INDIETRO TUTTA ?

Se ai mercati finanziari la scorsa settimana non è bastata nemmeno la doppietta di buone notizie di una possibile tregua nelle guerre commerciali in corso e del mutato atteggiamento delle banche centrali che avevano recentemente dichiarato di essere pronte a rivedere la loro volontà di procedere con i rialzi dei tassi d’interesse, il ragionamento che ne consegue è che la loro situazione è forse più grave di quello che sembrava.

 

La settimana appena conclusa ha lasciato infatti i mercati con la bocca amara, nonostante le ottime aspettative che avevano fatto seguito alll’ultimo meeting dei maggiori governanti del mondo: il G20 di Buenos Aires. Ufficialmente si è parlato del riacuirsi dei timori di uno scontro sempre più frontale tra Stati Uniti d’America e Cina, dopo l’arresto (chiesto dagli americani) della figlia di uno dei maggiori imprenditori dell’estremo oriente, apparentemente sulla base di capi d’accusa molto relativi (la violazione del bando americano sulle forniture all’Iran).

La verità sembra però essere ben più grigia: ai mercati finanziari della figlia del signor “Huawei” non sarebbe probabilmente interessato affatto se, per le relazioni tra i due paesi, questo non fosse stato un episodio paragonabile all’attentato di Sarajevo (che costò la vita poco più di un secolo fa al principe ereditario d’Austria e divenne il “casus belli” che dette inizio al deflagrare della prima guerra mondiale), scoprendo d’un tratto una verità ben diversa da quella raccontata dagli organi di stampa: gli U.S.A. hanno molto da recriminare circa i comportamenti commerciali poco ortodossi delle industrie cinesi, e non intendono chiudervi un occhio in nome di una ritrovata armonia!

UNA TERRIBILE COINCIDENZA DI CIRCOSTANZE NEGATIVE

Il vero punto della questione però è che nemmeno la gravità della guerra commerciale in corso sarebbe poi così importante per l’umore dei mercati finanziari, se non fosse che va a coincidere temporalmente con:
•una riduzione progressiva della liquidità disponibile e il rialzo dei tassi di interesse (entrambi programmati dalle banche centrali)

•la volontà degli investitori professionali di realizzare le laute plusvalenze accumulate in quasi un decennio di borse crescenti,

•l’inizio di una discesa della fiducia dei consumatori,

•l’allarme recessione lanciato dagli economisti che da tempo indicano una elevata correlazione statistica della fine di un ciclo economico positivo con l’inversione della pendenza della curva dei tassi di interesse (per cui se il differenziale dei rendimenti a breve con quelli a lungo termine si azzera, allora si crea una situazione “innaturale”)

•il ripetuto allarme circa la dimensione nuovamente raggiunta dagli strumenti finanziari derivati (paragonabile soltanto a quella toccata prima della grande crisi del 2008) e dunque del rischio che il castello di carte della speculazione possa abbattersi con sfracello sull’economia reale, ma soprattutto che esso possa travolgere le più importanti banche del mondo, mettendo di nuovo a rischio i capisaldi del sistema internazionale.

 

I RISCHI DI TENUTA DEL SISTEMA BANCARIO

Degli argomenti di preoccupazione testè citati è forse l’ultimo quello peggiore di tutti, soprattutto per il continente europeo, perché è da noi che le imprese piccole e medie più dipendono dai finanziamenti del sistema bancario (anche a causa di un mercato dei capitali relativamente sottosviluppato) e dunque è da noi che un’eventuale nuova crisi del sistema bancario può fare i danni peggiori.

