UN MONDO SEMPRE PIÙ DIVISO

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Le agenzie di rating stanno sottolineando oggi ciò che su queste colonne scriviamo da mesi: il mondo occidentale sembra avviarsi verso una recessione feroce, provocata da inflazione e guerra e acuita dall’approccio da falco delle banche centrali che hanno provocato a loro volta anche un terremoto valutario. Le speranze di una ripresa dei mercati si assottigliano di conseguenza e una serie di fratture si evidenziano non soltanto fra Oriente e Occidente, ma anche tra le singole economie.

 

Lo scenario al momento si fa decisamente grigio, tanto per l’industria quanto per la finanza, oltre che profondamente diviso: da una parte dell’Occidente ci sono gli Stati Uniti d’America, non soltanto protagonisti tanto dell’oltranzismo in guerra quanto delle sanzioni alla Russia ma anche speculatori sui mercati energetici e degli armamenti, e dall’altra parte ci sono in ordine sparso gli stati europei, oramai frammentati sino quasi a dimenticare che dovrebbe esistere una Commissione Europea a coordinarli.

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Oltre “cortina” ci sono Russia, Cina e India, le quali -forti di tendenze demografiche positive- stanno approfittando della stasi europea per guadagnare posizioni e spazi economici nel rapporto con numerosi paesi emergenti i quali non possono che fare le spese di un dollaro troppo forte e tassi d’interesse che rendono insostenibili i debiti contratti per le infrastrutture. L’India prevede di chiudere il 2022 con una crescita del 6,8% del P.I.L. mentre per il 2023 prevede una crescita del 6,1%. La Cina passerà dal 3,2% del 2022 al 4,4% l’anno prossimo. Il confronto con l’Occidente è feroce: gli USA passeranno dall’1,6% del 2022 all’1% nel 2023, l’Unione Europea dal 3,1% del 2022 allo 0,5% del 2023. (qui sotto il grafico dell’indice composito MSCI dell’andamento borse appartenenti alle economie emergenti, sceso vistosamente nell’ultimo anno e mezzo)

LA COMPAGNIA HOLDINGMa nemmeno i Paesi Emergenti fanno blocco unico, anzi! Al vertice di Samarcanda della SCO (Shangai Cooperation Organization) c’erano rappresentanti di Cina, Russia, India, Iran, Pakistan, Kazakistan, Kirghizistan e molti altri. Vorrebbe entrare a farne parte anche la Turchia, ma sarebbe il primo paese NATO a farlo. Oltre 3 miliardi di persone sono rappresentate in quella sede, ma le economie emergenti oggi restano ancora sostanzialmente ognuna per sé, con il rischio che non arrivino a fare fronte comune per creare valide alternative alle istituzioni occidentali e per supportare lo sviluppo economico. Ognuna sembra avere ottime ragioni andare soltanto per la sua strada, senza alcuna strategia di lungo termine. E quando succede questo lo sviluppo economico non avanza.

Il risultato di questo bel coagulo di veleni è una previsione decisamente negativa per l’anno a venire, innanzitutto per l’economia europea, gravata dal doppio problema dell’assenza improvvisa delle forniture energetiche della Federazione Russa e dell’incremento formidabile nei costi delle materie prime, dovuto tanto all’inflazione quanto al cambio sfavorevole con il Dollaro.

LA COMPAGNIA HOLDINGSe ci aggiungiamo che, con uno scenario siffatto non sarebbe da stupirsi più di tanto se a questo punto arrivassero ulteriori problemi anche dai mercati finanziari, in lenta ma costante disfatta, e ci aggiungiamo anche che l’Europa è in prima linea negli aiuti all’Ucraina (e dunque nel confronto militare quasi diretto oramai con la Russia) ecco che le condizioni appaiono tutte sul tavolo per avviarsi a scatenare un bel putiferio.

Non si può poi considerare a quali danni va incontro anche il resto del mondo con il perdurare dell’inflazione dei prezzi e della scarsità di numerosi fattori di produzione: l’industria è costretta a ridurre le proprie produzioni e a rialzare i prezzi di vendita pur senza riuscire a mantenere i margini di guadagno ai livelli precedenti, mentre i consumatori frenano in tutte le direzioni perché impoveriti improvvisamente e preoccupati dalla forte riduzione delle risorse a favore della previdenza sociale. L’eccesso di debiti pubblici infatti sconsiglia di proseguire sulla strada dei sussidi ai consumi e riducono la capacità di fornire adeguato welfare alle classi più deboli della popolazione. Il risultato è pertanto anche quello di una prospettiva di profonde spaccature sociali.

Anche questo fatto sta provocando uno spostamento verso destra nelle preferenze degli elettori europei (e non solo) e, soprattutto, sta facendo più danni al processo di convergenza europeo di quanti ne abbia fatti il successo dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Cosa che fa prevedere ulteriori problemi tanto nel governo della medesima quanto nelle manovre della Banca Centrale Europea, paralizzata dalle divergenze.

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Senza contare il fatto che anche l’atlantismo sfegatato di politici e governanti cui abbiamo assistito sino ad oggi in tutta Europa non potrà non subire una pausa di riflessione dal momento che è sotto gli occhi di tutti chi guadagna e chi perde da questa situazione. Guadagnano gli americani a scapito degli europei, ma guadagnano anche le banche (prima di contare le ulteriori perdite sugli attivi in portafoglio, però) a scapito di chi deve pagare più cari i propri debiti. Guadagnano le grandi industrie a scapito di quelle piccole e medie.

