IL TRIONFO DELLE CRIPTOVALUTE

Farsi un’idea del perché il BitCoin è quasi arrivato a valere 6000 dollari americani non è una cosa semplice. Tantomeno se teniamo conto del fatto che solo all’inizio del 2017 il suo valore superava appena 1000 dollari. In un mio precedente articolo dello scorso Maggio ( http://giornaledellafinanza.it/2017/05/15/la-carica-esplosiva-del-bitcoin/ ) accennavo alla difficoltà di sottoporlo a regolamentazione come pure alla probabilità che la sua quotazione sarebbe salita ancora, proprio perché la quantità in circolazione di Bitcoin è sottoposta a rigide regole e la domanda non manca.

Eppure non solo il Bitcoin è volato quotazioni che ridicolizzano ogni più recente apprezzamento delle borse valori, ma la più famosa delle criptovalute è oggi così richiesta che -visto che la sua domanda ne supera ampiamente l’offerta- stanno comparendo sul mercato così tante altre criptovalute da porsi almeno una domanda (sopra tutte le altre) a proposito di questa singolarità del mercato finanziario.

C’È DAVVERO COSÌ TANTO BISOGNO DELLE CRIPTOVALUTE?

Evidentemente la risposta è affermativa, altrimenti avremmo assistito viceversa ad un numero infinito di tentativi senza successo e le quotazioni di quelle più famose non sarebbero arrivate oggi alle stelle. Oltre al Bitcoin infatti vediamo l’Ethereum, il Ripple, il Litecoin e qualcosa come altre 1700 criptovalute comunemente censite.

Ecco di seguito un elenco delle prime 100 in ordine di capitalizzazione complessiva.


UNA VERA E PROPRIA “ASSET CLASS”

Il fatto però che in totale la somma dei valori di queste criptovalute in circolazione arriva a oltre 170 miliardi di dollari significa che qualcosa è cambiato.

Non si tratta più di un interessante esperimento, bensì di una nuova vera e propria “Asset Class” per gli investitori.

Ecco qui sopra un paragone (nemmeno troppo aggiornato, visto che nell’immagine qui riportata la capitalizzazione delle criptovalute arrivava “solo” a 163 miliardi). In teoria quindi questa “asset class” ha già scalato altre posizioni tra I titoli più capitalizzati a Wall Street.


Il fenomeno della diffusione esponenziale delle monete digitali è oramai sulla bocca di tutti, ma il vero boom è arrivato solo a partire dall’inizio del 2017, dal momento che prima di quella data i valori in gioco erano quasi ridicoli. Ecco ad esempio un grafico dell’andamento delle quotazioni delle prime 10 divise digitali: se escludiamo il Dash e l’Ethereum si vede subito che per tutte le altre le quotazioni non sono salite altrettanto velocemente (e solo a partire da inizio anno).


COS’È CAMBIATO?

Dunque cosa è cambiato nel contesto generale dei mercati finanziari perché si è accesa questa nuova stella? Per rispondere a questa domanda non è evidentemente sufficiente parlare del trionfo di internet, dell’esplosione del commercio online, né dell’incremento delle quotazioni di quasi tutti I listini azionari del mondo, perché l’ampiezza del fenomeno non è paragonabile a nessuno di questi fatti, sebbene indubbiamente ciascuno di essi (e molti altri) abbiano contribuito al successo delle criptovalute.

Qualcos’altro perciò ha dato fuoco alle polveri. Probabilmente tra I fattori di contorno è stata presa in considerazione la riservatezza del loro possesso. È virtualmente impossibile infatti darne la caccia ai possessori e l’accesso al denaro criptato può avvenire -senza costi- da qualsiasi internet bar del pianeta. L’incremento dell’interscambio internazionale e la possibilità di non essere tracciati nella titolarità dei movimenti finanziari ne ha fatto una cuccagna per gli agenti segreti, I trafficanti di materiale illecito, gli evasori fiscali e tutti coloro che subiscono restrizioni alla circolazione dei propri capitali.

