggetto di spesa monetaria a causa dell’avvento della “digital sharing economy” ma essi creano ugualmente benessere per chi li ottiene e ricchezza per chi li produce. Arrivano inoltre sul mercato i primi prodotti e servizi basati sull‘intelligenza artificiale (si pensi ad “Amazon Alexa”, o ai sistemi esperti di assistenza alla guida dei veicoli, al fintech e all’insurtech, eccetera…) e c’è chi è pronto a scommettere che l’invasione di questi ultimi determinerà una vera e propria rivoluzione, tanto economica quanto sociologica, immettendo presto nuova benzina nel motore della crescita economica globale.

C’E TROPPO PESSIMISMO

Proprio a Davos, dove è noto che le previsioni ivi formulate al termine di ciascun Forum dell’ultimo decennio sono quasi sempre risultate sbagliate, al Segretario dell’OCSE ha fatto eco il Presidente Cinese Xi: “c’è troppo pessimismo”! Dello stesso avviso il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “il prodotto interno lordo italiano crescerà come previsto” ovviamente se gli investimenti avranno luogo, ha aggiunto.

E probabilmente la chiave è tutta qui: nel trovare il modo di mantenere alta la fiducia e nel continuare in ciò che quest’anno sarà probabilmente più facile fare che non l’anno prossimo (quando magari un possibile d’inflazione potrebbe anche arrivare a manifestarsi, rialzando i tassi di interesse): incentivare gli investimenti tecnologici e supportare quelli infrastrutturali. La Cina sta tenendo fede a quanto pianificato in precedenza, ovvero sta mantenendo in corsa gli investimenti pubblici e sta cercando di stimolare quelli privati, immettendo altra liquidità nel sistema, esattamente quello che l’Europa sembra oggi non voler fare.

L’IMPORTANZA DELLE ELEZIONI EUROPEE

Ed è forse anche per questo motivo che le elezioni europee che si terranno a primavera potrebbero risultare determinanti affinché il vecchio continente non cada in una crisi di sfiducia (con tutto quello che ne consegue a livello economico): per riuscire a mantenere la rotta sul fronte della crescita economica, la quale tra l’altro resta l’unico vero antidoto al rischio di default del debito pubblico italiano bisogna cambiare le teste che lo guidano. È infatti oramai chiaro a tutti che quella dell’austerità, promossa sin dai tempi della grande crisi dalla vecchia classe dirigente europea, è la ricetta sbagliata (nel migliore dei casi) o addirittura uno strumento di sottomissione (nel peggiore).

I MERCATI FINANZIARI NON SI AGITANO

Nel frattempo i mercati finanziari non scontano oggi alcuna recessione nè l’ombra di alcuna fiammata inflazionistica, anzi restano piuttosto tranquilli, esattamente come era successo durante il fuoco di paglia delle tensioni internazionali nate a valle degli screzi “balistici” tra Giappone e Corea del Nord, esattamente come quando il Medio Oriente sembrava una polveriera pronta ad esplodere ed esattamente come è successo subito dopo il voto sulla Brexit. Chi la sa lunga cerca sicuramente di mettere ancora un po’ di fieno in cascina per tempi peggiori che potrebbero sempre arrivare, ma sa anche che magari non arriveranno sùbito, non così rovinosamente, e non senza che si prepari nel sottofondo una nuova stagione della crescita dei profitti legata all’avanzata delle nuove tecnologie.

Molto ovviamente dipenderà dal comportamento degli investitori ma ancor più da parte dei governi e delle banche centrali, le quali come dice il nome risultano (e risulteranno anche in futuro, almeno per un po’) sempre più “centrali” nelle decisioni di investimento e nel determinarne il loro costo. Una responsabilità importante ma che esse hanno mostrato sino a questo momento di voler prendere molto sul serio!

Dunque se una recessione globale prima o poi arriverà, questa volta forse non dipenderà dal sistema bancario e finanziario. E se ciò risultasse una previsione corretta anche la portata del suo impatto sarà minore. Potrebbe essere questo il motivo per cui le borse non sembrano al momento avviate ad alcun inesorabile declino…

 

Stefano di Tommaso




IL 2019 POTREBBE ESSERE L’ANNO DELLE INFRASTRUTTURE

Vediamo insieme i numerosi motivi perché ciò potrebbe e dovrebbe accadere. Esistono molte opportunità che ciò avvenga ma anche mille ostacoli allo sviluppo degli investimenti infrastrutturali, come è possibile leggere qui di seguito.