LA COMPAGNIA HOLDINGCi guadagnano i grandi esportatori di petrolio, gas e altre risorse naturali a scapito di quelli che devono importarli, guadagnano i paesi più attivi con l‘energia prodotta dalle centrali elettriche nucleari e da quelle a carbone, guadagnano i produttori di armi e quelli di prodotti chimici e farmaceutici. Guadagnano gli speculatori al ribasso sulle borse, sui preziosi e sulle valute e guadagnano le imprese più innovative, capaci di cavalcare l’accelerazione nel cambiamento del paradigma industriale pregresso, mentre perdono margini di profitto l’industria tradizionale, quella alimentare e quasi tutte le “public utilities”.

Resta ovviamente sullo sfondo la possibilità che ai margini del prossimo G-20 si delineino le condizioni per anche soltanto una tregua nel conflitto in Ucraina. Cosa che potrebbe far flettere tanto le aspettative di persistenza dell’inflazione quanto il prezzo dell’energia. Anche il cambio del Dollaro potrebbe invertire la rotta se ciò avvenisse e le borse potrebbero riprendere vigore, prima che si materializzino altri importanti smottamenti nella fiducia degli investitori. Anzi, paradossalmente, le chances di uno scenario del genere sono oggi più elevate anche a causa dell’evidenza della drammaticità dell’alternativa.

Una profonda frattura però si è prodotta tra Oriente e Occidente, tra paesi più sviluppati ed economie emergenti, tra i paesi membri dell’Unione Europea, tra la stessa America e il Regno Unito e, nell’ambito di quest’ultimo, tra la Gran Bretagna e il resto dei paesi del Commonwealth, sempre più desiderosi di svincolarsi. Persino nell’ambito del medio oriente ritornano prepotentemente le divisioni tra i paesi arabi nonché tra i musulmani sunniti e quelli sciiti.

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Ma non finisce qui: altrettante fratture è possibile osservare tra le classi sociali e tra le fazioni politiche del mondo occidentale. Così come sempre meno fiducia tendono a nutrire gli investitori nei confronti dell’industria e delle innovazioni tecnologiche, riducendo l’importo degli investimenti proiettati al lontano futuro e riducendo lo spazio di crescita delle vere innovazioni. Cosa che non lascia molto spazio all’ottimismo persino nello scenario più positivo dell’avvio di solide trattative per una pace duratura in Est Europa.

Un bel passo indietro nel progresso dell’umanità si potrebbe dire sintetizzando al massimo. Se anche le prospettive di pace con un graduale ritorno alla cooperazione e agli scambi internazionali riusciranno a sventare il pericolo di una nuova profonda recessione globale (sulle certezze dell’avvento della quale nessuno è in grado di affermare previsioni affidabili), il mondo resterà profondamente ferito dalla tragicità degli eventi che stanno accadendo in queste settimane. E le conseguenze di ciò non potranno che farsi sentire a lungo nel prossimo futuro. Le borse difficilmente torneranno presto a toccare nuovi massimi, i tassi d’interesse difficilmente scenderanno in fretta, i prestiti bancari difficilmente saranno di nuovo elargiti a mani basse per chissà quanto tempo ancora.

Stefano di Tommaso




NELL’OCCHIO DEL CICLONE

Ci sono segnali di ottimismo per i prezzi dell’energia, per l’inflazione e forse anche per i mercati finanziari. Cosa succede? Le tensioni internazionali sono destinate a scemare? Purtroppo l’analisi qui condotta porta in direzione opposta: il miglioramento della situazione sembra del tutto transitorio, come quando ci si trova “nell’occhio del ciclone”!

 

Con la pandemia prima, poi con l’inflazione dei prezzi e infine con lo scoppio della guerra in Ucraina, un vero e proprio ciclone sembra aver colpito l’Occidente e i suoi mercati finanziari, che sembravano inizialmente essersi mirabilmente ripresi fino alla fine del 2021 per poi ripiombare in discesa e, soprattutto, veder innalzare clamorosamente tassi di interesse e costi dei debiti pubblici.

In particolare la zona economica che ha subìto le peggiori conseguenze è senza dubbio l’Eurozona, l’area dei paesi che hanno adottato la moneta unica e la banca centrale europee, rinunciando a quelle nazionali. Non soltanto l’inflazione infatti sta erodendo i consumi privati e l’efficienza delle imprese industriali, ma anche le conseguenze della guerra in Ucraina si sono fatte sentire forte, in termini di scarsità e costo dell’energia, e di conseguenza nell’ondata di rincari che ne conseguiranno ulteriormente. La scarsità di gas naturale ha poi influito non poco sul costo dell’energia e peraltro rischia di limitare la capacità produttiva delle imprese situate nei territori più colpiti: quelli dell’Unione Europea.

QUALCOSA SEMBRA ESSERE CAMBIATO

Da metà estate però qualcosa sembrava essere cambiato: le borse erano tornate a salire e il costo del petrolio è man mano ridisceso, mentre le tensioni sul gas naturale sembrano in parte rientrate, nonostante il suo flusso di provenienza russa si sia quasi del tutto interrotto. (di seguito il prezzo del petrolio e il surplus di capacità produttiva)

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Da cosa dipende? E’ una conseguenza della recessione che sta colpendo l’Unione? In parte forse, ma essa non basta a spiegare il fenomeno complessivo, che si è accompagnato a stime di minor crescita dell’inflazione. Una moderazione complessiva di quegli elementi dirompenti che avevano fatto gridare all’allarme generale per l’autunno in arrivo, ha preso corpo. Ma quanto a ragione? Quanto ci possiamo contare per i prossimi mesi? (nel grafico qui riportato il prezzo della benzina in America)


Assai poco, a quanto sembra, e non soltanto per via del fatto che in America la crescita economica sembra proseguire e, con essa, la spirale dell’inflazione e degli incrementi dei tassi non può certo dirsi giunta al capolinea. Le banche centrali del resto del mondo infatti non possono non seguire la Federal Reserve Bank of America nell’incremento dei tassi d’interesse, pur rimanendo sostanzialmente impotenti alla prima delle conseguenze di questa situazione : il cambio del Dollaro contro quasi tutte le monete degli scambi internazionali continua a salire.

