GUERRA E INFLAZIONE CAMBIANO IL MONDO

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Cosa succederà con una guerra che non accenna ancora a fermarsi e dopo gli shock da pandemia e inflazione? È probabile che ancora una volta i cambiamenti epocali accelereranno, l’umanità si spaccherà in blocchi geografici contrapposti e la democrazia finirà sotto lo zerbino. L’Europa sembra quella che avrà più da perdere da tale evoluzione dello scenario, schiacciata sulle posizioni dell’America, incapace di completare la sua unificazione e alle prese con scarse performances dei settori industriali tradizionali. Chi ci guadagnerà sono probabilmente America e Inghilterra, ma anche Cina, India e Giappone.

 

CAMBIANO LE ABITUDINI DELLA GENTE

L’Occidente è così sconvolto dai recenti eventi, dai vertiginosi incrementi dei costi, dalle sempre più ampie divaricazioni con il passato e dal confronto impietoso con sistemi geopolitici diversi dal nostro (meno democratici, ad esempio), che stavolta sembra essere caduto in una profonda crisi di identità. Inizia a prevalere l’idea che la guerra sarà lunga e il timore che le sanzioni abbiamo soltanto fatto il solletico.

Quel che rileva di più è tuttavia che gli ultimi terribili eventi determinano un’accelerazione dei cambiamenti del mondo come lo conoscevamo fino a ieri. Non soltanto a causa delle recenti emergenze sanitarie e umanitarie, della progressiva digitalizzazione, della contraddizione tra la necessità di procedere verso la transizione energetica e quella di produrre più energia. Non soltanto per la conseguenza di dover modificare le filiere produttive e distributive dell’industria a seguito dei nuovi equilibri geopolitici, ma anche per le conseguenze di tutto ciò nelle abitudini della gente, nei relativi consumi e nel calo del potere d’acquisto implicito nell’inflazione, e per le pesanti conseguenze a livello economico, industriale e finanziario per la parte più tradizionale delle attività economiche.

Ciò è tanto più vero per l’Europa, dove negli ultimi anni l’industria non si è evoluta abbastanza rispetto a quanto è successo per l’America e per i paesi asiatici in generale. Ma è soprattutto l’importazione forzosa del modello culturale americano che ci sta spingendo verso un profondo cambiamento delle abitudini e dei consumi, che sta sconvolgendo le attività economiche pre-esistenti, accentuando il solco tra le generazioni.

LE NUOVE GENERAZIONI E IL LORO APPROCCIO AL LAVORO

Il divario più radicale che stiamo vivendo in Europa è forse quello con il nostro recente passato, con l’assottigliamento della presenza dello Stato nella previdenza, nell’assistenza socio-sanitaria, nell’istruzione e nel lavoro. Ma anche con il venir meno delle precedenti modalità di interazione sociale. Il cittadino europeo medio fino a ieri poteva contare su una pensione decente, su un servizio sanitario nazionale più o meno completo, su una limitata esigenza di finanziare l’istruzione dei propri figli (perché pagata dallo Stato) ed era inoltre poco avvezzo a cambiare radicalmente datore di lavoro, luogo di residenza e attività. Oggi tutto questo sta cambiando. Oggi anche l’ultimo operaio deve eseguire i suoi compiti principalmente attraverso un’interfaccia digitale, deve adattarsi a continui e profondi cambiamenti nelle modalità di lavoro, non può più contare molto sul trattamento di fine rapporto per acquistare la propria abitazione (nel 70% dei casi in Italia il cittadino ne è proprietario) e non può contare troppo sull’entità della pensione di Stato per sopravvivere al termine della vita lavorativa.

Oggi che gli standard di lavoro europei si avvicinano in fretta a quelli americani, il cittadino medio del vecchio continente sembra però più povero ma anche meno pronto al cambiamento e alla possibilità di assumere elevati rischi nella propria attività. il rapido convergere verso una situazione generale di maggior precarietà spinge perciò innanzitutto le famiglie a ridurre la spesa per consumi. È notizia fresca ad esempio quella che la Apple prevede di produrre in questo trimestre circa il 20% in meno di iPhone SE (il più economico) rispetto a quanto originariamente preventivato. Lo riferisce Nikkei Asia, spiegando che si tratta di uno dei primi segnali che la guerra in Ucraina e l’inflazione incombente hanno iniziato a intaccare la domanda di elettronica di consumo. Stessa sorte anche per le cuffie AirPods.

Come era successo con i lockdown, anche stavolta si pensa di restare più in casa e di utilizzare più contenuti digitali in alternativa ai servizi tradizionali. Ma stavolta non è per obbligo, bensì per risparmiare. Si esce cioè, si viaggia e si acquista di meno. Anche perché il lavoro spesso è da eseguirsi ”online” oppure è saltuario o precario, o privo di un regolare contratto di assunzione. Tutti stanno pensando di fare qualcosa per risparmiare, abbassare i costi fissi e impegnarsi per spese cospicue. I tragici eventi che stiamo vivendo lasciano insomma meno fiducia nel futuro e sulla capacità di sostentamento delle famiglie nel medio termine. La sensazione è che, come per la pandemia, guerra e inflazione possano far accelerare alcune importanti discontinuità nello stile di vita, destinate a non tornare più indietro.

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CAMBIANO ANCHE LE IMPRESE E I SERVIZI

Anche per le piccole e medie imprese le modalità di accesso alle risorse economiche, così come quelle di impiego delle medesime, stanno mutando molto in fretta. La recessione che in Italia è già in corso, tende a rarefare il credito bancario tradizionale, spingendo che ne necessita verso nuove forme di finanziamento quali il crowdfunding, i minibond, i venture capital e la borsa delle piccole e medie imprese. Va però da se che le attività produttive tradizionali saranno le meno favorite da queste nuove modalità di finanza.

Tendono di conseguenza a modificarsi non soltanto le modalità di produzione e consumo, ma anche le preferenze di investimento. I nuovi risparmiatori spesso preferiscono mantenere liquidità sul conto corrente o investire direttamente in criptovalute e sul trading azionario, piuttosto che acquisire piccoli immobili o sottoscrivere polizze assicurative e fondi comuni di investimento.

Cambiano anche le modalità di finanziamento delle attività economiche (il timore del rialzo dei tassi riduce l’appetito per mutui e finanziamenti) e le metriche del successo nel business (si privilegiano i risultati più a breve termine). Tendono poi a scomparire le imprese più piccole e le attività più tradizionali, soppiantate da nuove reti di collaborazione, dal lavoro remoto, o da network di persone, mentre le imprese di media dimensione, magari ancora a capitalismo familiare, vengono sospinte ad aprire a terzi il proprio capitale, a tentare il salto dimensionale o rischiano di finire in ristrutturazione.

CAMBIA IL MERCATO DEL LAVORO

Sempre più persone dunque perdono il vecchio lavoro e accettano ruoli esterni ed incerti pur di trovare un’occupazione alternativa al posto fisso che non c’è più, anticipando nei fatti una liberalizzazione del mercato del lavoro che nel diritto ancora non si è materializzata se non attraverso l’introduzione delle agenzie per il lavoro interinale. La sfera economica è oggi sempre più dominata da grandi imprese multinazionali che modificano o condizionano i precedenti standard, incentivano o provocano cambiamenti nelle abitudini, nei consumi, nel lavoro, nell’impiego del tempo libero e nella formazione, investono pesantemente nelle nuove tecnologie e nella comunicazione, e arrivano a creare ecosistemi proprietari, sociali e culturali, trasversali a quelli pubblici.

