STRATEGIE E MARKETING PER LE PICCOLE AZIENDE

Le grandi macro tendenze (globalizzazione, digitalizzazione, diffusione dell’intelligenza artificiale, demografia e invecchiamento della popolazione…) senza dubbio influiscono più velocemente e più pesantemente di quanto si possa comunemente ritenere su qualsiasi attività d’impresa e ogni genere di azienda dovrebbe tenerne conto per aggiustare continuamente il tiro e chiedersi se I propri prodotti sono ancora competitivi e se, opportunamente reinventati e manipolati, hanno ancora spazio per crescere.
La necessità di rivedere la competitività e l’attrattivitá dei prodotti porta quasi sempre con se la conseguenza di dover rivedere radicalmente anche la strategia e la struttura della culla dove essi nascono e si realizzano: l’azienda. Ma fare strategia d’azienda è da sempre un’attività complessa e poco idonea al modo di pensare ed agire delle piccole e medie imprese. Di seguito vi propongo una breve “guida galattica per autostoppisti” per indirizzare anche I più piccoli imprenditori verso l’impostazione di una riflessione strategica di fondo.

 

Molto spesso quando si parla di strategie aziendali il pensiero vola subito a ciò che fa il dirigente tipico delle grandi multinazionali: esamina moltitudini di dati e analisi di mercato per cogliere delle indicazioni tendenziali, le confronta con le possibilità dell’impresa di adeguarsi e creare o modificare la propria offerta, analizza I dati gestionali per valutare le possibili manovre e individuarne I costi e le economie di scala, per poi procedere con la definizione di piani operativi da sottoporre al consiglio di amministrazione o a qualche comitato esecutivo.

Tutta roba inarrivabile per la piccola e media impresa che spesso si pone sí il problema di guardare più in là del proprio naso, ma non ha alcuno degli strumenti appena citati: non ha studi di mercato (anche perché costano), non ha laboratori di ricerca e sviluppo né sistemi di elaborazione dei dati industriali o gestionali che permettano di evincere delle tendenze, non ha mai fatto piani e programmi formalizzati e non ha nemmeno un consiglio di amministrazione o un comitato di dirigenti che si riunisce periodicamente.

Eppure esistono modi più semplici per affrontare ugualmente l’argomento della verifica della posizione strategica dell’impresa, del modello di business e della soddisfazione della sua clientela, quantomeno allo scopo di comprendere quali elementi della formula imprenditoriale generano davvero valore nell’attività caratteristica di produzione e vendita di beni e servizi alla clientela.

IL PRIMO PASSO

Il primo punto da chiedersi nel cercare di mettere a fuoco le questioni fondamentali che anche un piccolissimo imprenditore dovrebbe porsi, riguarda la più importante delle domande: cosa vuole il mio cliente e come può soddisfare le sue richieste in alternativa a ciò che gli propone la mia impresa?

I clienti acquistano I miei prodotti perché vi percepiscono un valore. Comprendere quali sono gli acquirenti dei miei prodotti e come si differenziano da quelli della concorrenza, quali caratteristiche geografiche, sociali e quali aspettative di servizio esso hanno risulta fondamentale per comprendere quale valore essi trovano nella mia impresa e nei miei prodotti.

La questione è la più semplice cui si possa pensare nel cercare di asserire una formulazione strategica al riguardo della propria impresa, ma anche la più fondamentale. Rispondervi correttamente significa comprendere meglio possibile tanto I bisogni fondamentali della mia clientela quanto riuscire a interpretare correttamente l’arena competitiva e di conseguenza I punti di forza della mia offerta rispetto a quelli dei miei concorrenti.

Ogni imprenditore che segue attivamente la gestione della propria azienda conosce, oltre ogni ragionevole dubbio, le caratteristiche della concorrenza e il panorama di prezzi e proposte che risultano succedanei o complementari alle proprie. Tuttavia è attraverso la comparazione di tali nozioni con quelle della segmentazione della clientela e dell’articolazione delle sue esigenze e l’approfondimento del livello di loro soddisfazione che un imprenditore può iniziare a mettere a fuoco il primo passo della propria analisi strategica. E più riesce ad articolare le risposte a tali domande, a tali comparazioni e alla verifica dei risultati, più egli riesce a porre le basi per un corretto inquadramento di ciò che ne può conseguire in termini di strategia e struttura.