ALTRI NUVOLONI NERI ALL’ORIZZONTE

All’orizzonte poi si stagliano altri nuvoloni neri. Il rincaro di petrolio e gas infatti è stato senza dubbio una precisa conseguenza delle tensioni geopolitiche e del deciso schieramento pro-americano dell’Unione europea. Purtroppo tuttavia quelle tensioni geopolitiche non si sono mai ridotte negli ultimi tempi, anzi! Negli ultimi giorni il contrattacco dell’Ucraina fa pensare che il conflitto sia destinato a durare assai a lungo.

Non devono trarre in inganno il ribasso (relativo, peraltro) del costo del petrolio e di quello del gas, dal momento che per ottenere il primo ha sicuramente giovato quel milione di barili al giorno in più sul mercato derivanti dall’alleggerimento delle riserve strategiche americane (che però è destinato ad esaurirsi nel giro di un mese e mezzo al massimo, in coincidenza con le elezioni americane). Per il secondo più che altro i governi europei hanno cercato di ridurre gli effetti della speculazione e di controbilanciare la scarsità di gas con l’accumulo di importanti riserve per l’inverno, insieme ad una serie di misure destinate a limitarne i consumi. Ma se le tensioni di guerra risalgono come sembra, sono destinate ad apparire dei meri “pannicelli caldi”.

LE TENSIONI SUI PREZZI INDUCONO LA RECESSIONE

Morale: la tensione sui prezzi delle materie prime non è detto che non riprenda nei prossimi mesi, dal momento che la loro domanda scende piuttosto poco (più che altro scende in Europa, ma non in Oriente né in America) mentre i rischi di una nuova guerra mondiale tra Oriente ed Occidente restano elevati. L’unico vero fattore di moderazione risulta dal fatto che, nel complesso, complice anche la riduzione di scambi tra l’Occidente e la Cina, la crescita economica globale sta continuando a ridursi, (in Europa poi è già al di sotto dello zero).

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Ecco perché riteniamo sia possibile parlare di “occhio del ciclone”, cioè di quel momento di relativa calma che arriva quando ci si trova al centro di una grande perturbazione metereologica in movimento, prima che la violenza della medesima riprenda altrettanto fortemente mentre passa avanti. Anche lo shock energetico che sta subendo l’Europa sembra destinato a non finire tanto presto, e contribuisce a innalzare il costo dell’energia globale e, conseguentemente, anche quello dei prodotti di moltissime industrie che ne consumano abbastanza.

Questo, insieme al fatto che, a un certo punto della storia, l’inflazione inizia ad auto-alimentarsi, spinge a far pensare che le tensioni, sui prezzi e dunque sui mercati, non possano che tornare a crescere perché la spesa pubblica crescerà, tanto a causa dei maggiori interessi sui debiti governativi, quanto (soprattutto) per i sussidi che dovranno essere dispensati e per gli armamenti.

GLI ERRORI DELLE BANCHE CENTRALI E DEI GOVERNI

La politica monetaria è passata dall’essere estremamente espansiva a progressivamente restrittiva, costringendo le imprese a trasferire sui prezzi al dettaglio gli aumenti dei costi subìti e limitando la loro possibilità di investire per efficientare la produzione. Una politica monetaria restrittiva poi incide alla lunga anche sulla riduzione del valore degli investimenti finanziari, e contribuisce a ridurre la fiducia degli imprenditori avvicinando il momento in cui la recessione può allargarsi al resto del mondo.

La politica fiscale dei paesi occidentali viceversa è passata dall’essere prudente e orientata alla generazione di migliori incentivi per la transizione energetica a fortemente espansiva. Ma con la consapevolezza che le forti elargizioni alla popolazione non solo non riescono a lasciare invariati i consumi della popolazione (che continuano a scendere perché scende il reddito medio reale disponibile)ma in più alimentano inevitabilmente la domanda di beni e dunque l’inflazione (soprattutto in America) e spingono anche all’instabilità dei mercati finanziari, perché per molte nazioni occidentali sarà sempre più difficile incrementare l’offerta di titoli pubblici a reddito fisso.

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In una parola, l’inflazione sta divenendo strutturale, (nel grafico sopra riportato il CPI l’indice europeo dei prezzi al consumo per abitazioni e servizi di pubblica utilità) così come era successo a metà degli anni ‘70, solo molto più velocemente che allora. La progressiva monetizzazione del debito pubblico peraltro aggiunge instabilità al mercato dei cambi valuta e alimenta, indirettamente, l’inflazione, generando una corsa verso i beni-rifugio quali gli immobili innanzitutto, che però saranno evidentemente più tartassati che in precedenza. (di seguito un confronto dei tassi d’inflazione al consumo rilevata dagli istituti di statistica, dei principali paesi d’Europa).