LA RISERVATEZZA

Ecco però, forse è proprio quest’ultima caratteristica (non essere soggette ai controlli sulla circolazione dei capitali) quella che ha fatto la differenza. L’economia cinese, si sa, da tempo cerca di tenere sotto controllo il deflusso di capitali, anche perché la svalutazione programmata del Renminbi è oggetto di grande attenzione da parte del Governo centrale. La Cina sarebbe infatti diventata la prima economia al mondo (Inntermini di P.I.L.) già nel 2012 se non fosse stato per il fatto che la classifica si fa in dollari e che da allora ad oggi il Renminbi è stato pesantemente ridimensionato. Sembrerebbe infatti che buona parte dell’ascesa dei valori in gioco nelle criptovalute abbia origini nel sud-est asiatico.

Certamente le criptovalute per definizione non hanno territorio, né subiscono limitazioni nei loro movimenti dentro e fuori delle maggiori economie del mondo. Sicuramente la recente maggior diffusione ha contribuito a dare fiducia a questo strumento ribaltando la precedente ritrosia ad affidarsi a circuiti poco trasparenti. Gli esperti però garantiscono che la trasparenza non manca al sistema che presiede alla loro registrazione: la “blockchain”. Anzi! È molto più sicuro di qualunque altro proprio perché nessuno lo controlla.

MEGLIO DELL’ORO


Molti hanno paragonato le criptovalute ad altri beni rifugio, primo fra tutti il principale tra di essi: l’oro. Il paragone non è fuori luogo. Ma c’è un’importante differenza: la quantità in commercio dell’oro è controllata dalle banche centrali, che ne posseggono una forte quota del totale di loro forzieri. Dunque il prezzo dell’oro è controllabile. Quello delle criptovalute invece dipende solo dalla domanda e dall’offerta. E probabilmente l’ascesa dei prezzi è funzione del combinato disposto di domanda a fini protettivi, riservatezza, assenza di fiscalità sui guadagni in conto capitale, offerta limitata e non manovrata che l’ondata di capitali in fuga dalle borse (giudicate troppo care) a caccia di strumenti di investimento alternativi. I valori sono esplosi anche perché l’offerta di criptovalute è direttamente dipendente dalla circolazione della stessa, attraverso un complicato meccanismo chiamato “estrazione mineraria” (mining), anch’esso basato su regole chiare e sull’impossibilità oggettiva di infrangerle.

Con quelle regole la protezione dalla diluizione del valore intrappolato nelle criptovalute è praticamente assoluta. E allora ecco che ci avviciniamo a farci un’idea delle ragioni dell’ascesa: niente costi di trasporto, niente rischi di detenzione, niente tasse e niente controlli. Le criptovalute nascono con la caratteristica di adattarsi perfettamente al contesto generale del commercio elettronico senza frontiere. Soprattutto quando riguarda oggetti smaterializzati (come I titoli azionari) o servizi di ogni genere, digitalmente forniti.

UNICI NEMICI: GOVERNI E DEFLAZIONE

Resta però il rischio (Non banale a questi livelli) che l’aereo che si è alzato in volo torni a terra: che l’interesse verso tali strumenti arrivi a rarefazione, vuoi per normative al riguardo vuoi per qualche altro fattore come un ritorno della deflazione, che spinge al ribasso le quotazioni dei beni rifugio e incita gli investitori ad andare a cacciare rendite “sicure”, al riparo dal calo generalizzato delle quotazioni. Se dovesse affacciarsi all’orizzonte nuovamente uno scenario di Stagnazione Secolare come quello dipinto da Larry Summers (http://larrysummers.com/2016/02/17/the-age-of-secular-stagnation/) in un famoso intervento del 2016 è possibile che il contesto generale, oggi così favorevole alla diffusione delle criptovalute, possa mutare radicalmente. La sensazione però è che un tale scenario non sia dietro l’angolo.