A ingrigire il quadro ci si mette dunque la prospettiva di un prossimo anno molto difficile per i Paesi appartenenti all’Unione Europea, già gravati da un eccesso di tassazione (a sua volta derivante dalla necessità di finanziare un eccessivo indebitamento pubblico)

I RISCHI POLITICI E DI TENUTA DEI CONTI PUBBLICI

E adesso anche travolti anche da un deciso ricambio in corso delle leadership politiche (con tutto quello che ne consegue in termini di rischi di dissoluzione della moneta unica)

e al tempo stesso con il rischio che le esportazioni (su cui molto si è basata la loro relativa salute economica fino ad oggi) possano in definitiva venire seriamente danneggiate dalle guerre commerciali e dalla possibilità che molti Paesi Emergenti entrino in default finanziario a causa del caro-Dollaro.
A corroborare poi l’attesa complessiva di una vera e propria frenata della crescita economica globale ci si sono messe infine la discesa del prezzo del petrolio (stranamente proprio all’arrivo della stagione fredda) è un drastico calo delle vendite dei beni di consumo durevole, primi fra tutti gli autoveicoli!

Mettendo insieme tutti i tasselli del mosaico quello che ne consegue è che i tempi di vacche grasse per i profitti aziendali e per gli investimenti tecnologici potrebbero essere già un ricordo all’inizio del 2019, cioè un anno almeno in anticipo sulle previsioni che circolavano ancora poche settimane fa.

 

IL GIOCO PERVERSO DELLE ASPETTATIVE CHE SI AUTOREALIZZANO

Al di là dunque di un possibile rimbalzo delle borse valori nei prossimi giorni, i forti ribassi della settimana appena trascorsa hanno acceso una luce sinistra sulla probabilità che le reali prospettive dei mercati finanziari globali siano peggiori di quanto la maggioranza degli operatori economici era disposta a credere fino a ieri.

•E se dovesse prevalere lo scoramento collettivo sarebbe sufficiente quest’ultimo per mandare il mondo anticipatamente in recessione, a causa del perverso gioco delle aspettative che si autorealizzano e degli investimenti (tanto quelli industriali come quelli strutturali) che rischiano di bloccarsi a causa della riduzione delle disponibilità finanziarie per sostenerli.

Stefano di Tommaso




BORSE: ADESSO È POSSIBILE UN MINI-RALLY DI NATALE

Il vertice di Buenos Aires del G20 almeno una nuova buona sembra averla portata: un vero protocollo di intesa tra America e Cina. Sembra infatti che nel corso del vertice Trump e i suoi colleghi abbiano “strappato” al presidente Xi la promessa di un sostanziale riequilibrio della bilancia commerciale tra U.S.A. e Cina, accogliendo le istanze della Casa Bianca, da molto tempo lasciate inascoltate.

 

I meglio informati dicono che i vertici cinesi hanno preso atto del fatto che l’intera classe politica americana so era oramai convinta della necessità di ciò e che non potevano più puntare sull‘indebolimento di Donald Trump per uscire dalla stretta cui il suo governo l’aveva sottoposta. A dirla tutta ha fatto la sua parte anche l’estrema decisione con la quale gli americani avevano evocato la minaccia di un‘escalation delle sanzioni, equivalenti a una vera e propria crociata giustizialista contro la Cina.


Ciò corrisponde a una doppia buona notizia per i mercati, dal momento che se alle dichiarazioni seguiranno i fatti, non solo verranno meno le prospettive di riduzione della crescita del commercio mondiale (e con esse quelle di una forte frenata dello sviluppo economico), ma anzi l’America vede consolidare la leadership del suo Presidente e la stabilità politica, si sa, gioca un ruolo importante nelle valutazioni degli investitori.

E se gli elefanti smettono di lottare, sono soprattutto le formiche che tirano un sospiro di sollievo!

LA CONGIUNTURA PER LE BORSE È STATA DEPRIMENTE FINO AD OGGI

Le borse erano rimaste infatti profondamente segnate nelle scorse settimane dall’ingrigire delle prospettive economiche, in parte dovute a fattori fortemente congiunturali(come il crollo dei consumi di beni fisici, la crescita dei tassi di interesse e l’approssimarsi della fine del ciclo economico espansivo) e in parte a causa del ridimensionamento delle aspettative (quali i timori sui danni all’economia globale derivanti dalle guerre commerciali, quelli della minor crescita dei profitti aziendali e quelli derivanti dagli eccessi di debito che il mondo continua ad accumulare).