Le imprese di più piccola dimensione ne sono perciò fortemente condizionate, arrivando spesso ad essere condannate a scegliere tra il declino e il dover scommettere su un’innovazione feroce (con tutti i rischi del caso), cercando di sperimentare nuove modalità produttive e commerciali, o accettando (più o meno passivamente) di assottigliare i margini di profitto, la dotazione di capitale, la qualità delle risorse umane, e la capacità di accesso ai mercati. Riducendo di conseguenza anche le loro speranze di sopravvivenza. Quasi ogni settore economico sta vivendo una fase di concentrazione su pochi grandi operatori che dominano la scena.

LE ISTITUZIONI VOGLIONO COMPIACERE IL GRANDE CAPITALE

In passato la democrazia (anche finanziaria), la coscienza collettiva e il substrato politico-sociale spingevano i partiti le istituzioni pubbliche a condannare lo sfruttamento di posizioni dominanti e a limitare l’influenza dell’industria e della finanza nella sfera politica. Oggi molte istituzioni e presidi democratici esistono ancora, ma sono spesso svuotati di contenuti, così come la politica e le risorse pubbliche hanno minori risorse e capacità di incidere nella sfera economica e nelle scelte culturali, industriali, sociali e tecnologiche sono dunque spesso al rimorchio delle grandi multinazionali.

Come le industrie farmaceutiche influenzano pesantemente la ricerca e la formazione universitaria, così le multinazionali della tecnologia influenzano la scuola e la formazione professionale e la grande finanza spesso sostiene la politica e i mezzi di comunicazione di massa. Quando perciò ci chiediamo come interpretare la super-inflazione appena arrivata, non possiamo non ricordare il fatto che persino le banche centrali sono state forse eccessivamente influenzate dalla necessità di compiacere i grandi operatori finanziari internazionali arrivando, come è successo nell’ultimo decennio, ad immettere sul mercato forse troppa liquidità, che non poteva non erodere il contenuto di riserva di valore della moneta.

Anche dal punto di vista delle grandi filiere industriali, a partire dall’estrazione delle materie prime, dalla produzione dei semi-lavorati e dalla produzione di energia sino ad arrivare agli impianti di produzione e ai sistemi di distribuzione, i grandi conglomerati economici hanno spesso soppiantato la mano pubblica e le politiche economiche nazionali e oggi non c’è troppo da stupirsi se, arrivando a controllare buona parte dei sistemi economici e con l’ausilio dei lockdown, hanno trovato il modo di beneficiare della riduzione dell’offerta di materie prime e risorse naturali facendone crescere i prezzi, assicurandosi così stratosferici profitti e incrementando la concentrazione della ricchezza mondiale in poche potentissime mani.

LE ECONOMIE OCCIDENTALI SI ALLONTANANO DALLE ORIENTALI

Se fino a ieri le grandi imprese multinazionali avevano cavalcato l’innovazione tecnologica e avevano così assicurato all’Occidente decenni di deflazione dei prezzi, riducendo i costi di produzione e assicurandosi l’approvvigionamento di risorse e lavoro umano ai costi più bassi possibili, oggi quel modello economico globalizzato sta arrivando ad una svolta anche perché una parte consistente della popolazione umana del pianeta vive scelte politiche diverse da quelle di uniformarsi alle esigenze del grande capitalismo occidentale.

Non c’è dunque troppo da stupirsi se in quella parte del mondo dove la ricchezza si è maggiormente concentrata in poche potenti mani (l’Occidente) è oggi più forte l’inflazione e sono più costosi i fattori di produzione, a partire dalle risorse umane, mentre il controllo delle grandi risorse naturali, di buona parte delle materie prime e di una parte dei combustibili fossili alimenta le più forti tensioni geopolitiche dalla seconda guerra mondiale ai nostri giorni.

I principali regimi politici orientali sembrano basarsi meno sui sistemi capitalistici occidentali, pur esprimendo ancor meno democrazia che dalle nostre parti. In Russia, in Cina, nel sud-est asiatico e in parte anche in India è tuttavia ancora la mano pubblica a prevalere su quella privata. Le grandi imprese a partecipazione statale controllano ancora il mercato e sono a loro volta controllate dai regimi politici. E anche per questo motivo non sono del tutto allineate con gli interessi espressi dal capitalismo occidentale. Questi sistemi hanno però indubbiamente attutito le conseguenze più estreme della globalizzazione sulla popolazione, e oggi iniziano a contrapporvisi. Hanno anche permesso in misura minore alle proprie banche centrali l’utilizzo dello strumento delle facilitazioni monetarie, con il risultato che si ritrovano minor emergenza inflazionistica.

LE BANCHE CENTRALI HANNO PERSO IL CONTROLLO

Non c’è da stupirsi se le banche centrali occidentali (Giappone compreso), dopo aver inflazionato le economie occidentali con forti iniezioni di liquidità per quasi un ventennio, oggi non riescono a controllare la conseguente svalutazione delle proprie divise valutarie. Anche perché le politiche economiche prevalenti nell’ultimo mezzo secolo in Occidente hanno comportato la necessità di assicurare forti politiche di assistenza sociale, con la conseguenza di un crescente deficit dei bilanci pubblici. I deficit sono stati colmati non con crescenti tassazioni bensì con maggiori emissioni di titoli del debito pubblico collocati sui mercati finanziari, le cui quotazioni sono state sostenute di necessità dall’intervento delle banche centrali, che ne hanno acquistato grandi quantità.

Ci sono stati anche paesi occidentali dove i deficit pubblici e il loro sostegno da pare delle banche centrali sono state più “moderati”, con l’effetto che le relative monete di conto si stanno svalutando un po’ meno: il Franco Svizzero, la Sterlina, lo Yen, le Corone e sinanco il Rublo e lo Yuan. L’Europa è invece stata la campionessa (negativa) di questo fenomeno, dal momento che per l’Euro-zona e per la sua Banca Centrale è oggettivamente più difficile che per altri arrivare a decidere di alzare i tassi, con il rischio di vedere collassare i debiti pubblici delle economie più deboli dell’Unione, rimasta ad oggi incompleta nel suo processo di consolidamento.

LA CRESCITA ECONOMICA GLOBALE RALLENTA…

Oggi dunque, per il combinato disposto della mancata sottomissione all’impostazione occidentale di alcune tra le più grandi nazioni (quantomeno Russia, Cina e India) con le conseguenti tensioni geopolitiche, e per l’impennata dei prezzi e per la necessità di elevare i tassi di interesse di conseguenza, l’economia mondiale rischia di rallentare la crescita e di innestare un processo semiautomatico di trasferimento a valle (cioè ai consumatori) dei rialzi dei costi dei fattori di produzione, dalle materie prime ai semilavorati, all’energia e sinanco alle retribuzioni orarie. Sono processi che, una volta innestati, si dispiegano lentamente e inesorabilmente nel tempo. È per questo motivo che l’inflazione non ha probabilmente finito di salire.