Stefano di Tommaso




ESUBERANZA RAZIONALE?

IL NOBEL A RICHARD THALER PUÒ SPIEGARSI CON IL TENTATIVO DI DARE RISPOSTE AL TEMA DELL’ESUBERANZA IRRAZIONALE DEI MERCATI FINANZIARI? E SE FOSSE IL CONTRARIO?

L’altro giorno leggevo tra i commenti all’ultima premiazione della fondazione Nobel per gli studi economici quelli che fanno riferimento ad un semplicissimo sito web gestito da un altro premio Nobel per l’economia: Robert Schiller. Il nome del sito internet “http://irrationalexuberance.com/main.html?src=%2F#4,0” parla già da solo. Esso si limita ad esporre, accanto alla copertina del famosissimo libro omonimo (vedi immagine copertina), soltanto due grafici: quello dell’andamento dell’indice azionario Standard &Poor di Wall Street (Insieme a quello dell’andamento degli utili aziendali) e quello del rapporto prezzo/Utile insieme all’andamento dei tassi di interesse.


Anche il premio Nobel elargito in precedenza a Robert Shiller riguardava la “Finanza Comportamentale”. Dunque questo tema è percepito dal mondo accademico nonché dai giurati del premio Nobel come uno di quelli davvero importanti in un momento come questo.

I GIUDIZI ED I COMPORTAMENTI UMANI NON SONO DEL TUTTO RAZIONALI. NEMMENO QUANDO CREDONO DI ESSERLO

Il ragionamento di fondo di Schiller e Thaler osserva che il comportamento umano non può essere rappresentato con la sola logica delle aspettative razionali e I modelli economici di conseguenza non possono non tenerne conto. Solo che quel “tenerne conto” può non andare soltanto nella direzione di predire lo scoppio delle bolle speculative. Può invece anche essere interpretato all’opposto per riuscire a comprendere come mai le borse continuano a salire.

Andiamo infatti a leggere cosa ci raccontava Shiller nel suo libro, pubblicato nel 2000 (quando I mercati finanziari avevano toccato un altro picco massimo): che se si vuole interpretare correttamente l’andamento delle Borse Valori bisogna necessariamente tenere conto anche delle psicologie (e non solo delle argomentazioni razionali) le quali aiutano non poco a fabbricare ogni genere di bolle speculative sui mercati. Il libro spiega anche che alla fine le bolle esplodono sempre, anche se a volte in tempi più lunghi del solito.

 

Questi grafici così sintetici e quasi silenziosi ci raccontano però anche dell’altro: se andiamo a guardare il rapporto prezzo utili cui si riferiscono le attuali quotazioni borsistiche, non c’è dubbio che siamo oggi ben lontani dai massimi del 2001, poco prima che finisse l’era della prima “New Economy” e il mondo cambiasse per sempre. Più esattamente su quel rapporto, rispetto ai massimi siamo a metà strada, mentre i tassi di interesse a lungo termine (la linea rossa) sono invece arrivati in picchiata ai minimi di sempre più o meno un anno fa, nonostante le intenzioni più volte espresse dai banchieri centrali di tutto il mondo, concordi con la necessità di continuare a tirarli un po’ su, dal momento che neanche negli anni trenta si erano visti così in basso.

E SE LE ATTUALI QUOTAZIONI DI BORSA RISPECCHIASSERO LA “NUOVA NORMALITÀ”?

Dunque da un lato le azioni quotate a Wall Street non risultano poi così care se comparate con I profitti che esse esprimono, dall’altro lato i tassi sono oggettivamente bassi e dunque essi giustificano (almeno in parte) delle quotazioni più elevate a parità di tutto il resto. Come dire che la bolla speculativa alla fine scoppierà ugualmente, ma di strada da fare per gonfiarsi ancora potrebbe averne ancora tanta. Allora in questo caso ciò che sembra davvero irrazionale è il timore di un crollo, non il suo opposto.