 

C’È PIÙ BISOGNO DI INFRASTRUTTURE

Il mondo non ha mai percepito così tanto il bisogno di investimenti infrastrutturali tanto quanto lo sente oggi, in funzione del bisogno di godere appieno dei benefici dell’era digitale con sistemi di comunicazione evoluti, interattivi e intelligenti, della necessità di abbreviare gli spostamenti di persone e merci e al tempo stesso in funzione della necessità di rendere lo sviluppo tecnologico compatibile con le esigenze di protezione dell’ambiente (inquinamento, surriscaldamento globale, consumismo, ecc…), dunque innovando nelle modalità per farlo e non semplicemente viaggiando di più o potenziando gli apparati già esistenti.

Ne consegue che oggi lo sviluppo degli investimenti pubblici così come di quelli produttivi incontra un oggettivo limite nella necessità di allocarli in un “ambiente” più evoluto di quello attuale, che ne favorisca -con gli adeguati investimenti infrastrutturali- tanto le prospettive di ulteriore sviluppo tecnologico, quanto il ritorno economico. Parliamo quindi di reti digitali in fibra ottica, di autostrade pan-continentali, di ferrovie superveloci e super-efficienti, di energie da fonti rinnovabili, di sistemi logistici integrati e automatizzati, di tele-sanità, di reti idriche e sistemi ambientali che consentano il riciclo di acque e rifiuti, eccetera.

I DEBITI PUBBLICI HANNO FRENATO GLI INTERVENTI GOVERNATIVI E LASCIATO PIÙ SPAZIO A QUELLI PRIVATI

Mentre apprezziamo tuttavia i vantaggi per il business e per la qualità della vita che possono scaturire da questi investimenti “di sistema”, viviamo al tempo stesso nella consapevolezza che i governi nazionali non potranno fare granché per il loro sviluppo senza l’apporto essenziale di ingenti risorse provenienti dal mercato dei capitali, dato il gigantesco indebitamento collettivo che limita la capacità di spesa autonoma dei singoli governi.


Il timore di non riuscire a sostenere il servizio del debito e quello di andare a sollevare incresciose questioni di salvaguardia del territorio, di legalità e di possibili incrementi delle disuguaglianze sociali che possono derivare dalle ingenti risorse che vengono profuse in investimenti infrastrutturali è quantomai fondato, eppure a ben vedere esiste sempre un modo per conciliare le diverse istanze sociali se si guarda con più attenzione agli sviluppi futuri, al reddito ulteriore che gli investimenti stessi possono generare, e se nell’affrontarli si riesce a rifuggire dalle posizioni strettamente partigiane.

UNO STIMOLO PER L’ULTERIORE SVILUPPO ECONOMICO

L’opportunità da cogliere nell’affrontare l’argomento senza guardarsi troppo indietro è d’altronde assolutamente reciproca: i finanziamenti e i capitali privati rimangono essenziali per far ripartire il circolo virtuoso che trasforma il denaro speso negli investimenti in maggior prodotto interno lordo, ma d’altra parte un contesto normativo, fiscale e burocratico favorevole rimane essenziale affinché chi deve decidere di allocare le proprie risorse possa percepire un minor rischio e la possibilità di non cadere trappola di quegli eccessi di tassazione o di inflazione che porterebbero a zero il rendimento netto atteso.

Fino a ieri una cultura collettiva eccessivamente incline alla scarsa efficienza produttiva, al relativo controllo di qualità e durabilità delle strutture, all’eccesso di tassazione e di welfare sociale, alla tendenza alla spesa pubblica (corrente) indiscriminata, e a considerare “normale” l’instabilità finanziaria e valutaria, hanno decisamente ridotto l’appetito degli risparmiatori per avventurarsi a sottoscrivere quote di investimenti nelle public utilities, nelle grandi opere infrastrutturali, o nei servizi di pubblica utilità.