IL SECONDO STADIO

Il secondo passo è quello della messa a fuoco delle caratteristiche della propria offerta rispetto a quelle della concorrenza e rispetto a ciò che supponiamo che il cliente desidererebbe. Per quanto piccola e destrutturata possa risultare la mia azienda io posso sempre riuscire a descrivere nel modo più accurato le caratteristiche della mia offerta, dei miei prodotti, dei servizi che vi risultano collegati e del livello di prezzo nella quale li posiziono rispetto alla concorrenza. La risposta a tale questione comporta anch’essa una formalizzazione del mio posizionamento ma, nella misura in cui riesco a comparare la mia offerta con le alternative a disposizione del mio cliente e con il livello di soddisfazione che vi è collegato posso iniziare ad affermare un concetto fondamentale nella definizione della mia strategia: la mia “Value proposition” (il valore della mia proposta).

Il concetto di value proposition e di come si può pensare di migliorarla risulterà a breve di fondamentale spessore per indicare uno dei punti essenziali di qualunque formula strategica: l’analisi dei miei punti di forza e di debolezza, attraverso i quali riuscirò a delineare il mio vantaggio competitivo. Quando se ne parla non si pensa soltanto al motivo per il quale si può ricaricare un margine sul costo dei fattori di produzione, ma all’intera sfera dei valori percepiti dalla clientela che fanno sì che essa sia disposta a riconoscermi un adeguato valore e dunque a pagarne il prezzo.

Il valore “consegnato” alla clientela promana da ogni angolo dell’organizzazione aziendale: dal suo posizionamento geografico e commerciale al suo marchio e alla competenza che essa esprime, fino alla durevolezza della soddisfazione della propria clientela, alla difficoltà di rimpiazzarne prodotti e servizi, alla velocità di adeguamento della propria offerta alle variazioni delle esigenze di mercato, e contemporaneamente alla sicurezza, eticità e validità intrinseca della propria offerta.

Quel valore fornito insieme a prodotti e servizi dipende spesso anche dalla capacità delle persone-chiave dell’organizzazione aziendale, che possono andare dallo storico commesso di bottega all’ingegnere dei sistemi di manutenzione, dalla storicità delle figure commerciali di riferimento ad un’aggressiva campagna di comunicazione. È spesso un insieme di fattori ma è importante individuarli quantomeno per non rimuoverli inavvertitamente.

IL TERZO E PIÙ DIFFICILE PASSAGGIO

Seguendo le considerazioni sopra riportate abbiamo visto che ragionamento strategico risulta di vitale importanza per ogni genere di impresa e può esplicarsi talvolta anche solo con considerazioni qualitative e generiche, quindi persino in assenza di dati gestionali e verifiche di mercato. Spesso tuttavia il successo pratico che può derivare dal mettere in pratica le considerazioni sopra riportate dipende anche da un altro essenziale fattore : la capacità dell’impresa di erigere valide barriere all’entrata della concorrenza.

Ogni impresa ha elementi di unicità e delle caratteristiche particolari, che si riflettono tanto nel fascino che essa può promanare quanto nella qualità dei suoi prodotti e servizi, nel livello di qualità dei medesimi. Ma se quegli elementi sono facilmente riproducibili dalla concorrenza, se gli investimenti necessari a qualcun altro per avere successo nell’aggredire il mio mercato sono bassi, se ci sono validi sostituti dei miei prodotti e servizi allora io devo fare qualcosa per incrementare l’unicità della mia proposta, la dipendenza della mia clientela, la difficoltà di essere facilmente sostituibile.

Il tema è di grande importanza perché oggigiorno l’arena competitiva evolve così velocemente che non è letteralmente possibile fare programmi e investimenti se non si riesce a configurare un orizzonte temporale sufficiente nel quale I nostri prodotti possono avere successo per trovare un ritorno adeguato agli sforzi e ai denari impiegati.