A proposito dei tassi di interesse bisogna poi ricordare che quelli che contano davvero sono I tassi reali prospettici, cioè quelli futuri e al netto dell’inflazione. Per soppesare il livello dei tassi di interesse reali e tenerne conto nel chiedersi come attualizzare i profitti futuri sono perciò importanti le aspettative di inflazione, che fino a qualche giorno fa sembravano puntare verso l’alto mentre poi è arrivata l’ennesima doccia fredda che gli economisti non riescono a spiegare se non con il salto quantico della digitalizzazione.

TASSI, CRESCITA E INFLAZIONE

La crescita economica infatti si accompagna di norma a un surriscaldamento dell’economia che porta qualche tensione sui prezzi al consumo perché aumenta la propensione alla spesa da parte dei consumatori che si ritrovano con un reddito maggiore. Questo sarebbe particolarmente evidente negli Stati Uniti d’America dove l’economia cresce oramai da più di sette anni ( altrove solo negli ultimi tempi l’economia è tornata a crescere ) e la disoccupazione è giunta ai minimi storici, eppure l’inflazione non risale. Senza di essa I tassi di interesse reale attuali, pur bassi, non sono nulli e pertanto hanno più probabilità di restare a livelli simili a quelli attuali.

Dunque I profitti futuri vanno attualizzati a tassi bassi e -in generale- giustificano maggiormente le quotazioni stratosferiche di molte società quotate.

Poi ovviamente per giudicare se le valutazioni espresse dalle borse appaiono o meno eccessive, dipende anche da ciascun settore di appartenenza. Tipico è il paragone che si fa tra I moltiplicatori degli utili di due titoli che sono chiaramente molto grandi ed esprimono business all’avanguardia e globalizzati, sono percepiti entrambi come titoli “tecnologici” ma appaiono tuttavia agli investitori molto diversi tra loro: Apple e Alphabet (Google). Il Financìal Times di stamane faceva notare che la prima, dal momento che buona parte dei suoi utili arrivano dagli apparati cellulari, viene considerata “cara” dal mercato al prezzo di 15 volte gli utili mentre la seconda, I cui profitti derivano per oltre l’80% dalla pubblicità online, quota tranquillamente (e da tempo) ben 27 volte gli utili. Le aspettative di crescita della prima sono infatti diverse da quelle della seconda.

MORALE

Per giudicare eccessive le valutazioni del mercato bisogna prima stabilire quale tasso di crescita dell’economia riduce il fattore di sconto dei profitti futuri. E se quel fattore prima di tener conto della crescita già partiva da un livello basso in assoluto, è sufficiente attendersi una lieve crescita prospettica del. Intesto economico per valutare molto più caro un titolo quotato. E nessuno può negare che, con una previsione di crescita economica globale vicina al 4% nell’anno in corso, le aspettative di crescita ulteriore dei profitti sono più che giustificate. Casomai perché il sistema prezzi/tassi/aspettative sia sostenibile bisogna che restino vere tanto le prospettive di un‘ inflazione limitata quanto quelle di un forte interscambio internazionale, fattore essenziale anche per tenere viva la prospettiva di importanti profitti aziendali. Diverso sarebbe infatti se quelle premesse mutassero.

Tornando alle aspettative-non-esattamente-razionali, appare possibile che se pensiamo di poter giudicare gli eventi sulla base di ciò che è successo in passato stiamo tralasciando quasi certamente una parte della verità. I lavori di Richard Thaler riguardano proprio la verifica del fatto che gli esseri umani si basano moltissimo sul comportamento passato per fondare le loro decisioni, anche quando chiaramente il futuro non rassomiglia più al passato.