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NEL BREVE TERMINE PREVALE L’OTTIMISMO

Come la mettiamo quindi con le previsioni di ripresa dei listini azionari e, addirittura, con le speranze di retromarcia sui tassi d’interesse da parte delle banche centrali? Nel breve termine è possibile che esse siano relativamente fondate anche a causa del fatto che la liquidità in circolazione resta abbondante e l’investimento azionario resta senza dubbio preferibile a quello del reddito fisso. Le borse sono spesso totalmente scollegate dall’economia reale e, oltretutto, l’autunno vede importanti appuntamenti elettorali in occidente che spingono a pensare che il “mainstream” diffonderà soprattutto buone e rassicuranti notizie.

Ma oltre l’orizzonte massimo di due-tre o quattro mesi al massimo lo scenario non appare affatto rassicurante. Deve davvero succedere qualcosa di eclatante perché il mondo non cada di nuovo in recessione nel 2023 e i mercati finanziari non ne risentano. I venti di guerra dovrebbero placarsi davvero e il commercio internazionale tornare a crescere. Prima o poi sicuramente succederà ma, al momento, è difficile vedere uno spiraglio di sereno sopra le nubi che si addensano.

Stefano di Tommaso




LA GUERRA DI NERVI E DEL PETROLIO

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Il confronto tra Russia e Occidente è a un punto di svolta: ulteriori iniziative belliche rischiano di trascinare il mondo verso una nuova guerra mondiale e i mercati finanziari verso il baratro. E il rischio più prossimo che può derivare dalla strategia di tensione geopolitica attuale è quello che il prezzo dell’energia vada alle stelle e, con esso, anche l’inflazione, alla quale non potrebbe che seguire una profonda recessione economica. E’ questa l’analisi pubblicata recentemente da JP Morgan Chase. I mercati finanziari ovviamente stanno alla finestra, pronti a scendere ulteriormente qualora se ne vedano le avvisaglie. Ma sono anche pronti a riprendersi, qualora tornino a spirare nuovi venti di pace.

 

L’INFLAZIONE ATTUALE È IL RISULTATO DEI RINCARI DEI MESI SCORSI

Gli operatori economici sono spaventati dai dati sull’inflazione dei prezzi al dettaglio, che continua ad aumentare sia in America che in Europa, ma in realtà non ci sono per il momento grandi novità sulle determinanti dell’inflazione dei prezzi che stiamo registrando oggi: se i costi di produzione erano cresciuti intorno a inizio anno mediamente dal 10% al 20% o più, era ovvio che quei rincari si sarebbero prima o poi trasferiti -lentamente ma inesorabilmente- ai prezzi al consumo. Ci voleva soltanto del tempo e questo sta succedendo ora. In realtà negli ultimi giorni i prezzi delle materie prime hanno leggermente ritracciato e ciò farebbe ben sperare.

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Non ci sarebbe dunque da spaventarsi nel veder registrare ancora per qualche mese nuovi rincari alla cassa del supermercato o nei servizi perché le cause a monte dei rincari si erano sviluppate tempo fa e, apparentemente, adesso stanno tornando indietro. Ovviamente non è tutto così semplice: poiché il potere d’acquisto dei salari si è ridotto almeno della misura dell’inflazione, non ci sarà da stupirsi se anche il costo della manodopera nei prossimi mesi salirà inevitabilmente, alimentando una pericolosa spirale dei prezzi che rischia di procedere ancora per diversi mesi, fino a toccare la soglia -non soltanto psicologica- del 10% rispetto a inizio anno. Quando un meccanismo come quello dell’inflazione si mette in moto, non lo si ferma dall’oggi al domani.

LO SHOCK DA OFFERTA SI È SOMMATO AL Q.E.

L’inflazione che stiamo vivendo da molti mesi a questa parte però ha una matrice simile a quella che ha caratterizzato gli anni di iper inflazione di mezzo secolo fa, ai tempi della ”guerra del Kippur”: è originata dall’aumento dei prezzi di quasi tutti i fattori di produzione, causata principalmente da uno shock da offerta. Cioè dalla scarsa disponibilità di materie prime, semilavorati, idrocarburi ed energia. Questa è calata strutturalmente (anche per problemi legati alla pandemia) e, -diciamo la verità- anche opportunisticamente, proprio quando l’economia globale provava a riprendere fiato all’uscita da due lunghi anni di “lockdown”. Molti grandi gruppi hanno indubbiamente fatto grandi profitti con i rincari che ne sono conseguiti.

E’ poi altrettanto vero che allo shock da offerta di beni e servizi si è aggiunta anche -come concausa dell’inflazione- la grande liquidità in circolazione pompata per anni dalle banche centrali di tutto il mondo. Ma questa affluiva già da anni e fino all’arrivo della pandemia globale, per una serie di motivi non era successo nulla di simile. Quando invece le due cause si sono sommate la fiammata dei prezzi è stata molto simile a quella del 1973. Ma le similitudini con quel periodo storico rischiano di non finire qui.

Anche allora il mondo viveva una serie di tensioni geopolitiche e anche allora le principali divise valutarie erano state inflazionate dalla perdita del riferimento del valore del Dollaro americano al valore dell’oro. E anche allora l’inflazione dei prezzi generò molta volatilità sui mercati finanziari e rialzi a raffica dei tassi di interesse, i quali a loro volta alimentarono una spirale che produsse diverse ondate di aumento dei prezzi, non soltanto una. Ecco dunque qual è il rischio che corre oggi l’America (e con essa quantomeno tutto l’Occidente): la possibilità che alla prima ondata inflattiva ne seguano altre.