A volte non si tratta perciò di mere tattiche per poter mantenere prezzi elevati in presenza di validi ed economici sostituti, o di arguzie di breve termine per riuscire a mantenere artificialmente degli spazi di mercato che in realtà non esistono più. Qualsiasi organizzazione aziendale deve riuscire a dotarsi di una propria unicità e di un suo “fascino” implicito che può permetterle di esprimere valore nel tempo. Se non ci riesce, anche laddove la velocità di rinnovamento del mercato non sia alta, c’è ugualmente il rischio che quest’ultimo evapori perché magari è il personale che trova facile spostarsi altrove o perché non si riesce a finanziare il rinnovamento.

La costruzione di valide barriere all’entrata della concorrenza quasi mai è solo questione di quattrini. Molto spesso è il risultato di una strategia vincente e di un ragionamento strategico integrato, ma quasi sempre è un fattore vitale. Anche laddove esse non sembrano essenziali, riuscire a erigere difese strategiche risulta essenziale per avere un orizzonte temporale adeguato a limitare I danni di un attacco esterno, di un esodo interno o di un brutale rimpiazzo dovuto a tecnologie innovative o a concorrenza sleale. Ci sono mille ragioni per le quali la concorrenza può farci dei danni, ma se si sono riuscite a costruire valide “barriere all’entrata” si avrà probabilmente il tempo di reagire o di ridimensionare utilmente l’azienda.

IL “TICKET MINIMO” DEL BUSINESS

A volte fanno parte di tale ragionamento le necessarie dimensioni minime aziendali per poter chiudere il cerchio di una idonea proposizione di valore alla clientela. Capita che se sono troppo piccolo non riesco ad esprimermi e nemmeno riescono ad esprimere valore, con la mia organizzazione, I miei prodotti. Se non riesco ad avere una diffusione capillare della distribuzione, se non riesco ad esprimere autorevolezza, se non riesco a fare adeguati investimenti, se non riesco a trovare efficienza nella produzione, allora tutti gli altri ragionamenti rischiano di passare in secondo piano perché sono privo di alcune leve fondamentali per riuscire a sostenere la competizione.

Il ragionamento è di assoluta ovvietà e, pur tuttavia, molte imprese italiane ricadono in tale fattispecie di mancanza di adeguate dimensioni aziendali. Per motivi storici, familiari o di difficoltà di trovare risorse adeguate alla crescita. In quei casi ove si riscontra l’impossibilità di raggiungere le dimensioni minime aziendali per poter mettere in campo una strategia, allora l’urgenza è quella di individuare un network di collaborazioni, una rete di imprese, un possibile acquirente del business o I necessari capitali per la crescita. In molti casi gli imprenditori decidono di vendere per questi motivi, o perché si intravedono all’orizzonte le necessità di spostare la competizione su scala globale, o anche solo perché la distribuzione è diventata inefficace se non si investe di più.

Molte imprese (anche decisamente grandi) che si rivolgono alle banche d’affari per trovare risposta alle loro problematiche strategiche arrivano a dare loro un doppio mandato : da un lato per la quotazione in borsa (o il reperimento di capitali per altra strada) e dall’altro per la vendita del business (il cosiddetto “dual tracking”).

Ma anche I ragionamenti relativi alla misurazione delle dimensioni minime aziendali necessarie non sono poi così ovvi. Esistono ed esisteranno sempre delle strategie di “nicchia”. Esistono ed esisteranno sempre degli ambiti speciali, delle situazioni particolari e delle nuove esigenze che possono essere soddisfatte con vecchi prodotti. Anzi: è proprio in questi casi che trionfa il pensiero strategico e che può persino arrivare a superare il problema dimensionale. E’ per questo che è così importante!