Senza dunque voler fare previsioni ma limitandoci ad osservare i meccanismi di adeguamento dei prezzi ai costi di produzione, è piuttosto probabile che i prezzi al consumo in Occidente continueranno a crescere ancora per qualche mese, e che a loro volta trascineranno una quasi scontata serie di tensioni sociali, rivendicazioni salariali, riduzioni dei volumi di produzione industriale, rallentamenti degli investimenti produttivi e tecnologici, nonché riduzioni dei margini di profitto e della velocità di circolazione della moneta. Sembra qualcosa di totalmente fisiologico nel breve periodo, indipendentemente dalla prosecuzione della guerra in Ucraina, da ulteriori rialzi dei tassi, e che intervengano o meno nuove manovre economiche, fiscali o altre facilitazioni monetarie. Queste conseguenze potrebbero indebolire le borse valori e i mercati finanziari.

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…E NEL FRATTEMPO IL POLVERONE È ASSICURATO

Qualunque cosa i leaders globali arriveranno perciò a decidere per contrastare la tendenza appena indicata, c’è da scommettere che non riusciranno a farlo istantaneamente. La situazione di qui ad un paio di mesi sembra destinata dunque a peggiorare, come appena espresso, forse anche per le borse e i mercati finanziari (con l’unica eccezione degli operatori del comparto energetico). Il motivo della possibile discesa dei corsi azionari è triplice: liquidità in calo, tassi al rialzo e profitti aziendali al ribasso. Non che ciò sia destinato a durare in eterno, ma al momento è difficile pensare che andrà diversamente, anche a motivo del progressivo esaurirsi dell’effetto-sostituzione dei titoli a reddito fisso con azioni quotate nei portafogli dei risparmiatori (effetto che ha sostenuto relativamente le borse sino ad oggi).

Quand’anche i rialzi delle materie prime e del costo dell’energia dovessero dunque esaurirsi presto, ancora per un po’ di tempo vedremo incrementare i prezzi dei prodotti finiti, dell’edilizia, dell’ora lavorata e del denaro preso a prestito. Quanto basta insomma per assicurare alla crescita economica globale una bella frenata e un possibile autunno caldo di rivendicazioni salariali.

E se il mondo sta arrivando a dividersi in grandi blocchi geopolitici, più o meno politicamente contrapposti, ciò potrà generare costi aggiuntivi per aggiustare di conseguenza le filiere di fornitura industriale e per i possibili rialzi delle tariffe doganali, che non potranno di certo far calare troppo i costi degli approvvigionamenti delle materie prime e i costi dei trasporti intercontinentali.

LA TRANSIZIONE ENERGETICA È DI FATTO RINVIATA

La scarsità di forniture (ad esempio dei pannelli fotovoltaici, quasi tutti prodotti oggi in Cina) frenerà inoltre la riduzione delle emissioni nocive in atmosfera, derivanti dall’uso di combustibili di origine fossile. Se teniamo conto del fatto che a queste complicazioni si sommeranno le maggiori spese pubbliche per armamenti e infrastrutture militari, nonché i maggiori costi di produzione di energia derivanti dall’esigenza di non fare del tutto dietrofront sulle recente disposizioni incentivanti verso la transizione energetica (come l’obbligo di riduzione dei consumi inquinanti e gl’incentivi al riciclo dei rifiuti), è facile prevedere anche ulteriori aggravi della spesa pubblica, ed aumenti dei tassi di interesse. Almeno nel breve periodo.

Non è dato però di sapere quanto tempo potrà durare questa situazione. Alimentata da fattori usciti dal controllo anche a causa delle tensioni geopolitiche e con il rischio che essa stessa possa generare tensioni sociali e crisi dei mercati finanziari, l’inflazione galoppante non potrà che determinare anche confusione politica e sociale. In America ha già superato l’8% e in Europa ci metterà forse più tempo (per la debolezza della domanda di beni e servizi) ma rischia di essere anche più severa, a causa del maggior rincaro della bolletta energetica.

LE NUOVE TECNOLOGIE POTREBBERO AIUTARE L’OCCIDENTE

Se l’inflazione tornerà presto sotto controllo potremo aspettarci che l’arrivo costante di nuove tecnologie e sistemi di automazione industriale torni ad alimentare la funzione “deflattiva” delle innovazioni, a causa della riduzione che indurranno nei costi di produzione, auspicando anche che esse tornino ad alimentare lo sviluppo economico complessivo. Ma perché le nuove tecnologie avanzino con decisione c’è bisogno di ingenti investimenti di capitale di rischio, e non è così certo che questi vengano proseguiti altrettanto oggi come in passato, almeno sintantoché permarranno gli attuali rischi di recessione.

Se è infine vero che la transizione “verde” sarà prima o poi compiuta in tutti i paesi industrialmente più sviluppati, sappiamo anche per certo che necessiterà di ulteriori importanti innovazioni tecnologiche e di tempi molto lunghi (forse ancora un trentennio, o ancora di più), mentre è in atto oggi una forte contraddizione: da un lato si cerca di reprimere l’utilizzo di energie derivanti da combustibili fossili e capaci di generare emissioni nocive, mentre dall’altro lato ancora oggi l’80% di tutta l’energia prodotta nel mondo proviene dall’utilizzo di derivati di gas e petrolio. E per di più la crescita economica, demografica e lo sviluppo economico dei paesi emergenti impone al pianeta una domanda crescente di energia, che potrà essere pareggiata dalla maggior disponibilità di impianti energetici “verdi” soltanto tra moltissimi anni.

LA DE-CARBONIZZAZIONE DEL PIANETA ERA TROPPO PRECOCE

Nel frattempo il mondo (e soprattutto nei paesi emergenti) ha appunto una gran necessità aggiuntiva di produrre energia e non può che soddisfarla con i sistemi più tradizionali, perché le energie da fonti rinnovabili sono spesso un lusso che pochi possono permettersi. A causa del permanere delle emissioni nocive perciò, il pianeta resta esposto al rischio di veder accrescere la probabilità di nuove catastrofi ambientali. Dunque le crescenti regolamentazioni volte a scoraggiare l’uso di energie “sporche” al momento non ha fatto altro che incrementare il costo medio dell’energia, senza riuscire a far calare parallelamente il prezzo dei combustibili fossili.

Per questo motivo la pretesa di agire subito sul fronte della “de-carbonizzazione” planetaria senza prima programmare la sostituzione delle relative fonti energetiche è stata un vago e goffo palliativo della nuova presidenza americana, priva di adeguata preparazione e con l’effetto di generare il rialzo del costo dell’energia. E si sa bene che quest’ultimo (il costo dell’energia) è stato proprio il primo fattore di trasmissione dell’inflazione nel resto del mondo.

QUALI ATTIVITÀ ECONOMICHE SARANNO PRIVILEGIATE…

Dunque le uniche attività economiche che con ogni probabilità non avranno problemi di mercato nei prossimi mesi saranno proprio quelle legate alla produzione (e a maggior ragione al risparmio) di energia e al riciclo dei materiali. Il rialzo generalizzato dei tassi d’interesse e la necessità di nuovo credito dovrebbe inoltre favorire un risveglio dei margini e delle valutazioni delle imprese bancarie e finanziarie, mentre resteranno sempre elevate le attese degli investitori nei confronti delle imprese più capaci di trasferire all’industria le nuove tecnologie (come la robotica e l’automazione spinta) e le nuove scoperte scientifiche, ivi comprese quelle chimiche e alimentari. Resteranno perciò probabilmente elevate le valutazioni delle aziende chimiche, alimentari e farmaceutiche che mostreranno una forte capacità di mantenere elevati margini di profitto.