LA TENSIONE INTERNAZIONALE FRENA I MERCATI FINANZIARI

Il problema è che la guerra in Ucraina non accenna a fermarsi e anzi la Russia ha quasi concluso il suo piano militare di porre sotto l’egida della Federazione le due repubbliche ucraine orientali, ove la quota di popolazione russofona era molto elevata e che erano teatro della guerra civile da anni. Ovviamente per consolidare questo risultato -costato molti morti- la Russia deve impedire che l’Ucraina torni alla carica, e per questo continua a prendere di mira le installazioni militari nel resto del paese e i depositi di armi che arrivano copiose dalla NATO. Una situazione che non piace alla NATO, la quale intende pertanto proseguire a fornire armi e consulenza militare al governo di Kiev, con il forte rischio che il conflitto si allarghi ai paesi che confinano con la Russia (ad esempio la Bielorussia). La NATO ha inoltre spinto i governi dei paesi aderenti a imporre numerose e pesantissime sanzioni economiche alla Federazione Russa, elevando la tensione nei rapporti internazionali a livelli mai visti dopo la seconda guerra mondiale.

E’ perciò molto probabile che la strategia di tensione che l’Occidente sta orchestrando nei confronti della Russia (e, meno platealmente, anche nei confronti di tutte le nazioni che non vi si sono pedissequamente allineate, a partire da Cina e India) rischi di fare altri danni, soprattutto all’Eurozona, tra le grandi economie del mondo quella più dipendente dagli approvvigionamenti esterni di risorse naturali. Non soltanto infatti le sanzioni hanno creato ovvi e pesanti ”ritorni di fiamma” azzoppando le economie dei paesi europei che le hanno applicate, ma c’è il rischio che la loro estensione in tutte le direzioni possa provocare una pesantissima rappresaglia russa: quella di ridurre o azzerare le forniture di gas e petrolio ai paesi NATO, cosa che rischia di creare dei disastri epocali ben più efficaci delle sanzioni.

LA POSSIBILE “MOSSA DEL CAVALLO” DI PUTIN

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In una situazione come quella attuale in cui la domanda di gas e petrolio supera la relativa offerta infatti, se la Russia dovesse decidere di ridurre ancora le proprie esportazioni verso l’Occidente si creerebbe un ulteriore shock da offerta sul costo dell’energia che potrebbe avere immediate ripercussioni sull’inflazione dei prezzi che ne conseguirebbe e sui tassi di interesse. E’ questo il senso dell’allarme, lanciato lo scorso Venerdì, dalla grande banca d’affari JP Morgan, alla quale tutto si può imputare tranne che possa muoversi nell’interesse di Putin.

In uno studio infatti della medesima viene stimato con una certa precisione l’effetto che una riduzione di offerta di 5 milioni di barili di petrolio al giorno -che la Russia potrebbe tranquillamente permettersi senza intaccare troppo la sua salute economica- potrebbe far più che triplicare le attuali quotazioni del greggio, con tanti saluti per le speranze di ripresa economica e riduzione dell’inflazione. Un’ipotesi tanto disastrosa quanto realistica, soprattutto se la NATO proseguirà nel suo intento di cercare di danneggiare la Federazione Russa con altre iniziative belligeranti.

Per ironia della sorte ciò accade proprio quando Joe Biden, conscio del fatto che l’inflazione (già vicina al 9% in America) non aiuterà il suo partito nelle elezioni americane di medio termine, ha deciso (con buona pace per la transizione ecologica e la sostenibilità ambientale precedentemente sbandierate come grandi urgenze) di far pressione su tutti gli altri paesi grandi estrattori di petrolio perché portassero ai massimi la loro capacità di immetterlo sul mercato e farne sgonfiare così i relativi prezzi. Da fonti bene informate infatti la presidenza americana non si era affatto risparmiata in tali sforzi, ad esempio con l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo, pur di spingerli ad incrementare fino ai massimi possibili le quantità estratte.

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E in effetti prezzo del petrolio negli ultimi giorni è arretrato, ma non di molto, dati i rischi elevati che il conflitto bellico possa addirittura estendersi a Moldavia, Polonia e Paesi Baltici. C’è infatti una componente speculativa che punta in direzione esattamente opposta forte del fatto che la fornitura alle forze armate ucraine di missili a lungo raggio effettuata dagli Inglesi rischia di generare altre tensioni, dal momento che per lungo raggio si può intendere soltanto il raggiungimento di obiettivi militari all’interno del territorio russo. Con il rischio a quel punto di rappresaglie di Mosca rivolte non più soltanto all’Ucraina, ma anche ai suoi “mandanti”.

Ecco perché non è così probabile, in una situazione surriscaldata come quella attuale, che il prezzo del petrolio scenda davvero, pur in presenza di un incremento della sua offerta sul mercato spot. Così come non è possibile limitare artificialmente o segmentare geograficamente le sue quotazioni: quando il prezzo del petrolio sale, lo fa in tutto il mondo e istantaneamente. Dunque anche in America.

I MERCATI SONO A UN BIVIO

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Questo rischio, ben più che quello dei rialzi di alcuni ulteriori quarti di punto percentuale nei tassi di interesse, paventati dalle banche centrali, è il medesimo che spinge oggi gli investitori ad avere molta cautela nel tornare ad investire in Borsa, i risparmiatori ad aumentare la quota di liquidità, e gli industriali a rialzare i prezzi di vendita. Il rischio di un allargamento del conflitto bellico e quello di possibili rappresaglie da parte della Russia o sinanco dei paesi “non allineati”, vittime anch’essi di pressioni e minacce americane.