Stefano di Tommaso




I PROFITTI E I FONDAMENTALI DELL’ECONOMIA TENGONO ALTE LE BORSE

Siamo arrivati quasi al mese di Agosto e i sapientoni che continuavano a prevedere un disastro imminente sui mercati finanziari ancora una volta sono stati smentiti dai fatti! Ovviamente in una situazione così contraddittoria nessuno può fare previsioni inequivocabili. Anzi, per molte ragioni i mercati potrebbero sperimentare qualche imprevisto temporale estivo! Però quando l’analisi tecnica dell’andamento dei mercati non ci viene incontro non resta che guardare agli elementi fondamentali dell’economia globale. È quello che anch’io intendo fare per commentare la situazione generale e dedurne qualche utile considerazione.

 

Le stime che riguardano la crescita economica mondiale infatti sono tutte in continua revisione al rialzo, mentre quelle che riguardano la previsione di un ritorno dell’inflazione sono assai più controverse perché non sembra esserci alcuna “curva di Phillips” in grado di spiegare più o meno linearmente per quale motivo i prezzi i beni e servizi quasi non si allineano al rialzo mentre l’occupazione e le retribuzioni salgono un po’ in tutto il pianeta.
Persino la Federal Reserve Bank of America ha sentito la necessità di esprimersi al riguardo, correggendo un po’ il tiro e ammettendo che per rivedere un rialzo dei prezzi generalizzato ci vorrà ancora molto tempo.

Questo non significherà necessariamente che i tassi (soprattutto quelli a lungo termine) non potranno salire ugualmente. Troppi i motivi per cui dovrebbero comunque farlo, a partire dal fatto che le autorità monetarie di tutto il globo è da tempo che blaterano in tal senso ma poi hanno di fatto mantenuto gonfi i loro portafogli di titoli acquistati sul mercato, lasciando vicini ai minimi storici i tassi di interesse e addirittura innalzando la liquidità disponibile sui mercati finanziari.

È chiaro a tutti che prima o poi le banche centrali dovranno invertire la rotta e che questo non potrà che elevare i livelli dei saggi di interesse, costringendo i mercati a guardare solo agli elementi fondamentali dell’analisi economica e a chiedersi se le valutazioni implicite che circolano in Borsa sono corrette. Una manovra che può portare qualche sussulto sui mercati.
È altrettanto chiaro però che questo non accadrà tanto presto, almeno sin tanto che i loro uffici studi non spiegano meglio per quale motivo l’armamentario degli strumenti di analisi economica (a partire dalla Curva di Phillips) non funzionano più.

GLI UTILI AZIENDALI

In realtà basta guardare meglio all’esplosione dei profitti delle principali società quotate in Borsa in tutto il mondo e alla crescita complessiva del reddito lordo prodotto dai cittadini di tutto il mondo (in qualche caso, come in Italia, quello netto è più o meno totalmente controbilanciato da un incremento della pressione fiscale).

Non solo sono saliti in tutto il mondo gli utili aziendali riportati nel primo trimestre 2017, ma dalle prime indicazioni che arrivano da J.P. Morgan e Citi Bank sembra che la festa sia decisamente continuata nel secondo. A partire dalle banche e società finanziarie, posizionate per beneficiare al meglio della situazione. Sinanco quelle europee, dopo che sono riuscite a tagliare buona parte degli sprechi e delle inefficienze, adesso vedono che il mercato finanziario fa affluire loro quei capitali che possono permettergli di riprendere a fare il loro mestiere fondamentale: prestare denaro.

Oltre ai titoli finanziari quelli per i quali ci si può aspettare maggiore attenzione da parte degli investitori sono probabilmente i grandi produttori di commodities a buon mercato (ici inclusi i metalli e in particolare l’acciaio), mentre tra i titoli tecnologici sarà sempre più evidente che rimangono sulla cresta dell’onda quelli più liquidi e patrimonialmente solidi e, tra questi, quelli che non hanno deluso le aspettative di crescita.

I FONDAMENTALI MACROECONOMICI

Il Fondo Monetario Internazionale ha incrementato quest’anno le aspettative di crescita economica globale dal 3,5% al 3,8%, ben al di sopra del 3,1% realizzato nel 2016. Le migliori sorprese sono arrivate dall’Europa e dal Giappone, per le quali si prevedeva uno scenario molto più statico ma secondo il mio modesto parere queste si spiegano assai bene con la volata delle rispettive esportazioni, che a loro volta sono generate da una crescita economica anche al di sopra di quanto rivelano le statistiche nelle aree dov’è più si concentra la popolazione mondiale e la sua relativa espansione demografica: i Paesi Emergenti, con l’Asia in testa, Cina e India comprese.