Sul fronte inverso dovrebbero risultare penalizzate le imprese turistiche, e quelle che più risentiranno della tendenza al calo strutturale dei consumi, dell’occupazione e del risparmio, della riduzione degli acquisti di beni di consumo durevole, nonchè delle installazioni energivore di ogni genere (dalle piscine ai grandi impianti di intrattenimento). Potranno inoltre risultare penalizzati gli esercizi commerciali al dettaglio, soprattutto i meno efficienti in termini di costi, i sistemi logistici più obsoleti e le conseguenti valutazioni immobiliari.

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Mentre non potranno che rafforzarsi i servizi online e i software che aiuteranno a risparmiare costi e a ridurre gli spostamenti fisici, nonché le filiere di istruzione e formazione professionale che riusciranno ad assicurare un nuovo futuro lavorativo ai molti individui che dovranno adeguarsi a cercare nuove e diverse occupazioni. Potrebbero inoltre crescere le valutazioni e la domanda di sistemi di organizzazione ed efficientamento del lavoro interinale e stagionale, del precariato e del recupero dei lavoratori che perderanno la precedente occupazione. Anche l’industria meccanica potrà uscire rafforzata dall’attuale evoluzione, ma soltanto per quelle (poche) aziende che riusciranno a concentrare il mercato, e ad investire pesantemente nell’efficientamento dei costi e dell’utilizzo di energia.

…E QUALI PAESI SE NE AVVANTAGGERANNO

Se dunque ancora una volta saranno le tecnologie e la disponibilità diretta di materie prime a farla da padrone, è probabile che i paesi che se la caveranno meglio nella presente congiuntura non saranno quelli europei, bensì l’America, la Cina e probabilmente tra i paesi più dotati di risorse naturali, quelli che saranno al tempo stesso più capaci di rinnovare in fretta il loro apparato industriale attirando capitali, cervelli e tecnologie (come Israele e Singapore, ad esempio, rischi geopolitici permettendo). Tra questi probabilmente l’India, l’Australia, la Nuova Zelanda, e forse anche il Brasile.

Una nota a parte merita il Giappone, che resta al tempo stesso un’economia orientale ma anche appartenente a pieno titolo al mondo occidentale, e decisamente orientata alle nuove tecnologie. È piuttosto probabile che la crisi dell’Europa arrivi a determinare un relativo successo del Giappone, anche se non possiede quasi alcuna risorsa naturale. Il suo mercato finanziario sembra inoltre oggi maturo e capace di attrarre nuovi investimenti tecnologici, sull’implementazione dei quali peraltro il Giappone per molti versi ah già vinto molte battaglie.

Stefano di Tommaso




OLTRE L’ORIZZONTE

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Cosa succederà di qui a breve? Tutti si sperticano in previsioni catastrofiche e, in effetti, non c’è troppo da stare allegri. Ma oltre l’orizzonte degli eventi (e se non accadrà dell’altro) si può cercare di ragionare per immaginare cosa ci aspetta sulla base delle recenti esperienze. E non tutti i mali vengono per nuocere!

 

LA MISURA ERA COLMA

Tanto tuonò che piovve: la tradizione vuole che la frase fosse esclamata da Socrate dopo che la moglie, avendolo rumorosamente e platealmente redarguito sulla soglia casa, gli rovesciò addosso un vaso d’acqua. Cioè la misura era colma. Quello che non avremmo ragionevolmente ritenuto probabile è successo (l’attacco della Russia all’Ucraina) e l’occidente ha reagito con pesanti sanzioni economiche alla Russia. E non c’è da stupirsi se, dopo tale scelta, e anche la Russia porrà in atto misure simmetriche di ritorsione o se i suoi alleati (Cina in primis) prenderanno ancor più le distanze dall’Occidente. Di seguito l’indice delle materie prime energetiche aggiornato allo scorso venerdì (di pari passo pare che il Petrolio Brent sia giunto a 130$ per barile):

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Ciò danneggia non poco lo sviluppo economico, soprattutto quello dell’Europa. Tuttavia ancora non è chiaro il vero motivo per cui è la Russia ha sferrato l’attacco. Abbiamo ascoltato teorie di tutti i generi e l’unica cosa che abbiamo capito è proprio di non averlo compreso. Le informazioni-chiave sono rimaste occulte e forse non ce n’era da stupirsene. Questo però ricorda la presenza di variabili a-sistemiche nelle possibili previsioni che ci accingiamo a fare, di cui bisognerà tenere conto per non essere troppo sicuri del futuro.

LE BORSE, NEL DUBBIO, HANNO FATTO RETROMARCIA

Le borse -di fronte all’incertezza- hanno supinamente accusato il colpo, con una serie di ribassi che (a livello globale) hanno toccato circa un quinto del loro valore di capitalizzazione. E l’inflazione ha subìto un’impennata ulteriore, che per il momento non viene riportata dalle statistiche ufficiali, ma che non si farà attendere nell’appesantire l’elenco dei danni economici. I tassi impliciti nelle quotazioni dei titoli a reddito fisso sono dì conseguenza saliti ulteriormente, facendone crollare il valore. Lo scenario che si prospetta ai nostri occhi perciò è quello dei postumi di un campo di battaglia. Col rischio di camminare sul terreno ancora minato, ma anche con altrettante opportunità di cui trarre profitto dopo la devastazione intervenuta. Di seguito l’indice più noto relativo all’andamento medio di tutte le borse del mondo (che riporta una perdita da inizio anno di oltre il 12%:

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Chiaramente nulla accade a sproposito. In uno scenario in cui il potere d’acquisto dei consumatori occidentali viene meno a causa degli incrementi dei prezzi, in cui il debito pubblico diviene meno sostenibile a causa del rialzo del costo del debito, e in cui il denaro in circolazione rischia di scarseggiare (se non interverrà la Banca Centrale Europea), allora anche le prospettive di profitto delle imprese si riducono, e inevitabilmente scende il valore intrinseco delle azioni di società quotate in borsa.

MA POI… COSA CI ATTENDE?

Questo però attiene allo shock del momento, non alle prospettive di lungo termine, a meno che anche la guerra in atto, ancora vista dai più come una manovra di neutralizzazione del potenziale militare ucraino, possa estendersi, se non al resto del mondo, quantomeno ad altre zone dell’est europeo (ipotesi improbabile, ma lo era stato anche l’attacco russo).

Però -ai fini di poter valutare correttamente le conseguenze in termini pratici ed economici di ciò che accade- occorre chiedersi di quale termine ai nostri occhi può essere considerato lungo, e quale lo sia agli occhi di chi investe sui mercati. La guerra in atto infatti non sembra destinata a terminare presto, tanto per l’invio ai ribelli dell’Ucraina di armi e supporti da parte dell’Europa, quanto per la determinazione mostrata da Putin in risposta alle provocazioni subite.

La sensazione è pertanto che quella in corso si possa trasformare in una lunga guerra di posizione, dove le truppe della Federazione Russa punteranno a raggiungere un disarmo unilaterale dell’Ucraina e la sua “neutralizzazione” (fino all’instaurazione di un governo di transizione) cercando di non colpire la popolazione civile e le abitazioni, mentre i ribelli (e chi da dietro soffia sul fuoco della rivolta) punterà invece a creare situazioni di panico, a trasmetterne le drammatiche immagini in occidente per giustificarne il supporto logistico, e a trasformare i campi ucraini in qualcosa di simile alle foreste amazzoniche del Vietnam, dove la Russia possa incontrare un notevole impedimento a completare in fretta la sua campagna militare.