Il risultato è stato una forte riduzione delle quotazioni dei titoli azionari (come si può vedere dal grafico qui riportato) sebbene una parte della medesima sia andata a beneficio dei titoli a reddito fisso.



LA SVALUTAZIONE DEL RENMINBI

Ora è possibile tornare a sperare che i due giganti economici (il P.I.L. a cambi costanti della Cina avrebbe superato quello americano già nel 2012 se non avesse ripetutamente e consistentemente svalutato il Renminbi, come si vede nel grafico).

E, dal momento che una delle conseguenze più gravi del deflagrare della guerra commerciale tra U.S.A. e Cina è stato il brusco rafforzamento del Dollaro (praticamente contro qualunque altra divisa), le principali vittime dello scontro sono state le economie più deboli del pianeta, troppo spesso stra-indebitate in Dollari e per questo motivo a rischio di default di Stato. Non solo: come ricorderanno tutti anche la politica di rialzi dei tassi portata avanti dalla Federal Reserve Bank of America (FED) ha attratto capitali nell’area-Dollaro, riducendo la liquidità degli altri mercati finanziari e provocando un travaso di ricchezza dalle economie deboli a quelle più forti.

LA MOSSA DI POWELL

Neanche a farlo apposta invece lo scorso Mercoledì Jerome Powell, Governatore della FED, ha preso i microfoni e ha fatto un discorso diverso dal solito, con un tono diverso dal solito, affermando che gli attuali tassi di interesse sono “appena sotto” le stime di un tasso “neutrale” rispetto all’inflazione. Traduzione nel linguaggio dell’uomo della strada : forse non ci sarà più bisogno di continuare con il rialzo dei tassi di interesse anche perché le stime sull’inflazione sono assai moderate. Le borse hanno festeggiato il cosiddetto “Powell Put” (la mossa di Powell)con dei rialzi e, adesso che è arrivata l’altra buona notizia, quella di uno stop alle guerre commerciali con la Cina, sono pronte a festeggiare il Natale con un bel rialzo.


I motivi della possibile ripresa delle borse vanno anche al di là dei due fattori precedentemente citati: la forte correzione dei corsi ha determinato probabilmente una situazione speculativa di “iper-venduto” sui mercati che ora va ricoperta in fretta. Inoltre la notizia indirettamente fornita da Powell ai mercati è che l’inflazione dei prezzi nemmeno questa volta sta correndo, dunque i consumi non sono surriscaldati nè i salari sono cresciuti troppo. Dunque l’economia americana è più sana di ciò che si poteva pensare solo qualche giorno fa e avrà forse la forza di tornare a fare da traino alle altre nel mondo.

Ma se proviamo a stimare quanto potrebbe durare l’euforia, nessuno ha risposte certe. La Cina potrebbe aver soltanto aver “comperato tempo” nel braccio di ferro con l’America (anche se stavolta appare improbabile) e gli operatori sono comunque all’erta perché è indubbio che il ciclo economico si trovi ad uno stadio molto avanzato di maturità.

Mentre quindi qualche slancio in avanti la speculazione lo farà di sicuro, altri potrebbero essere tentati di cogliere l’occasione per vendere al meglio le loro posizioni residue. Il combinato effetto delle due forze potrebbe dunque tendere all‘ annullamento reciproco. Nemmeno la banca centrale americana poi è così certo che abbia finalmente smesso di incrementare i tassi d’interesse: sè nuove fiammate inflazionistiche dovessero alla fine fare la loro comparsa probabilmente non solo lei, ma anche le altre maggiori banche centrali potrebbero fare qualche mossa in avanti, con il risultato che i mercati finanziari tornerebbero a deprimersi.

Siamo e rimarremo nel campo delle ipotesi, sebbene qualche ventata di ottimismo abbia sicuramente percorso l’America durante il fine settimana, risalendo velocemente le Ande, da Buenos Aires fino a farsi sentire nella valle dell’Hudson!