Persino il Prodotto Interno Lordo degli U.S.A. è previsto che quest’anno crescerà di almeno il 2%, sebbene la macchina politico-legislativa americana resti intrappolata nello stallo istituzionale seguìto alle accuse rivolte al neo-Presidente Trump di aver ricevuto un supporto dagli “hackers” russi. Ciò accade nonostante il governo non stia concludendo nulla sul fronte della riduzione fiscale e neppure su quello della spesa infrastrutturale!

Anzi, in tutti i paesi avanzati si rivedono copiose delle nuove quotazioni in Borsa (sulle quali era sceso un certo gelo da parte degli investitori) e continua imperterrita la crescita delle Fusioni ed Acquisizioni, che in tanti casi hanno avuto un ruolo positivo nelle razionalizzazioni da queste provocate e dunque nel miglioramento dei profitti aziendali. Le aspettative sono di ulteriori avanzamenti in tal senso e dunque i fattori fondamentali al lavoro in sottofondo fanno sperare che questo scenario quasi idilliaco possa non venire interrotto.

IL BASSO RUMORE DI FONDO DERIVANTE DALLE TENSIONI GEOPOLITICHE AIUTA LA CRESCITA DEI PAESI EMERGENTI

Dunque osserviamo uno scenario economico globale positivo cui si temeva potesse guastare la festa il riacuirsi delle tensioni internazionali, che invece sembrano essere state quasi quasi un fuoco di paglia. E se neanche la geo-politica rovinerà queste aspettative moderatamente ottimiste allora possiamo sperare che sarà quasi indolore il progressivo disimpegno delle autorità monetarie dagli stimoli imposti sino ad oggi?
Inutile dire che l’ottima salute -nonostante tutti i soloni- che stanno mantenendo i mercati finanziari, non aiuta necessariamente a sollevare dalla povertà le fasce più povere della popolazione, non riduce (anzi aumenta) le disuguaglianze nel reddito e, soprattutto, non cancella i debordanti e in qualche caso -come quello nostrano- addirittura crescenti debiti pubblici.

Però l’elevato livello (consolidato oramai da tempo) dei mercati finanziari può indubbiamente aiutare l’economia globale a migliorare e, indirettamente, a curare -sebbene non a risolvere-  i problemi di chi rimane più indietro. Quantomeno aiuta la crescita dell’occupazione, la speranza che questo aiuti l’inclusione economica dei più deboli in circuiti virtuosi di miglioramento, e lascia maggiori spazi per il futuro affinché gli investimenti proseguano la loro corsa e, con essi, nuove iniziative di spesa infrastrutturale possano tornare a prendere piede. Due elementi fondamentali affinché la grande liquidità che ancora alimenta i mercati possa trasmettere a valle un incremento di reddito che a sua volta può tenere alte le aspettative degli investitori.

In fondo l’incremento degli investimenti e il miglioramento dell’efficienza generale costituiscono la strada maestra che i sacri testi raccomandano per migliorare il benessere economico, insieme al diffondersi della conoscenza e degli interscambi. Se perciò i ricchi diventano più ricchi, è possibile che anche i poveri riescano a migliorare la loro situazione e ciò risulta indubbiamente migliore dell’alternativa!
Stefano di Tommaso




I SIGNORI DEL CIBO E DELL’AMBIENTE

Se c’è un settore economico che tutti gli studiosi additano come il più strategico per le sorti dell’umanità nei prossimi decenni, è sicuramente quello dell’alimentazione. Le grandi aggregazioni in corso potrebbero addirittura risultare dannose all’ambiente e al progresso scientifico…

 

Quando si parla di agricoltura e cibo vengono subito in mente i 570 milioni di operatori economici che si stima siano presenti nel settore in tutto il mondo, con oltre 7 miliardi di consumatori (l’intera popolazione del pianeta). Già solo questo enorme numero esprime le possibili conseguenze di un progressivo processo di integrazione in poche forti mani. Milioni di operatori agricoli in meno nel mondo (già solo a causa della progressiva meccanizzazione delle operazioni) possono significare milioni di disoccupati.