Nonostante Thaler abbia espresso chiaramente il suo disappunto per il livello da lui giudicato eccessivo delle borse odierne, resta il fatto che le sue teorie possono funzionare anche all’opposto. Cioè nell’indicare “a prescindere “ come eccessivi I livelli borsistici attuali solo perché in passato non si era vissuto un salto quantico nello sviluppo economico (delle economie emergenti) come quello attuale. Nessuno può vantare delle certezze al riguardo ma il beneficio del dubbio deve continuare ad animare la ricerca dell verità!

Stefano di Tommaso




AAA OTTIMISMO CERCASI

Sui mercati finanziari europei aleggia il fantasma di una nuova ondata di pessimismo. Non dipende da un fattore in particolare, bensì da una “sfortunata serie di eventi” come titolava Lemony Snickets (pseudonimo di Daniel Handler) in una fortunatissima serie di romanzi dark per ragazzi. Se però numerosi indizi fanno almeno una prova ecco che si fa avanti l’idea che per il vecchio continente il clima di generale ottimismo possa essere repentinamente cambiato.

 

LE BANCHE RISENTONO DELLA SFIDUCIA

Se vogliamo cominciare dal settore bancario, forse di incidenti ne scorgiamo più di uno, a partire dal fallimento del Banco Popular, salvato in Giugno dal Santander (che ha permesso di risparmiare i depositanti) ma dove il buco per azionisti e obbligazionisti “junior” è risultato pari a 37 miliardi di euro, il doppio delle popolari venete.

Ed esattamente come nel caso di queste ultime, se la normativa europea può adattarsi alle circostanze (in funzione degli interessi commerciali e strategici di questo o quel paese che la domina) invece di risultare un baluardo di certezza, ecco che il resto del mondo torna a guardare i nostri mercati finanziari come noi normalmente apostrofiamo quelli del sud-America !

LA NUOVA NORMATIVA SUI NON PERFORMING LOANS

Il recente “giro di vite” della Banca Centrale Europea sui crediti deteriorati infatti sicuramente non ha riempito di gioia chi aveva appena rotto gli indugi ed era tornato a investire sulle banche europee, perché esso obbliga queste ultime a coprire entro sette anni con nuove risorse di capitale le perdite sugli NPL (non performing loans), ma soprattutto le obbliga a coprire entro due anni i crediti deteriorati di più recente formazione. Di fatto la BCE sta comunicando alle banche europee che devono raccogliere più capitale e l’effetto silurico sulle quotazioni delle medesime risulta ovvio persino a un bambino.

Preoccupanti anche le nuove stime circa l’ammontare complessivo dei crediti deteriorati in Europa: si presume che essi superino i mille miliardi di euro nominali, by-passando dunque la speranza che la normativa potesse non affliggere più di tanto il mercato dei capitali.

I TASSI CRESCONO

Se non vogliamo proseguire con l’ovvia elencazione di sfortunate coincidenze che sono culminate nella quasi-guerriglia urbana di Barcellona, ecco che un altro fattore di “attenzione” torna alla ribalta: i tassi impliciti sul mercato dei bond (che non rendono più quasi nulla) stanno tornando a crescere, in particolare in Italia (vedi grafico), rovinando la festa alle quotazioni del mercato dei titoli a reddito fisso (bonds) che devono quindi riallinearsi verso il basso.


Paragoniamo per un attimo i nostri mercacon quello americano: l’indice curato da Merril Lynch sui bond europei ad alto rendimento ci segnala un tasso medio di ritorno del 2,3%. Esattamente il medesimo dei titoli di stato americani a dieci anni. Ora, cambi valute a parte, voi quale preferireste tra i due rischi?

Il punto è che la BCE ha incentivato l’acquisto di obbligazioni aziendali in Europa da parte degli investitori istituzionali, anche per lasciarle libero il mercato dei titoli di stato sul quale l’offerta iniziava a scarseggiare in presenza del programma di acquisti noto comunemente come Quantitative Easing, tutt’ora in corso. Ovviamente tutti si chiedono quando finirà cosa succede al mercato e, nel dubbio (che è quasi una certezza) arrivano le prese di beneficio.