Stefano di Tommaso




LA BOLLA SPECULATIVA DEI LEVERAGED LOANS

C’erano una volta le banche ordinarie. Quelle che traevano dall’erogazione del credito la loro principale fonte di sostentamento, raccogliendo depositi ad un tasso più basso di quello dei prestiti che concedevano. Negli anni questa figura è sostanzialmente cambiata per mille e una ragione e oggi le banche -anche quando ancora erogano prestiti in misura prevalente- in realtà guadagnano soprattutto da commissioni, intermediazioni e consulenza, vivendo il reddito che proviene dalla gestione del denaro in forma residuale e, soprattutto, erogando prestiti quasi soltanto a chi non ne ha bisogno (ovviamente a tassi poco interessanti).

 

IL PRIVATE DEBT

Il cosiddetto “private debt” non passa ovviamente soltanto dalle BDC ma anche da “fondi di debito” (che funzionano comunque come gli altri fondi di private equity e spesso sono amministrati dagli stessi soggetti), dai cosiddetti “private placements” (animati soprattutto da investitori istituzionali e quasi sempre rivolti a soggetti aziendali in grado di esibire un rating) e in generale da tutti coloro che possono permettersi di emettere “bond” (ovvero obbligazioni) e riuscire a piazzarli presso investitori di ogni sorta. Il mercato di riferimento del “private debt” è ovviamente quello delle fusioni e acquisizioni, spesso associate all’intervento di banche d’affari o, più frequentemente, di fondi di “private equity”. Quest’ultimo settore è stato stimato che in Ottobre sedesse su una liquidità superiore a 1.100 miliardi di dollari e che, ciò nonostante, il numero di operazioni completate nel mondo fosse pari a circa 1200, con un valore delle operazioni di buy-out completate alla fine di Ottobre superiore al 91% di tutte quelle del 2017 (cioè in forte crescita).

L’ECCESSO DI LEVA FINANZIARIA

Questa intensità (e forte disponibilità di capitali per nuove operazioni) si associa a valutazioni crescenti delle imprese oggetto di tali operazioni e a crescente richiesta di finanziamenti per l’acquisto in leva, con un fattore di leva in costante crescita (siamo arrivati ad una media di quasi 7 volte l’EBITDA: vale a dire poco meno del doppio di quanto si presume sia il limite fisiologico di tali operazioni e poco distanti dagli eccessi del 2007, poco prima della grande crisi).

LE “BUSINESS DEVELOPMENT COMPANIES”

Nei paesi anglosassoni però -caratterizzati da minore regolamentazione e minori vincoli burocratici- ad erogare credito ai soggetti economici meno solidi sono intervenuti altri attori: in particolare le cosiddette “Business Development Companies” (in sintesi: BDC), che hanno rispolverato la vecchia tradizione del credito basato sulla disamina della capacità individuale attingendo risorse non già ai depositi dei risparmiatori, bensì ad un mercato molto più vasto: quello dei capitali. I depositi bancari sono infatti una specie che non è ancora in via di estinzione (ma quantomeno di assottigliamento dei relativi volumi) anche a causa delle politiche di tassi quasi a zero praticate dalle banche centrali.

Mentre invece il mercato dei capitali è sempre più liquido e continuamente alla ricerca di nuove vie di impiego capaci di assicurare margini consistenti all’impiego delle proprie risorse liquide, anche scendendo a compromessi sulla relativa rischiosità. Il fenomeno delle BDC in America ha raggiunto il mirabolante volume di quasi 100 miliardi di dollari di prestiti erogati !

Le BDC sono sorte tuttavia principalmente in America, con la logica di andare a occupare uno spazio di mercato -quello dei “debiti a più alto rischio”- che è stato lasciato sostanzialmente libero dalle banche per tutti I motivi di cui sopra. I cosiddetti “leveraged loans” sono comparsi per tornare a far accedere al credito i soggetti piu marginali del mercato: magari quelli che hanno le migliori idee o le più acute competenze, ma sicuramente caratterizzati da scarsissima qualità del merito di credito e/o di patrimonio adeguato, oppure che intendono proporre operazioni estremamente rischiose per le quali i normali criteri di contabilizzazione del credito lascerebbero poco spazio alle banche ordinarie senza destare sospetti sulla loro affidabilità di lungo termine.