Se ciò sarà (ed è piuttosto probabile) si possono prevedere due scenari: che la Russia attenda pazientemente di completare la sua opera secondo le direttive attuali, oppure che possa alzare la posta in gioco, anche grazie al principio del “perso per perso” (dal momento che l’occidente la dipinge già come un regime sanguinario, tanto vale incrementare la pressione militare e terminare prima possibile l’operazione).

LE MACRO-VARIABILI ECONOMICHE

Anche se non sappiamo quale dei due si materializzerà, dal punto di vista economico poco cambierà: gli scenari prospettati sono entrambi negativi per le macro-variabili economiche, che proviamo qui sotto a prevedere :

  1. La tensione alimenta costantemente il rincaro dell’energia e delle materie prime (carbone compreso) e il mondo scopre anche di averne più fame di quanto pensava (nonostante le dichiarazioni sulla transizione verde), mentre i paesi estrattori di petrolio e gas hanno bellamente ignorato l’appello a calmierare i loro prezzi, godendo di extra-profitti.
  2. Tanto gli investimenti quanto gli utili delle imprese probabilmente prenderanno una pausa, contribuendo a deprimere i prodotti interni lordi occidentali e il valore intrinseco delle aziende. E potrebbe frenare anche le fusioni e acquisizioni.
  3. I titoli azionari quotati in borsa di conseguenza potrebbero continuare a scendere ma, come ai tempi del primo impatto da Covid19, le borse hanno già notevolmente anticipato gli eventi con importanti e bruschi cali dei loro listini, dunque una volta che la prospettiva dovesse chiarirsi con la mancata escalation del conflitto, le loro quotazioni potrebbero rimbalzare.
  4. Ovviamente come in tutti i casi di precedenti “cigni neri” le azioni delle imprese quotate (se mai dovessero farlo) non risaliranno tutte allo stesso modo: alcune addirittura potrebbero guadagnarci, altre è possibile che restino depresse, perché questi eventi accelerano sempre il ritmo dei cambiamenti di lungo periodo.
  5. Non è infine chiaro come reagiranno le banche centrali: se si muoveranno nella più completa razionalità, allora dovrebbero prendere atto che l’inflazione è la conseguenza di diversi e successivi shock da mancata offerta e che a nulla servirebbe alzare i tassi, cambiando rotta e inondando di nuovo di liquidità il sistema bancario (che adesso rischia il collasso). Contribuendo così anch’esse alla risalita delle borse e a favorire l’arrivo di nuove matricole. Ma non v’è alcuna certezza in tal senso: la vecchia scuola potrebbe sempre prevalere!

I SETTORI PIÙ A RISCHIO

Se le banche centrali daranno una mano però, abbiamo visto come sia probabile che soltanto i titoli azionari di alcuni settori industriali torneranno a crescere, ed è possibile che stavolta siano soltanto i bond a breve scadenza quelli che risaliranno un po’ di prezzo, dal momento che è divenuto sempre più chiaro che l’inflazione è arrivata per restare, e che non ha ancora finito di scaricarsi a valle e sui beni di prima necessità.

Dunque una parte della “decrescita” economica (seppure le statistiche pubbliche come sempre troveranno il modo di addolcire la pillola) ci sarà per forza, e l’inflazione di molti prezzi al consumo non potrà che proseguire il suo percorso. Tutto questo è molto negativo per i settori tradizionali, per i servizi, per le “vendite al dettaglio” e per i beni voluttuari. Forse con la possibile eccezione di immobili, beni di lusso e beni-rifugio (come l’arte o il collezionismo) che invece troveranno alimento dalla loro funzione di “protezione del valore” dall’erosione inflativa.

E I SETTORI CHE CI GUADAGNANO

Quel che si può tuttavia aggiungere è che -mentre tutto ciò accade- nessuno resterà inerme a guardare (né i governi né gli imprenditori), per diversi importanti motivi, e che quindi possiamo attenderci che ci sarà -oltre all’avvio prosieguo della sempre maggior concentrazione della ricchezza in poche mani- anche una ripresa degli investimenti, degli incentivi fiscali e del finanziamento delle nuove tecnologie, da quelle per ridurre consumi ed emissioni, a quelle per produrre energia verde, fino a quelle per la riduzione di ogni genere di costi, a partire dalla robotica avanzata (innanzitutto volta all’automazione industriale):

LA LIQUIDITÀ E LE INNOVAZIONI POTREBBERO AIUTARE LE BORSE

Così come è successo qualche mese dopo l’arrivo della pandemia insomma, in assenza di un’escalation senza fine della tensione geopolitica (sulla quale -ripetiamo- non ci è possibile in alcun modo fare previsioni sensate) e con un aiutino delle banche centrali, potrebbe accadere quel che successe nella seconda metà del 2020: che le borse si riprenderanno e che le nuove tecnologie torneranno ad essere grandi protagoniste dell’accelerazione del cambiamento dei costumi. Soprattutto però quelle cinesi e americane. Le quali potrebbero risultare le grandi vincitrici della pace che seguirà (speriamo) alla guerra.

Chi ha già venduto perciò in borsa forse ha fatto bene, dal momento che la prosecuzione della rotazione dei portafogli potrebbe riservare altre sorprese. Così come chi ha già effettuato importanti investimenti lo ha fatto probabilmente a sconto sui prezzi futuri. Chi invece sta meditando di farlo adesso (o di entrare sul mercato azionario a questi prezzi scontati) si trova a muoversi in assenza di una tendenza definita. L’eventuale escalation militare poi è tutt’altro che esclusa, anche se ci si rende conto del fatto che sarebbe drammatica.

Non è facile perciò riuscire a interpretare le grandi trasformazioni di fondo dell’economia, onde non imboccare la strada sbagliata! Se non lo si è già fatto conviene piuttosto raccogliere del denaro (a titolo di finanziamenti o di capitale), e attendere invece nell’investirlo.

Stefano di Tommaso




MOLTA LIQUIDITÀ A PIAZZA AFFARI

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Nonostante l’enorme volatilità che ha caratterizzato l’inizio del 2022 per le borse di tutto il mondo, quella italiana sembra promettere relativamente bene per l’anno in corso, e non solo per motivi macroeconomici, ma anche per i numerosi ”Initial Public Offering“ (IPO) in programma quest’anno e per la liquidità che vi sta affluendo. La piattaforma Euronext permette agli investitori istituzionali di osservare contemporaneamente tutti i listini locali, incrementando così l’attenzione verso quelli più periferici come il nostro. E ciò potrebbe risultare decisamente favorevole per sostenere le imprese italiane che vogliono svilupparsi.

 

LA LIQUIDITÀ RESTA ABBONDANTE

Nonostante tutti facciano scongiuri per la guerra in Europa dell’Est e professino cautela per l’anno in corso, dai gestori di fondi e patrimoni sembra trasparire un moderato ottimismo per le borse quest’anno, quantomeno a causa del fatto che i rendimenti reali negativi spingeranno verso l’azionario un probabile travaso dai titoli obbligazionari. In aggiunta possiamo sperare che l’economia italiana continui a recuperare il divario accumulato nei confronti del resto del continente e dì conseguenza i profitti delle imprese possano continuare a crescere, seppure ad un ritmo ridotto a causa del maggior costo dell’energia e dell’elevata tassazione, rispetto alla maggioranza degli altri paesi europei.