Il risultato (soprattutto nei paesi più arretrati dal punto di vista istituzionale, come il nostro) è risultato essere una decisa penuria di quegli investimenti oppure un’eccessiva rendita di posizione per quei gruppi privati che, ben posizionati dal punto di vista delle relazioni politiche hanno potuto ottenere dai legislatori trattamenti di “ampio riguardo” (vedi ad esempio: Autostrade per l’Italia) e, inevitabilmente, una scarsa attenzione all‘efficienza in nome della concorrenza e della pubblica utilità.

UNA NUOVA COSCIENZA COLLETTIVA

Chi più chi meno nel mondo quasi tutti i Paesi evoluti hanno accumulato un ritardo negli investimenti in grandi opere infrastrutturali, e dunque un relativo disinteresse del settore privato ad investire in tale campo.

Nel corso delle campagne elettorali degli ultimi anni pertanto molto spesso si sono pronunciati discorsi favorevoli nella direzione di una maggiore attenzione a fattori così importanti per il progresso dell’umanità, ma sino ad oggi è stato piuttosto difficile vedere un avanzamento oggettivo, anche a causa dell’inasprirsi della lotta politica tra fazioni e portatori di specifici interessi di lobbying. L’umanità percepisce però in modo più netto la necessità di ricreare contesti favorevoli per l’evoluzione della civiltà ed è inoltre sempre più benestante: dunque è più bisognosa di nuove infrastrutture che possano permetterle di diffondere l’istruzione, le comunicazioni e la facilità degli spostamenti. Dunque la percezione del valore intrinseco degli investimenti infrastrutturali ne risulta accresciuta, così come di conseguenza l’attenzione della politica verso tali necessità.


I TASSI BASSI E LA VOLATILITÀ DEI MERCATI FINANZIARI HANNO CREATO UNA FANTASTICA OCCASIONE PER PROFITTARNE

Bisogna poi considerare che, all’alba del nuovo anno, i mercati finanziari rifuggono dal rischio delle borse e tendono ad affogare nella liquidità (sempre meno allocata nelle speculazioni finanziarie) e chi deve allocare del risparmio gestito si confronta con il rischio di ridurre al lumicino i rendimenti reali di chi investe in azioni e obbligazioni e l’investimento in fondi infrastrutturali costituisce un’alternativa interessante all‘investimento in immobili con caratteristiche simili e forse migliori quanto al rapporto rischio/rendimento.

Se ci aggiungiamo che i grandi organismi sovranazionali che oggi risultano decisamente meno centrali di qualche anno fa nel loro ruolo di sostegno allo sviluppo economico globale potrebbero riorientarsi proficuamente nel cooperare tra loro e con i governi nazionali al fine di determinare uno sforzo collettivo idoneo a catalizzare risorse e attenzione dei media verso il vastissimo mondo delle iniziative infrastrutturali collettive. Potrebbe risultare una mossa “win-win” utile a tutti e foriera di ulteriori sviluppi, mentre le terribili prospettive di “stagnazione secolare” paventate (non troppo a torto) da taluni economisti che misuravano il decrescente rendimento marginale dei capitali in un contesto saturo e privo di lungimiranza, si vedrebbero finalmente sventate alla loro radice.

IL BOOM DEI FONDI INFRASTRUTTURALI

Secondo la società di analisi statistiche Preqin l’anno 2018 ha visto gli investitori allocare nel mondo (principalmente anglosassone) ben 85 miliardi di dollari nei fondi di investimento infrastrutturali, il 13% in più che nel 2017 (75 miliardi), con la prospettiva che nel 2019 quella cifra salirà ancora significativamente, spostando a questo settore anche parte delle risorse a disposizione dei fondi di private equity e private debt. Non a caso peraltro: i tassi di interesse restano bassi è invece le occasioni di buoni affari sul fronte delle iniziative da finanziare si moltiplicano, mentre le alternative agli investimenti infrastrutturali in questo momento appaiono sempre meno interessanti.

La speranza è perciò che una tendenza dei mercati finanziari che ha origini strettamente opportunistiche possa invece tramutarsi anche in un beneficio per il mondo civile e, segnatamente, anche per i Paesi in via di sviluppo, dove per le infrastrutture si ravvisano le sfide più ardue ma anche i ritorni più elevati sul capitale investito.

Stefano di Tommaso