E se la tensione internazionale tornerà a salire, allora probabilmente partirà una nuova ondata di rincari nei prezzi delle materie prime e dell’energia e si ripeterà pedissequamente ciò che era successo a partire dai primi anni ‘70: che l’inflazione era montata “a ondate successive”, non una sola volta cioè, bensì in più riprese. Potrebbe succedere cioè che ulteriori rincari del costo dell’energia possano contribuire a nuovi rialzi dei prezzi al consumo, alimentando però in tal caso una più potente spirale inflazionistica dalla quale non sarebbe facile uscire indenni, nemmeno per le più poderose economie di mercato.

Nemmeno a dirlo, questo sì che alimenterebbe ulteriori aspettative di una recessione economica globalizzata e più profonda, generando tagli e rinvii ai programmi di investimento industriali e infrastrutturali, la quale recessione a sua volta dovrebbe necessariamente convivere con i rialzi dei prezzi di qualsiasi cosa. Una situazione potenzialmente disastrosa che, va da se, danneggerebbe molto di più i paesi le cui economie sono più aperte al mercato libero di quelle con pianificazione più centralizzata, e genererebbe il taglio di numerosi posti di lavoro!

Persino l’America diverrebbe ingovernabile in una tale situazione, posto che alle elezioni autunnali il partito di Biden porterebbe a casa una sonora sconfitta. Ma soprattutto la vicenda porterebbe allo scoperto le tensioni tra gli stati membri della nostra “unione europea incompiuta”, con il rischio di un ritorno indietro nel tempo che non gioverebbe a nessuno, salvo forse ai paesi asiatici, per guadagnare sull’Occidente ulteriori vantaggi strategici.

LO SCENARIO BELLICO ORIENTERÀ I MERCATI

D’altra parte è il destino che consegue a tutte le guerre della storia: è impossibile portarle avanti senza che facciano danni persino a chi le muove a distanza. Solo che stavolta rischiamo il paradosso di portare indietro le lancette dell’orologio all’epoca della guerra fredda e rischiamo la minaccia dell’inverno nucleare. Quello che conseguirebbe allo scambio di testate atomiche tra superpotenze militari. I russi utilizzano questa minaccia -così come quella del petrolio- con intento dissuasivo: si sono detti pronti al conflitto globale, qualora il loro territorio venisse attaccato, e non si illudono troppo sulla possibilità di riprendere trattative di pace con l’Occidente, ragione per cui potrebbero indurlo a più miti consigli attraverso ritorsioni come quella del petrolio.

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Le borse ovviamente staranno a guardare, atterrite (ma lo sono già, a questi livelli di prezzo) o forse anche euforiche, perché se qualche spiraglio di luce si potrà intravvedere sarebbero pronte a tornare a crescere. Certo con una volatilità che sarà difficile da veder scendere nel resto di quest’anno ogni buona notizia rischierebbe di vedere effetti molto limitati nel tempo. Anzi: c’è il rischio che persino l’auspicato rialzo dei titoli a reddito fisso possa venire rimandato sine die, ucciso dall’eccesso di volatilità. Basterebbe invece che la tensione internazionale tornasse leggermente indietro, che probabilmente i mercati finanziari tornerebbero a ravvivarsi non poco.

Invece oggi, sino a che durerà il rischio che il conflitto bellico venga esteso al resto del mondo, i grandi decisori sono costretti a restare liquidi e a fare ulteriori “voli verso la qualità” tornando a selezionare selvaggiamente i loro investimenti tra le sole imprese che promettono migliori risultati o che mostrano tecnologie capaci di fare la differenza, gettando alle ortiche le altre, senza troppi complimenti. Pronti peraltro a fare esattamente l’opposto qualora la situazione geopolitica migliori. E come dargli torto?

Stefano di Tommaso




LE BORSE SCENDERANNO ANCORA?

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I mercati finanziari sono noti per precedere vistosamente gli eventi attesi nell’economia reale, fino addirittura ad andare quasi in direzione opposta per via del gioco delle aspettative. E anche stavolta rischia di andare così: dopo una lunga discesa delle borse mondiali abbiamo assistito finalmente, la settimana scorsa, ad una piccola risalita del listini, dopo che dall’inizio dell’anno le borse erano scese quasi del 20% in totale (si veda il grafico relativo all’indice globale MSCI), anticipando una possibile recessione che si materializzerà forse soltanto nella seconda parte dell’anno. Ma proprio per questo non è detto che, all’arrivo effettivo della recessione, le borse scenderanno ancora.

 

UN CALO DEL 22%, POI UN RIMBALZO DEL 4%

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Come si può leggere dal grafico non soltanto le borse di tutto il mondo sono scese parecchio dall’inizio dello scorso Aprile, ma peraltro ci sono stati anche diversi tentativi di risalita delle borse, tutti terminati con altre discese. Come dobbiamo interpretare allora l’ennesimo rimbalzo delle borse dell’ultima settimana? E cosa succederà dopo?

IL RIMBALZO DEL GATTO MORTO

Un vecchio detto a Wall Street recita che persino un gatto morto, dopo essere precipitato dal piano superiore, rimbalza quando tocca terra. Il rimbalzo delle borse degli ultimi giorni dobbiamo dunque paragonarlo a un gatto morto (e dunque avrà brevi effetti) oppure potrebbe anticipare qualcosa di diverso?

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Sebbene non sia quasi mai possibile predire con certezza ciò che avverrà sui mercati nel futuro, possiamo ugualmente provare a prendere atto di alcuni fatti e talune convinzioni collettive, i quali potrebbero influire non poco sui corsi delle borse valori.