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La banca centrale di Francoforte si è poi mostrata sino ad oggi relativamente più accomodante rispetto alle altre banche centrali e per il momento sta continuando ad acquisire titoli pubblici immettendo di fatto altre risorse nel sistema finanziario, seppur ad un ritmo progressivamente decrescente. L’afflusso originato dalla BCE si trasmette indubbiamente anche alle borse e risulta favorevole alle operazioni di IPO, che quest’anno anche in Italia potrebbero risultare particolarmente numerose, come indicato di seguito.

Nel grafico qui sotto riportato: l’andamento dell’aggregato monetario “M1” fino allo scorso Dicembre nell’Eurozona.

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IL FILONE ESG

L’Italia è poi molto orientata ad investimenti in ambito di sostenibilità e questo può favorire l’ottimismo degli investitori, che sono più che mai a caccia di opportunità compatibili con il nuovo “mantra” dei mercati: la sigla ESG. Questa sintetizza i 3 principi cui deve rispondere l’attività delle imprese che vogliono mostrarsi capaci di produrre risultati non solo da punto di vista economico, ma anche nel rispetto della natura e nel favorire il miglioramento sociale dentro e fuori di esse. In particolare: “environmental”, richiama l’impatto di sostenibilità dell’attività per l’ambiente e il territorio, “social“, l’impatto dell’azienda sul contesto socioeconomico in cui è inserita, e “governance” la capacità di mostrare un governo interno diffuso e trasparente.à

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I criteri ESG (e la misura della rispondenza agli stessi da parte delle imprese: il cosiddetto “rating ESG”) sono oggi utilizzati da chi investe per selezionare le migliori imprese dal punto di vista della sostenibilità a lungo termine e le aziende che possono dimostrare di essere più attente al rispetto di questi principi godono pertanto del favore -talora esclusivo- degli investitori. Questi non soltanto si vedono costretti a ruotare i portafogli in direzione di maggior prudenza, ma temono anche che i titoli emessi da imprese non rispondenti a tali criteri possano -nel tempo- subire un progressivo deprezzamento, anche a causa dei vincoli normativi che dovranno sempre più rispondere all’emergenza ambientale.

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E spesso, per i criteri ESG, le imprese italiane, con le loro forti capacità in ambito culturale, artistico, alimentare e ingegneristico, spesso esprimono vere e proprie eccellenze, cosa che può favorire la borsa italiana rispetto a quelle di altri paesi europei.

POSSIBILI I.P.O. PER QUASI 5 MILIARDI DI EURO NEL 2022

Un altro aspetto che potrebbe favorire il listino nazionale è la grande mole di nuove quotazioni in borsa previste per l’anno in corso. Non è passato nemmeno un paio di mesi e la raccolta di capitali in borsa per le imprese italiane si è già approssimata al primo miliardo di euro!

Al momento anzi sarebbero esattamente 752 milioni di euro, senza contare però l’IPO di Iveco a inizio anno -la prima del 2022- che, formalmente, è consistita solo in uno splitting delle azioni della casa madre, ma che di fatto ha reso liquida sul mercato una quota importante di minoranza (per un controvalore di circa 1 miliardo di euro) di un’azienda che capitalizza circa 3 miliardi di euro.

Il settimanale Milano Finanza ha pubblicato un elenco di 5 probabili matricole in probabile arrivo sul listino entro la prima metà dell’anno al solo segmento MTA della borsa di Milano il cui ammontare dei collocamenti potrebbe assommare a quasi un altro miliardo di euro: De Nora, Selle Royal, Chiorino, Shopfully e una SPAC in ambito sostenibile. Totale: almeno altri 800 milioni di euro.

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E potrebbe non essere finita qui. Si parla infatti con insistenza almeno di altre sei importanti IPO (forse tutte all’MTA, con un collocamento medio di almeno una cinquantina di milioni): Fedrigoni, Cantiere del Pardo, Facile.it, Epta, Illy, Thun, OTB (only the brave: Renzo Rosso). Se così fosse, aggiungeremmo ulteriori 300-500 milioni al totale.

Poi sono inevitabilmente in arrivo le circa quaranta matricole del segmento EGM (Euronext Growth Milan, l’ex AIM) la cui raccolta media potrebbe superare quella dello scorso anno (sono 843 i milioni raccolti nel 2021 su 43 IPO), assicurando così una raccolta ulteriore di almeno un altro miliardo di euro a quanto sopra indicato. Si perché forse quest’anno potrebbero essere anche di più. Si può perciò ipotizzare che con queste matricole il totale della raccolta da IPO italiane salirebbe nel complesso a 2,5/2,8 miliardi.

Ma c’è in più la probabilissima IPO della controllata di ENI nelle energie rinnovabili, Plenitude Spa, del valore teorico di 10 miliardi di euro e il cui collocamento azionario al segmento STAR potrebbe da solo assommare ad almeno 2,5 miliardi di euro. Ecco che il totale della raccolta dell’anno svetterebbe perciò a circa 5 miliardi!

E questo importo non conteggia le numerose imprese italiane che al momento hanno scelto di quotarsi alla borsa di Parigi, in quella di Londra o a New York, dove ad esempio la sola D-Orbit ha ottenuto 160 milioni di euro dalla “business combination” con una SPAC di nome Breeze Holdings che l’ha valutata poco più di un miliardo di euro.

Insomma, rispetto all’anno scorso, che già era stato positivo per Piazza Affari, con 49 IPO di cui 44 all’AIM (e una raccolta totale di oltre 2,3 miliardi di euro, di cui circa 844 all’AIM), quest’anno sembra promettere ancora meglio. Ovviamente pesano come macigni sulla possibilità che ciò accada le minacce di guerra e i possibili eccessi di reazione da parte delle banche centrali all’inflazione che, trascinata dal rincaro dei costi energetici, è oramai proiettata a superare la doppia cifra entro la fine dell’anno. Nel grafico che segue un elenco dei principali investitori intervenuti nel corso del 2021, con un’evidente numerosità degli operatori stranieri!

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Le matricole della borsa portano infatti con sé un forte contenuto di innovazione, dinamismo, investimenti e internazionalizzazione. Tutte qualità che aiutano i loro titoli ad andare controcorrente rispetto alle società già quotate e ad attirare capitali sulla nostra piazza..

ALLORA CONVIENE ANCORA INVESTIRE IN BORSA?

Non è affatto detto che la spirale inflazionistica continuerà a lungo, e tutti sperano nella possibilità che le banche centrali mantengano nei prossimi mesi la posizione assunta senza accelerare la risalita programmata dei tassi d’interesse. Se così sarà, allora i mercati non subiranno importanti correzioni e, anzi, la liquidità continuerà ad affluire alle borse, quantomeno per la parte proveniente dal disinvestimento sui titoli a reddito fisso. Nel grafico qui sotto riportato si può vedere che nel mese di Gennaio è andata così a livello globale:

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A questo risultato potrebbero inoltre contribuire anche i proventi dei Programmi Individuali di Risparmio (PIR) che sono ancora in piedi, così come le risorse provenienti dall’estero sulle società italiane più promettenti dal punto di vista tecnologico o dalle prospettive migliori.