LA “PATATA BOLLENTE” DEI RISCHI SUL CREDITO PASSA DALLE BANCHE AI RISPARMIATORI

I leveraged loans hanno potuto godere inoltre dello sviluppo del mercato delle cartolarizzazioni, visto che le banche riescono con facilità a “impacchettare” queste obbligazioni e venderle a investitori del mercato dei capitali. In particolare c’è stata una notevole crescita delle collateralised loan obbligations (CLO). Le cartolarizzazioni c’erano anche prima della grande crisi, ovviamente. Ma a differenza di allora, quando i titoli che ne rivenivano circolavano all’interno del sistema bancario, adesso le nuove regole sono più restrittive e obbligano le banche a disfarsene per la maggior parte.

E qui viene il bello: la “fame di rendimenti positivi” che si è creata sul mercato dei capitali ha fatto crescere la domanda di prestiti “speculativi”, mentre l’ampliarsi del numero di acquisizioni e fusioni in tutto il mondo ne ha fatto lievitare anche l’offerta. Negli Stati Uniti, quasi il 40% delle emissioni di prestiti leveraged è ascrivibile a acquisizioni ristrutturazioni societarie come fusioni, acquisizioni e operazioni di leveraged buyout”, spiega la Bis. La cartolarizzazione dei crediti e la nuova regolamentazione imposta dalle banche centrali ha insomma fatto sì che la patata bollente dell’espansione del debito ad alto rischio sia stata passata dai bilanci delle banche ai fondi pensione, ai gestori di patrimoni e agli altri emittenti di titoli che finiscono in un modo o nell’altro nelle tasche dei risparmiatori.

CLAUSOLE TROPPO BLANDE

Purtroppo il fenomeno dell’espansione dei “leveraged loans” da un lato poggia su una domanda da parte dei sottoscrittori che, fino a poche settimane fa, non faceva che crescere, dall’altro lato si associa fortemente ad un rilassamento dei criteri di erogazione del credito che viene concesso: i sottoscrittori, pur di spuntare qualche decimale di rendimento in più, sono stati disposti ad accettare un minore protezione contro il deterioramento della capacità di rimborso dei debitori, allentando decisamente le clausole dei contratti. E questo spiega il notevole aumento dei prestiti cosiddetti “covenant-lite” che ha raggiunto il suo massimo a metà 2018.


Inoltre la forte domanda degli investitori per i prestiti leveraged ha favorito l’attività di rifinanziamento di quelli esistenti. Negli Stati Uniti, per esempio, il rifinanziamento di debiti pregressi rappresenta circa il 70% delle emissioni di titoli che vanno a finanziare i “leveraged loans”. Questa quota è cresciuta costantemente fino alla prima metà del 2018.

IL RISCHIO DI SCOPPIO DELLA BOLLA SPECULATIVA

Il problema ovviamente per ora potrebbe essere destinato a rimanere sulla carta, dal momento che l’economia globale è ancora in espansione e il tasso di “default” dei prestiti ad alto rischio (i leveraged loans, appunto) in America è in crescita ma è pur sempre al 2,5%. Tutt’altra faccenda sarà quando l’economia inizierà seriamente a rallentare e il tasso di insolvenza crescerà (ovviamente in modo accelerato sui prestiti a più alto rischio). Ma la verità è peggiore: la maggior parte degli strumenti che alimentano di liquidità il sistema dei prestiti ad alto rischio è -almeno negli U.S.A.- data dagli ETF (Exchange Traded Funds), che stanno soffrendo nelle ultime settimane di una forte richiesta di rimborsi da parte dei sottoscrittori, trovandosi dunque costretti a vendere (anche in perdita) i titoli che avevano sottoscritto quando la marea andava in direzione opposta.


Stefano di Tommaso




BORSE:VEDREMO IL RALLY DI FINE ANNO?