LE BORSE EUROPEE SONO SATOLLE


Se vogliamo infine porre la ciliegina sulla torta l’indice di borsa EuroStoxxs è cresciuto, da un anno a questa parte, dell’80% lasciando spazio a più di una vendita per realizzare i profitti accumulati soprattutto da parte di quegli investitori asiatici che avevano puntato a guadagnarci ben due volte: con le borse e con il cambio delle valute. Anche quest’ultimo ha arrestato la sua corsa e adesso si parla di tornare a rivalutare l’Euro solo a partire dal nuovo anno (una boccata d’ossigeno per l’Italia).

Si è anche visto con le prese di beneficio occorse nel primo giorno di quotazione della Pirelli: il più grande collocamento di sempre della Borsa Italiana ha lasciato un po’ tutti con la bocca amara. Fosse passato qualche altro giorno magari sarebbe stato addirittura rinviato!

Sappiamo anche che le attese per un lieve recupero del prezzo del petrolio e dei “consumabili” energetici (gas, carbone, ecc…) non faranno piacere all’industria del vecchio continente e che il record di esportazioni europee (che aveva favorito soprattutto le imprese cisalpine) raggiunto nella prima parte del 2017 non è destinato a durare nel tempo, anche a causa del cambio contro dollaro, che a partir dall’inizio dell’estate ne ha peggiorato la competitività.

NUOVI RATING ALL’ORIZZONTE?

Manca solo il “colpetto” decisivo delle immancabili puntate autunnali delle agenzie di rating sui mercati europei (tutte rigorosamente americane) perché i medesimi tornino a ridimensionarsi in maniera più consistente, ancora una volta a favore di quelli d’oltreoceano. È la legge del più forte (lo Yankee), che alla fine vuole il bottino maggiore sui mercati.

Sarebbe lui il conte Olaf dell’arcinota serie di romanzi di Lemony Snickets? Come diceva sempre il Divo Giulio quando gli facevano domande cattivelle: “a pensar male si fa peccato, però…

Stefano di Tommaso

 




IL PREZZO DEL PETROLIO NON PREOCCUPA PIÙ ?

Chi l’ha detto che il petrolio salirà? Gli investitori, ovviamente, i quali cercano ogni giorno di imboccare per primi nuovi trend di mercato e giustificare, attraverso nuove strategie, il loro operato rispetto alle migliori performances che da mesi inanellano i fondi di investimento indicizzati. Peccato però che anche questa volta rischiano di sbagliarsi alla grande, così come non si è visto un vero “reflation trade” (un ritorno di fiamma dell’inflazione che avrebbe potuto giustificare nuove rotazioni dei portafogli titoli). E alla mancata crescita dell’inflazione la questione del prezzo futuro del petrolio è molto connessa.

 

LO SCENARIO GLOBALE È MOLTO COMPOSTO

L’economia globale cresce alla grande ma non dá alcun cenno di surriscaldamento, facendo saltare i nervi agli operatori e agli speculatori che ci avevano scommesso sopra. Non surriscaldandosi non crescono nemmeno i prezzi delle materie prime e nemmeno oscilla il dollaro, che ne esprime l’unità di misura. Rimane tutto piuttosto stabile insieme ad una volatilità dei mercati finanziari che continua storicamente a decrescere e ad una liquidità globale che aumenta tanto da fare invidia agli oceani alle prese con il disgelo delle calotte polari.

Nel lungo percorso che ha portato in tutti i dodici mesi precedenti i mercati verso nuovi massimi storici e a tornare a crescere significativamente i prodotti lordi della maggioranza delle nazioni, soprattutto quelle emergenti, molte volte i grandi investitori hanno gridato al lupo al lupo, molte volte le banche centrali hanno minacciato impennate dei tassi di interesse (anche per limitare sul nascere i possibili scoppi di bolle speculative).