Difficile invece anticipare cosa succederebbe qualora lo scenario economico si deteriorasse parecchio. Nei prossimi giorni saranno pubblicati in Europa tanto i dati sull’indice PMI manifatturiero quanto quelli sull’inflazione (CPI). Sarà una misura aggiornata del deterioramento apportato alla crescita economica da parte dell’inflazione dei prezzi, sulla base della quale i mercati valuteranno quanto ottimismo è ragionevole ancora avere.

Sicuramente nei prossimi giorni la volatilità è destinata a restare alta e, nella bagarre, è oggettivamente difficile districarsi tra alti e bassi per valutare l’effettivo andamento dei listini. Ma molti osservatori concordano con una visione moderatamente ottimistica circa i listini borsistici europei.

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TANTO PEGGIO TANTO MEGLIO

Sicuramente i dati macroeconomici in arrivo saranno abbastanza negativi ma la sensazione è che non saranno tali da invertire il clima positivo che si respira in Borsa. E’ possibile che l’importante numero di società che affluiranno al listino azionario possa sfoltirsi in tal caso, perché inevitabilmente le valutazioni risentirebbero della situazione. Ma non è così scontato che l’inflazione produca un ribasso delle borse e una riduzione del numero delle IPO, dal momento che i nuovi collocamenti azionari avvengono sempre a sconto rispetto ai valori teorici di capitalizzazione.

Dunque così come è già successo che gli importanti ribassi visti sulle borse da inizio d’anno non hanno sino ad oggi influito sui programmi di IPO, è altrettanto possibile che molti di questi IPO programmati non vengano cancellati, almeno se non succederà nulla di eclatante. Senza contare il fatto che l’incremento di inflazione potrebbe orientare a maggior ragione gli investitori verso il listino azionario. La borsa valori insomma resta sino ad oggi l’investimento più consigliabile, soprattutto se si tiene conto dell’inflazione e dei conseguenti rendimenti reali negativi offerti dai titoli a reddito fisso.

La maggior parte delle imprese quotate non solo promette un dividendo che talvolta è più ricco delle cedole, ma è anche in posizione rialzista di fronte all’inflazione. I loro titoli azionari possono costituire nel tempo un’ottima riserva di valore, se la frenata dell’economia non arriva sino alla recessione (cosa ad oggi poco probabile).

Stefano di Tommaso




SARÀ L’INFLAZIONE A MUOVERE I MERCATI ?

Come va l’economia globale? Piuttosto bene si potrebbe affermare al momento, sebbene grandi minacce geopolitiche e relative all’inflazione dei prezzi siano in agguato sovvertendo il mondo che conoscevamo. Non potremmo infatti avanzare la stessa conclusione per le sorti della democrazia nel mondo né per la tutela dell’ambiente. Due elementi che continuano a rimanere indietro nell’agenda dei governi. Uno scenario complesso quello che si prospetta per il 2022 che dovrebbe però vedere ancora una volta ottimi profitti per le grandi multinazionali e ciò potrebbe significare che le borse continueranno ad avanzare, sempre che non arrivino nuovi cigni neri!

 

Se nell’ultima settimana la Federal Reserve Bank of America (FED) voleva spaventare i mercati, al momento si può dire che c’è riuscita benissimo, dopo aver pubblicato una serie di “appunti” (relativi alle discussioni tra i partecipanti al consiglio della banca centrale) che facevano chiaramente comprendere un atteggiamento di forte volontà per rialzare i tassi d’interesse. E visto che le borse (soprattutto quella americana, e soprattutto i grandi titoli tecnologici) viaggiavano intorno ai livelli massimi di sempre nonostante la prospettiva di rialzo dei tassi d’interesse, quella pubblicazione ha contribuito non poco all’immediato ridimensionamento delle valutazioni d’azienda implicite nelle quotazioni azionarie.

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Ecco qui una tabella, proposta da Milano Finanza dello scorso sabato, circa le performances a fine 2021 delle principali borse.

Niente male, vero? Anche senza considerare la crescita annua del 72% delle quotazioni del Nasdaq (la borsa dei titoli tecnologici), sono da incorniciare la crescita del 47% della borsa americana e quella di quasi il 34% della borsa cinese. Nonché quel quasi +19% dei maggiori titoli europei, con i listini di Tokio, Parigi e Berlino che hanno fatto meglio!

QUANTO SONO SOPRAVVALUTATE LE BORSE ?

Ovviamente dopo questi risultati spettacolari occorre anche andare a vedere quanto sono “sopravvalutate” le borse, con due “iconici” indici americani al riguardo. Innanzitutto quello di Warren Buffett:

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E poi quello di Robert Shiller, premio Nobel per l’economia nel 2013 e considerato uno dei padri della finanza comportamentale. Shiller ha concentrato i suoi studi sulla formazione delle bolle speculative arrivando a creare un proprio indice (il cosiddetto C.A.P.E. ratio) relativo alla sopravvalutazione dei titoli rispetto al loro rendimento, dopo averlo aggiustato rispetto all’andamento generale del mercato finanziario:

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È PROBABILE UNA ROTAZIONE DEGLI INVESTIMENTI AZIONARI

Come si può vedere, entrambi gli indici a fine 2021 sono intorno ai massimi storici, e questo nonostante un’inflazione galoppante, diversamente dagli anni precedenti, cioè con un incremento tendenziale dei prezzi al consumo che negli U.S.A. è già arrivato al 7% annuo. Dunque se ne può tranquillamente dedurre che le borse sono sopravvalutate!

Anche se più che alla media complessiva occorre guardare alla composizione degli indici azionari. Vediamo qui sotto com’è composto il principale indice della borsa americana:

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È dunque probabile che sia in corso una rotazione degli investimenti, se il listino americano è dominato dai grandi titoli tecnologici (quei il 30%) e se questi hanno sino ad oggi fortemente incrementato il valore della loro capitalizzazione dì borsa (come si può vedere dal grafico qui sotto riportato).

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DA COSA DIPENDONO I RIBASSI ?

E, se vogliamo parlare dei ribassi dell’ultima settimana (siamo nell’ordine di qualche punto percentuale), dobbiamo tener conto di questa rotazione dei medesimi portafogli verso titoli più “difensivi” rispetto a quelli (principalmente i tecnologici) sospinti al rialzo fino all’ultimo giorno utile dell’anno appena chiuso anche perché godevano del favore dei piccoli risparmiatori. dei medesimi portafogli verso titoli più “difensivi” di quelli (principalmente i tecnologici) sospinti al rialzo fino all’ultimo giorno utile dell’anno appena chiuso.

Ma non solo: dobbiamo anche chiederci quanto, nella loro genesi, ha influito il fatto che, con l’arrivo del nuovo anno, le performances dei gestori di patrimoni del 2021 erano state oramai cristallizzate e dunque i portafogli azionari potevano essere alleggeriti?

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Difficile misurare le diverse componenti, ma è probabile che, nello scivolare complessivo delle quotazioni negli ultimi giorni, queste componenti c’erano! E se così fosse allora potremmo considerare i recenti ribassi quali semplici assestamenti anche perché i rincari dei prezzi delle materie prime si sono oggettivamente acquietati nelle ultime settimane, come si può vedere dal grafico sopra riportato, che fa ben sperare per l’inflazione futura.