Dopo molte settimane di debolezza dei mercati finanziari (e in particolare delle borse) si moltiplicano le attese di un rimbalzo, non fosse altro che per motivi statistici o per le ricoperture degli speculatori al ribasso. O ancora, se si vuole ascoltare le gole profonde del mercato, a causa della necessità dei gestori di patrimoni, giunti a fine anno, di ammantare le scarse performances del 2018 con una vernice non troppo negativa. Ma quante chances ci sono che il rally parta davvero? E quanto durerà?

 

WALL STREET

La statistica può darci una mano guardando da un lato al grafico di copertina, che segnala un rimbalzo significativo dell’indice globale delle borse mondiali (in Dollari) riportandolo nell’ultima settimana esattamente sulla media dell’ultimo anno, e dall’altro lato al grafico qui sotto riportato, che mette a raffronto l’andamento stagionale (per settimana) storico medio di Wall Street (da sempre la piazza finanziaria che dà l’impostazione a tutte le altre) dalla prima alla 52.sima settimana dell’anno, comparato con l’andamento effettivo dell’indice Dow Jones nel 2018 fino all’inizio di Novembre:

 

Come si può osservare, per Wall Street l’impostazione dell’intero anno 2018 (linea blu) appare un po’ sotto tono ma sostanzialmente in linea con la media stagionale di lungo periodo (linea rossa) ma dobbiamo tenere conto del fatto che negli ultimi anni è la piazza finanziaria che è cresciuta di più e dove c’era da attendere le maggiori prese di beneficio.

L’andamento del Dow Jones nel 2018 tuttavia rispecchia la stagionalità media soltanto fino alla 41.ma settimana (seconda di Ottobre), quando invece esso fa uno scivolone significativo (si veda il mio articolo del 19 Ottobre u.s.) e inverte la tendenza al rialzo che normalmente lo caratterizza intorno alla fine dell’anno.

PIAZZA AFFARI

Come si può riscontrare dal grafico qui riportato, più o meno la stessa cosa avviene nel medesimo periodo alla Borsa Italiana (sebbene l’impostazione annuale fosse ancora peggiore) salvo un recente rimbalzo ancora più deciso di quello americano, probabilmente a causa di una maggiore incidenza delle ricoperture degli speculatori al ribasso, che è notorio siano nelle ultime ottave più pesantemente presenti sul nostro listino:

 

UN MINI-RALLY DI FINE ANNO LO ATTENDONO IN MOLTI

Cosa succede dunque: proseguirà l’andamento negativo anche nel corso del prossimo mese (fino alla vigilia di Natale) o si invertirà? La risposta esatta sarebbe: “dipende”, ma è anche la più scontata. Anticipiamola subito allora: probabilmente no, il rimbalzo ha tutte le premesse per poter proseguire. Gli analisti danno una probabilità del 75% che il mese a venire chiuda positivamente per Wall Street (e ricordiamoci che c’è una correlazione statistica del 76% tra l’andamento di quest’ultima e quello della media delle altre borse internazionali). Dunque anche per quelle periferiche come Milano esiste la speranza statistica di una prosecuzione in territorio “non negativo”.

I LIMITI ALL’OTTIMISMO

Esiste tuttavia un doppio limite all’ottimismo: innanzitutto l’accresciuta volatilità :

Come si può notare dal grafico relativo all’indice VIX (di volatilità), è soprattutto dalla seconda settimana di ottobre che essa si è impennata a Wall Street (indice SP500) per poi riposizionarsi esattamente sulla media dell’anno lo scorso Venerdì.

Ma anche e soprattutto un altro limite è dettato dall’andamento dell’economia mondiale, sul quale non esistono grafici aggiornati sebbene la maggioranza degli analisti finanziari concordi sul fatto che è in corso un rallentamento della sua crescita e, soprattutto, che difficilmente si vedranno nel corso del 2019 prospettive significativamente migliori di quelle del 2018.

Dunque anche senza cadere nel pessimismo, è relativamente improbabile che la rincorsa delle borse alla performance positiva nel 2018 (o tuttalpiù meno negativa, come a Milano) possa proseguire anche oltre la fine dell’anno.