GLI OPERATORI PIÙ IMPORTANTI

Per esplorare la portata delle affermazioni radicali che riporta questo articolo occorre tenere presente che la filiera delle produzioni chimiche, agricole, alimentari e di accessori per le loro produzioni è vastissima ed è fortemente condizionata da tre grandi gruppi economici globali:

– La prima potenza industriale nel comparto agricolo risulta sicuramente la Monsanto (il primo produttore al mondo di sementi) con un fatturato 2016 di 74 miliardi di dollari, operatore che però è in corso di fusione con la Bayer, primo produttore al mondo di pesticidi e fitofarmaci (oltre che di farmaci e prodotti chimici), che da sola è giunta alla soglia dei 55 miliardi di dollari;

– al secondo posto nell’agricoltura c’è il gruppo chimico Dow-DuPont che nel totale fattura oltre 130 miliardi di dollari;

– Alla terza posizione nel comparto agricolo il gruppo cinese ChemChina che ha appena acquisito Syngenta per 47 miliardi di dollari. Insieme questi tre operatori (tutti con fortissime radici nella chimica) controllano oltre il 60% delle produzioni globali di sementi per l’agricoltura e la sola “BaySanto” dopo l’integrazione di fatto risulterà proprietaria dei diritti intellettuali riguardanti quasi ogni coltura agricola geneticamente modificata nel mondo.


Per non parlare del settore agrotecnico, nel quale la sola Deere&Co. (quella dei trattori John Deere), esprime un fatturato di quasi 30 miliardi di dollari.

La dimensione conta in questo ambito perché l’intero mondo agricolo sta per entrare in una fase di profonda digitalizzazione, che comporta la necessità di grandi investimenti, quando saranno i droni a diffondere medicine, controllare le coltivazioni e riconoscere eventuali anomalie delle piante, grazie all’intelligenza artificiale, saranno sistemi completamente automatizzati a gestire gli allevamenti, la loro macellazione, lo stoccaggio e le lavorazioni successive.


Ovviamente man mano che l’automazione industriale coinvolgerà anche l’alimentazione, tutti i piccoli operatori spariranno per far posto a pochi grandi ed efficientissimi produzioni, assai integrate verticalmente, dalla chimica di base alla distribuzione degli alimenti pronti.

UNO SCENARIO COMPLESSO

Quello dell’alimentazione è tuttavia il settore economico che più di ogni altro può incidere nella sanità della specie umana e sulla salvaguardia dell’ambiente naturale. È contemporaneamente il più esposto alla raffica di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche nonché quello che peggio sta vivendo un forte processo di concentrazione a scapito dei piccoli operatori e a vantaggio del grande capitale che piano piano sta esercitando il suo potere di mercato per costituire dei monopoli quasi in ogni ambito.

La cosa di per sé potrebbe risultare quasi “normale” se voliamo consideriamo quel settore “maturo” e dunque caratterizzato da un eccesso di capacità produttiva, da scarsa innovazione di prodotto e da una forte prevalenza delle problematiche distributive, tali da incidere grandemente sulla marginalità economica dei suoi operatori, costringendoli ad aggregazioni.

UN SETTORE TUTT’ALTRO CHE MATURO

In effetti ciò che accade è tuttavia quasi l’opposto:

– la scienza ha fatto al riguardo dell’agricoltura e delle produzioni alimentari in generale dei grandissimi passi in avanti, non tutti i quali sono sempre stati correttamente comunicati e diffusi dai mezzi di informazione di massa;

– le cosiddette “esternalità” produttive (cioè i costi a carico della comunità che I produttori di alimenti generano) sono elevatissime per la filiera alimentare, figuriamoci per quella della chimica! La filiera economica globale dell’alimentazione è infatti inscindibilmente legata a quella della chimica (diserbanti, concimi, fitofarmaci, ecc…) ed è perciò anche inevitabilmente connessa alle sorti dell’ambiente, dal momento che l’uso di tali prodotti può incidere in modo molto pesante sulle sorti della vivibilità del pianeta;