-20% : UNA NUOVA NORMALITÀ?

Innanzitutto alcune certezze:

  • il rialzo dei tassi d’interesse deciso dalle banche centrali per combattere l’inflazione influisce negativamente sulle valutazioni azionarie delle imprese, abbassando il valore attuale netto dei flussi di cassa futuri attesi che esse si presuppone potranno generare. Fino all’inizio di Aprile la volatilità delle borse era stata alta ma i livelli delle borse da inizio anno erano scesi solo marginalmente (-2,5%). Poi il quadro è molto peggiorato e la discesa dei corsi azionari è divenuta una voragine che ha superato il 20% (sempre da inizio anno).
  • un’altra quasi-certezza è che la recessione in arrivo (piuttosto probabile) ridurrà i profitti delle imprese quotate, con pochissime eccezioni, come ad esempio per le società che operano sui mercati di petrolio, gas, energie in generale e rinnovabili in particolare che, pur essendo più che raddoppiate di valore in media da inizio anno per aver beneficiato dei maggiori prezzi dell’energia, nell’ultima settimana hanno invece subìto un ribasso (qui sotto il grafico).

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Le suddette certezze (rialzo dei tassi, riduzione dei profitti) rendono estremamente plausibile il fatto che i ribassi accumulati dai listini azionari rispetto a fine d’anno (circa il 20%), abbiano portato i corsi delle borse ad una “nuova normalità” basata sui livelli attuali del listino, derivante dalle mutate condizioni economiche generali. Ma è altrettanto vero che, se questo è il quadro, allora i mercati finanziari potrebbero aver già “fattorizzato” tutti gli elementi negativi che dovranno manifestarsi nei prossimi mesi. E in tal caso da adesso in avanti potrebbero guardare al futuro con nuovo ottimismo.

LE BORSE SONO IN “IPERVENDUTO”

Non per niente possiamo notare che l’umore degli investitori è ai livelli peggiori da un paio d’anni a questa parte. Dunque le aspettative appaiono sì ancora così negative da far pensare che esse in parte si autorealizzeranno lasciando spazio ad ulteriori ribassi, ma è altrettanto vero che, se le aspettative generali appaiono (come anche questa volta)eccessivamente negative, allora i mercati borsistici potrebbero aver maturato una fase di iper-venduto dalla quale potrebbero riemergere, come si può peraltro vedere dal grafico qui riportato (relativo al Nasdaq):

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Dunque anche quest’ultima considerazione porterebbe a pensare che le cose, per il futuro, potrebbero forse andare meglio di quello che tutti oggi stanno pensando.

NON È DETTO CHE I TECNOLOGICI ABBIANO FINITO DI SCENDERE

Il ragionamento però non può essere fatto troppo in generale, anche perché quasi tutte le borse valori del mondo hanno i loro listini affollati di titoli “tecnologici” (cioè azioni di imprese in media estremamente sopravvalutate rispetto alle loro performances reddituali attuali, in funzione della promessa di risultati futuri ben superiori alla media). La sensazione pertanto è che quelle iper-valutazioni non potranno essere mantenute a lungo e che i prezzi di questi titoli dovranno sgonfiarsi ancora un po’.

A Wall Street ad esempio il peso dei soli titoli FAANG (Facebook, Apple, Amazon Netflix e Google) è pari a circa 1/5 del totale dell’intero listino. Pur essendo scesi di valore più che proporzionalmente rispetto all’indice generale americano SP500 (mediamente del 30% da inizio anno, come si può vedere dal grafico qui sotto riportato), esprimono ancora una valutazione d’azienda pari a circa 23 volte gli utili, cioè di oltre il 40% superiore alla valutazione media (di 16 volte gli utili) dell’indice generale SP500.

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Con l’arrivo delle aspettative di inflazione, recessione e crescita dei tassi d’interesse reali questi titoli “tech” sono stati pesantemente penalizzati dagli investitori che li hanno scaricati, in funzione di una decisa riduzione di quelle aspettative di crescita che ancora oggi contribuiscono a lasciarli decisamente sopravvalutati rispetto alla media del listino. A nessuno è però dato conoscere l’esatta misura di queste aspettative e dunque nessuno è in grado di formulare previsioni corrette circa il fatto che la loro svalutazione proseguirà e quanto essa influirà sui listini azionari complessivamente

I MOTIVI DI UN CAUTO OTTIMISMO

I mercati borsistici, dopo la doccia fredda che hanno vissuto dall’inizio dell’anno, abbiamo visto che nell’ultima settimana hanno provato a sviluppare ancora una volta un rimbalzo. Cioè stanno interrogandosi, dopo aver preso atto del fatto che è arrivata l’inflazione e che questa sta generando una nuova recessione, su quanto durerà e cosa potrà succedere dopo la recessione.

Se infatti l’arrivo della recessione arrivasse a spingere le banche centrali a invertire la rotta dei rialzi dei tassi e tornare a intervenire sulla liquidità disponibile, allora i tassi potrebbero smettere anticipatamente di salire e l’allarme relativo al possibile default per i paesi più indebitati potrebbe rientrare. È altresì possibile che il concretizzarsi della recessione (quantomeno per l’Occidente, che mostra una crescita demografica meno consistente di Asia e Africa) aiuti a far ridiscendere ancora il prezzo del petrolio (e quelli di tutte le materie prime ad esso collegate) e, con esso, l’inflazione attesa.