LO SPREAD

Per il nostro Paese c’è da registrare un ridimensionamento della speculazione al ribasso sui nostri titoli di Stato, registrata anche dall’andamento dello Spread con quelli tedeschi, asceso a livelli preoccupanti sempre intorno all’inizio di Ottobre (dunque con una componente “importata” di non poco conto) ma poi stabilizzatosi intorno al 3% e, nella prima parte di Novembre, addirittura ridisceso al 2,9%.

Purtroppo su questo fronte è troppo presto per cantare vittoria, ma una cosa di sicuro esso significa: la speculazione al ribasso contro il nostro Paese si è (almeno per il momento) decisamente placata, e questo sottrae uno dei pilastri più significativi alle attese di ulteriore ribasso della borsa: al momento la fuga dei capitali all’estero sembra essersi arrestata.

L’ECONOMIA GLOBALE

A livello globale tuttavia i segnali sono contrastanti: da una parte c’è l’andamento formidabile dell’economia americana che fa ben sperare possa agire da traino, almeno su quelle europee. Nel grafico qui riportato si vede un importante recupero dei salari, con una crescita dei quali (intorno al 3% su base annua) che non si vedeva da prima della grande crisi del 2008 :


Un analogo segnale positivo lo forniscono i profitti aziendali americani, cresciuti costantemente a partire dal 2016 su base annuale ben di più delle retribuzioni (in media quasi del 12% nel terzo trimestre 2018, contro una media storica dell’ultimo ventennio poco sopra l’8%), in particolare per il comparto dell’energia (63% su base annua) delle telecomunicazioni (56% su base annua) e per quello finanziario (33% su base annua):

Sul fronte negativo c’è il progressivo venir meno, dopo quasi dieci anni di costante somministrazione, della “droga” che ha esaltato le performance delle borse di tutto il mondo: l’incremento della liquidità indotto dalle banche centrali. Nel corso del 2019 infatti l’immissione netta di liquidità diverrà negativa (contro i 720 miliardi di dollari del 2018 e i 1800 del 2017) e, con questo passaggio, molti analisti si attendono di vedere le borse riprendere l’impostazione negativa che ha soltanto fatto capolino nell’ultimo scorcio del 2018.

I TASSI DI INTERESSE

Per non parlare dei rialzi dei tassi: se è vero che l’ampia anticipazione delle proprie mosse fornita dalla Federal Reserve Bank of America ha fatto sì che tutti i mercati stiano dando per scontati altri tre o quattro rialzi dei tassi di interesse, resta altrettanto vero che gli effetti degli stessi sulla risalita del Dollaro americano non potranno che incrementarsi, rischiando di mettere in ginocchio i bilanci di molti Paesi Emergenti (indebitati in Dollari) e continuando ad attirare capitali in U.S.A. facendoli fuggire dalle periferie del mondo dove essi trovavano migliori opportunità di profitto e assolvevano al compito fondamentale di finanziarne lo sviluppo.

È perciò in corso un progressivo “spiazzamento” dell’investimento azionario da parte dei titoli a reddito fisso, il rendimento dei quali non soltanto cresce, ma lascia anche molto più tranquilli gli investitori professionali e istituzionali che trovano quantomai interessante riporre oggi sotto il tetto sicuro delle cedole periodiche le plusvalenze ottenute sino a ieri nelle borse valori.

A QUANDO LA PROSSIMA RECESSIONE?

È infine attesa da tutti -al termine del 2019- la “fine del super-ciclo economico positivo” che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni di ripresa da una delle maggiori crisi finanziarie dell’ultimo secolo. L’elezione di Donal Trump ha contribuito parecchio a rinviarne il termine (atteso già alla fine del 2016) ma, mano mano che gli anni passano, l’arrivo di una periodica recessione (seppur magari non necessariamente drammatica), si fa sempre più probabile e le borse lo sanno. In quest’ottica il rimbalzo prevedibile per fine anno non può essere visto come la ripresa indefinita della crescita esponenziale delle borse per l’intero 2019, ma soltanto come un momento di assestamento.

Stefano di Tommaso