– le conseguenze del forzoso processo di aggregazione degli operatori economici con lo spiazzamento di quelli piccoli, non solo genera disoccupazione e flussi migratori verso i centri urbani di quella forza lavoro che prima era presente nell’agricoltura (per essere progressivamente rimpiazzata dalle macchine e dall’automazione),

– ma soprattutto questa tendenza alla smisurata crescita dimensionale degli operatori industriali agricoli e alimentari rischia di contrapporsi all’applicazione delle più recenti scoperte scientifiche che tendono a rivalutare l’efficienza economica delle colture non intensive accoppiando la crescita di specie diverse di vegetali che si rafforzano a vicenda (com’è sempre avvenuto in natura) e a denunciare gli effetti disastrosi per l’ambiente del disboscamento, dell’uso intensivo della chimica, dell’eccesso di acqua utilizzata a fini industriali alimentari e dell’eccesso di anidridi carboniche immesse nell’aria per molte produzioni.

LA CONCENTRAZIONE DEL SETTORE ALIMENTARE GENERA DISECONOMIE AMBIENTALI


Per questi e molti altri motivi le grandi fusioni e incorporazioni di aziende del settore agricolo e alimentare che stanno avvenendo a ritmo accelerato potrebbero meritare di essere invece disincentivate.

La concentrazione in pochi grandissimi operatori economici di un macrosettore industriale quale quello dell’alimentazione (che spazia dalla chimica di base, all’agricoltura, alla produzione di trattori e strumenti di trattamento forestale, alla zootecnia, alla macellazione, fino al trattamento e alla conservazione dei cibi pronti e alla loro distribuzione al dettaglio) a uno sguardo più attento protrebbe risultare cosa assai contraria agli interessi dell’umanità!

Quello dell’alimentazione non soltanto appare dunque un settore strategico per le sorti della specie umana, ma è anche un ambito che, con la riscoperta delle filiere biologiche, con gli ultimi progressi in campo biochimico e con le nuove catene distributive che derivano dalla digitalizzazione globale, potrebbe invece vivere una stagione di grande rinnovamento e sanificazione, nel quale troverebbero posto moltissimi nuovi piccoli operatori super-specializzati in qualche nicchia. Ma di fatto tale possibilità è avversata dai detentori di giganteschi interessi al riguardo.

Quella concentrazione in poche mani della filiera alimentare può dunque generare non solo disoccupazione e di conseguenza dannosi flussi migratori e sconvolgere gli equilibri ambientali, ma anche impedire (o esprimere interessi a non far diffondere) il progresso scientifico. Essa promuove invece (per motivi di convenienza) le mono-agricolture intensive ed automatizzate, generando in tale modo immense “esternalità” a carico del resto dell’umanità.

IL RUOLO DEI “REGOLATORI”

Da sempre infine la politica è intervenuta pesantemente a tutela delle sorti dei coltivatori agricoli, degli allevatori, dei produttori di generi di prima necessità. Oggi invece -probabilmente anche a causa delle forti contribuzioni ricevute dalle lobby che esprimono il maggior potere economico- la politica al riguardo tace in maniera “assordante”!

Le campagne a favore dell’ambiente, della salvaguardia dell’aria che respiriamo e della gestione delle risorse idriche risultano invece sostanziarsi in soli slogan privi di contenuto pratico, la manipolazione delle risorse forestali non viene nemmeno denunciata e, soprattutto, il settore dalle gestione ambientale e del riciclo dei rifiuti risulta essere (a causa di un’impostazione assai errata) uno dei più profittevoli al mondo.


Molti equilibri rischiano di rompersi quando si vuole applicare l’industria 4.0 al trattamento delle risorse naturali e alimentari, se nessuno interviene affrontando il fenomeno da altri punti di vista, come quello di tutti coloro che risultano affetti da malattie che originano da cattive abitudini alimentari o come quello degli 800 milioni di esseri umani nel mondo che risultano ancora a rischio di morire di fame…

Stefano di Tommaso