Ma la verità è che un po’ dappertutto nel mondo i consumi sono tornati a crescere, la disoccupazione è in discesa e i profitti delle imprese sono in forte crescita, mentre tutto il resto fornisce confortanti segnali di rilassamento e permette ai mercati di dimenticare i livelli stratosferici raggiunti dai debiti pubblici anche a causa dei bassissimi tassi di interesse che essi devono pagare, lasciando sperare i più in un lento discioglimento di quei debiti nell’acido della progressiva monetizzazione.

IL PETROLIO IN UN TUNNEL TRA 50 E 60 DOLLARI AL BARILE

In uno scenario così composto, sincronizzato e positivo, procedono le politiche di incremento dell’uso delle energie da fonti rinnovabili e anche per questo motivo il petrolio rischia di restare a lungo confinato magicamente nel tunnel che va dai 50 ai 60 dollari al barile (vedi grafico), ove al ribasso agiscono immediatamente le iniziative di incremento delle riserve strategiche e al rialzo invece giocano tutti i produttori che hanno congiurato sino ad oggi per una ripresa del prezzo i quali servono maggiori quantità non appena gli risulta possibile.


Eppure la domanda globale di petrolio sta tornando a crescere eccome, non solo per effetto della ripresa economica (che ha effetti sulla domanda del petrolio quasi solo in America), ma soprattutto per la crescita strutturale delle due grandi economie asiatiche (Cina e India). Ma contemporaneamente sale l’offerta del petrolio, soprattutto di quello americano (che in parte è “shale oil”cioè estratto con tecniche di pressurizzazione degli anfratti in cui giace che non sono pozzi petroliferi veri e propri ma sono molto più diffusi) la cui produzione è fortemente legata al prezzo di vendita:sotto determinati livelli non conviene estrarlo.


Il risultato di questo bilanciamento tra domanda e offerta, sebbene difficile perché, appunto, con la ripresa economica che prosegue salgono entrambe, va ben al di là del tenue impatto che può sortire la politica dell’OPEC, (il cartello dei produttori petroliferi) che autoimpone dei tagli alla produzione e in tal modo favorisce i paesi che non vi aderiscono (si veda il grafico qui sotto riportato).

LA VERA DIFFERENZA L’HA FATTA IL “FRACKING”

La situazione complessiva ha tra l’altro favorito le economie dei paesi emergenti, i quali hanno trovato lo spazio per esportare più petrolio e, in una situazione di stabilità globale del relativo prezzo, la possibilità di programmare nuovi investimenti infrastrutturali (principalmente nella raffinazione) che possono aiutare non poco a dare slancio allo sviluppo economico locale.

La vera differenza però l’ha fatta l’America con il suo “fracking“ (la suddetta tecnica con la quale si ottengono gas e petrolio da scisto), inducendo sul mercato un pesante fattore di stabilità. Tutto bene dunque? Si, ma solo fino a quando non dovessero acuirsi le tensioni geopolitiche globali oggi tutto sommato sotto controllo. La discontinuità in uno scenario globale così sincrono e bilanciato può provenire solo queste ultime.

La corsa al riarmo di ogni Paese del mondo sta infatti favorendo tanto l’industria degli armamenti (tradizionalmente grande divoratrice di materie prime energetiche) quanto lo stoccaggio di maggiori riserve strategiche di petrolio. Il controllo delle emissioni dannose per l’atmosfera ha inoltre giocato la sua parte sino ad oggi nel limitare il prezzo dell’energia, ma risulterebbe poco più che superfluo qualora dovessimo assistere ad una escalation militare in grande stile. La geopolitica insomma può fare la sua parte nel rovinare la festa all’economia reale, anzi: rischia di essere l’unico fattore che può fare la differenza.

Stefano di Tommaso