Tutti fattori che gioverebbero non poco all’umore dei listini azionari, scesi ad esempio in America ben più di quanto sia accaduto in Cina, come si può leggere dal grafico qui riportato (aggiornato alla settimana precedente). Dunque non in tutto il mondo le borse sono andate nello stesso modo!

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IL POSSIBILE RITORNO ALL’INVESTIMENTO OBBLIGAZIONARIO

Ma soprattutto potrebbe verificarsi un ritorno degli investitori dal listino azionario a quello obbligazionario, cosa che allenterebbe le tensioni (e la volatilità) delle borse ma che contribuirebbe a far terminare la lunga fase vissuta sino ad oggi di “bondification” degli investimenti, attraverso la sostituzione delle cedole del reddito fisso (che erano arrivate a zero) con titoli azionari capaci di generare i migliori dividendi. Se dunque gli investitori torneranno a comperare reddito fisso allora compreranno un po’ meno azioni, attenuando le speranze di risalita dei listini azionari.

Insomma se si segue questo ragionamento è piuttosto probabile che la fase che si apre a partire dall’estate 2022 potrà vedere una leggera ripresa delle borse valori che però non sarà necessariamente corroborata dal ritorno alle stelle dei maggiori titoli tecnologici e che sarà anche moderata da un ritorno alla diversificazione dei portafogli verso una maggior quota di titoli a reddito fisso. Se così fosse probabilmente dunque la forte volatilità media, vissuta dalle borse sino ad oggi, potrebbe finalmente scendere e, forse, una maggior liquidità potrebbe tornare a circolare sui mercati azionari a causa della progressiva ripresa di fiducia degli investitori professionali e istituzionali.

È chiaro infine che un allentamento della stretta attualmente promessa dalle banche centrali potrebbe ulteriormente corroborare le aspettative degli investitori, ma è anche piuttosto probabile che l’eventuale ritorno all’intervento da parte delle banche centrali potrà risultare più moderato che in passato, stemperando le aspettative al rialzo delle borse ma anche contribuendo a stabilizzarle.

MA GUERRA E PANDEMIA POSSONO ANCORA GUASTARE LA FESTA

C’è però all’orizzonte dell’altra nuvolaglia che potrebbe guastare le feste a chi si aspetta un rialzo delle borse: quella relativa al diffondersi delle nuove varianti dei virus che hanno provocato le precedenti cinque ondate pandemiche (e che recentemente hanno spinto la Cina ad un deciso nuovo “lockdown” della popolazione interessata), e quella relativa alle incerte sorti della guerra in Ucraina, dove tutti i contendenti sembrano fortemente propensi a proseguire o intensificare gli scontri.

Una nuova pandemia e/o un eventuale accanimento del conflitto ucraino (o una sua estensione a zone europee limitrofe) potrebbe infatti gettare nuova incertezza sui mercati, riducendone le possibilità di ripresa. Bisogna però ricordare che i mercati “prezzano” già l’incertezza bellica nelle attuali quotazioni e che tendono a limitare le loro aspettative di rialzo anche in funzione del fatto che il conflitto non accenna a risolversi. Dunque non solo guerra e pandemia potrebbero generare nuove sorprese negative, ma la loro “endemicità” introduce sicuramente un fattore di attenzione che spinge gli investitori a mantenere una maggior quota di liquidità tra i propri asset anche qualora l’inflazione facesse un po’ di marcia indietro e la recessione fosse soltanto parziale o avesse effetti molto limitati sulla riduzione dei profitti aziendali.

DUE “DRIVER” CONTRAPPOSTI

Ricapitolando perciò possiamo individuare per il prossimo futuro due possibili tendenze contrapposte:

  • da un lato infatti l’arrivo della recessione non appare destinato a generare nuovi importanti cadute dei listini azionari bensì addirittura forse a presagire un loro lieve rafforzamento. In contropartita eventuali interventi delle banche centrali a favore dei mercati potrebbero risultare in rialzi dei corsi molto moderati, a favore invece di una discesa probabilmente generalizzata del livello di volatilità dei mercati, sino ad oggi restata molto vicina ai massimi storici. Si tratta dunque di fattori moderatamente positivi che porterebbero maggior serenità all’investimento azionario e in definitiva ad una sua lenta ripresa;
  • dall’altro lato però lo scenario sopra descritto tende a ignorare i rischi di nuove ondate pandemiche e della possibile acutizzazione dei conflitti bellici in corso. Due fattori che potrebbero tranquillamente riportare indietro di un paio d’anni le lancette dell’orologio dei mercati. Con l’aggravante che oggi l’economia occidentale è sicuramente più provata di un paio d’anni fa a causa delle crisi già vissute e dell’accresciuto debito complessivo globale. In tal caso le borse non potrebbero che scendere ancora, fattorizzando non soltanto la recessione in arrivo ma anche un nuovo possibile picco dei prezzi delle materie prime.

LA STAGIONALITÀ DELLE BORSE

Nessuno conosce l’entità delle probabilità collegate all’uno o all’altro scenario e, in questi casi, la moderazione è d’obbligo. Ma la possibilità di una lieve ripresa dei listini azionari -almeno durante l’estate- potrebbe tutto sommato non essere del tutto da escludere, come ben indicato da questo grafico, che mostra con la linea rossa il tipico andamento borsistico (sintetizzato con l’indice Dow Jones) in ragione della stagionalità degli ultimi 30 anni: nella prima metà dell’anno le borse tendono a scendere, mentre dall’estate in poi tendono a a tornare a salire. Ci auguriamo che il buon auspicio possa valere anche per quest’anno.

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Stefano di Tommaso