LE BANCHE CENTRALI E LA POLITICA DELL’ORACOLO DI DELFI

A proposito poi della confusione generata dai controversi annunci delle banche centrali, il professor Masciandaro (Università Bocconi) dalle colonne de Il Sole 24 Ore tuona inesorabilmente definendo la strategia adottata negli ultimi mesi come: “la politica dell’oracolo di Delfi”(riferendosi ai controversi vaticinii della sacerdotessa Pizia che interrogava il dio Apollo).

Con comunicati sibillini e indicazioni altalenanti i banchieri centrali stanno probabilmente prendendo tempo, nella consapevolezza che meno si fanno comprendere e più spazio di manovra guadagnano, senza timore di venire smentiti dai fatti troppo presto. Ecco dunque che un giorno rassicurano i mercati, quello dopo li spaventano, con il risultato complessivo di incrementare la volatilità degli stessi, ma non di farli scendere davvero di livello.

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E comunque, dal momento che subito dopo la pubblicazione delle “minute” della FED i mercati sono scesi, John Authers riporta, nella sua newsletter dello scorso Sabato, un complesso elenco di variabili economiche per farci comprendere che oggi è ragionevole supporre che i mercati abbiano già incorporato nei livelli attuali le attese di un più deciso rialzo dei tassi d’interesse, come si può leggere qui accanto dalla comparazione tra ciò che il “consenso” di mercato si aspettava agli inizi di Settembre, di Novembre, di Dicembre e ciò che si attende adesso.

LE BORSE SONO PRONTE PER SEGNARE NUOVI RECORD?

Dunque le borse hanno già effettuato la loro correzione e sono pronte per ripartire a crescere? Forse è così, ma le sorti del quadro complessivo dei mercati finanziari non dipendono soltanto dall’atteggiamento delle banche centrali.

Con i progressi dell’economia globale e con gli ultimi rincari dell’energia (che, ricordiamocelo, è la più importante catena di trasmissione dell’inflazione dei prezzi) tale quadro si è complicato non poco e, se fino a qualche giorno fa avremmo potuto scommettere sulla persistenza del fattore “T.I.N.A.” (“there is no alternative” all’affidarsi all’investimento azionario per ottenere uno straccio di rendimento positivo) e dunque al progressivo ricomporsi della fiducia nelle borse, oggi altri fattori si affacciano all’orizzonte degli eventi…

LE TENSIONI GEOPOLITICHE POSSONO MINARE LA FIDUCIA

Innanzitutto quello geo-politico: la crisi dell’Afghanistan è probabilmente tutto tranne che una questione interna dovuta a quella sorta di “primavera araba” con la quale i media vorrebbero etichettare la vicenda. La Federazione Russa la vede come una vera e propria minaccia ai confini del proprio territorio da parte dei servizi segreti anglosassoni nei confronti del regime-cuscinetto di Nursultan Nazarbaief, così come avevano agito ai tempi della destabilizzazione del Nord Africa e dell’Ucraina (e stavolta per evitare di sottovalutarla ha già inviato cospicue truppe scelte).

L’occidente parla quasi soltanto della brutalità della repressione della rivolta stessa, pur ammettendo numerosissimi morti tra le forze dell’ordine del Paese. Pochi parlano del fatto che quasi la metà di tutto l’uranio estratto nel mondo venga proprio da lì (proprio mentre si torna a parlare del nucleare come nuova fonte di energia “pulita”). È inoltre piuttosto probabile perciò che, a seguito dell’appoggio dato dai Russi all’esercito locale, nuove sanzioni verranno inflitte alla Federazione Russa.

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Dunque a seguito del fallito colpo di stato afghano è probabile che si creeranno nuove frizioni con l’Occidente, che potrebbero a loro volta alimentarne altre, dal momento che Cina, Turchia e altre repubbliche asiatiche hanno già proposto di schierarsi a favore della Russia e comunque non resteranno a guardare lo sviluppo degli eventi senza fare nulla. Soprattutto sul fronte dei prezzi dell’energia da petrolio e gas, che rischiano di rincarare ancora nonostante lo sforzo dichiarato di migrare più velocemente possibile verso forme di energie da fonti alternative.

Occorre ricordare al riguardo che l’America non è il primo esportatore di gas e petrolio, ma ne è sicuramente il primo produttore e ne è comunque un esportatore netto a dosi crescenti. Dunque le sue èlites potrebbero avere grande convenienza nel rialzo del costo dell’energia. Con l’eccezione della Federazione Russa il resto del mondo invece lo subirebbe, con conseguenze anche sui profitti degli operatori economici.

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Andrebbe tutto bene dunque, ma soltanto sino a quando l’eventuale persistenza dell’inflazione dovesse arrivare a minare la fiducia degli operatori economici, invertendo la discesa della disoccupazione (arrivata negli U.S.A. ai minimi storici, come si può leggere dal grafico) e iniziando a rallentare gli investimenti in efficienza produttiva. Questi fattori potrebbero ridurre le attese di profitto delle principali società quotate e determinare nuovi ribassi.

MA LA GOLDMAN SACHS È PIÙ CHE OTTIMISTA!

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Tuttavia, nonostante il fatto che la persistenza dell’inflazione, il rialzo dei tassi d’interesse e le tensioni internazionali siano tutti fattori che dovrebbero spingere alla prudenza, la banca d’affari americana Goldman Sachs non ha dubbi: non soltanto le nuove tecnologie continueranno a stupirci e a far guadagnare bene le grandi multinazionali, ma c’è ancora tanta liquidità in circolazione. Liquidità che al momento si rivolge alla speculazione su materie prime, metalli e immobili, ma che alla fine tornerà di nuovo a far incrementare l’investimento in titoli azionari, perché, appunto, a questi ultimi non c’è quasi alternativa in termini di rapporto rischio/rendimento.

Difficile dargli torto: la liquidità oggi in circolazione è davvero alta e, prima dì irrorare la crescita dei prezzi al consumo, essa si intrattiene sui mercati finanziari, dove però l’alternativa “reddito fisso” è davvero povera di attrattiva. E nelle sue previsioni non manca di elogiare le borse europee, meno sbilanciate sui titoli ipertecnologici e le cui performances sono state oggettivamente in calo per anni rispetto a quelle della borsa americana, e dove Goldman Sachs vede dunque le migliori opportunità, come si può dedurre dal grafico qui riportato da Bloomberg:

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Luci ed ombre insomma, come sempre all’inizio di ogni anno, ma forse con un pizzico di ottimismo, pur tenendo conto della volatilità aggiuntiva e del maggior rischio di fondo.

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Lo spettacolo però -come sempre- deve andare avanti. E probabilmente ci andrà. Soprattutto sul fronte delle tecnologie (che però sono investimenti ad elevatissimo rischio), ma anche sui titoli finanziari e sui titoli energetici, dovunque insomma ci sono da attendersi migliori performances per gli anni a venire.

Dunque al momento un pizzico di ottimismo non deve guastare il gusto agrodolce del mercato! Quantomeno la parte di amaro riguarderà i grandi sommovimenti che è lecito attendersi dalla rotazione dei portafogli e dall’incremento della volatilità complessiva. Ma è altrettanto probabile che i profitti aziendali continueranno a correre e, con loro, una messe assai interessante di dividendi !

Stefano di Tommaso