(FOLLI ?) VALUTAZIONI DI BORSA

Quanto sono folli le (attuali) valutazioni di borsa? Mano mano che le borse toccano sempre nuovi massimi gli analisti, gli economisti, gli investitori e persino i banchieri centrali continuano a chiederselo da molto tempo e in particolare da almeno un anno i timori di un loro crollo si fanno più insistenti.

 

LO SCENARIO “GOLDILOCKS” E I TIMORI DI TORNARE A UN NUOVO 2008

 

La fatina dei mercati dai riccioli d’oro (la oramai mitica bambola Goldilocks che preferisce un ambiente misurato: non troppo freddo, non troppo caldo ecc…) continua a regalarci uno scenario incantato nel quale la crescita economica economica globale è meravigliosamente in atto ma non è troppo forte (e dunque non fa crescere l’inflazione né i costi dei fattori di produzione), le borse galleggiano sui massimi di sempre ma senza strappi e nemmeno rilevanti oscillazioni, il commercio mondiale ha ripreso la sua corsa nonostante la diffusione di tecnologia e informazioni non necessiti più di dover produrre solo in alcune parti del mondo (perché la globalizzazione prosegue alla grande e le fabbriche sono oramai dappertutto) e dunque i mercati finanziari assaporano i frutti (e i profitti) dell’espansione economica mondiale apparentemente senza doverne scontare i tipici aspetti negativi (fiammate salariali, tassi di interesse in aumento, dinamiche dei prezzi in tensione, valori degli “assets” troppo speculativi, eccetera).

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: da più di un anno si è diffuso tra gli investitori il timore di vivere all’interno di una gigantesca bolla speculativa attanaglia ogni categoria di investimenti nel mercato dei capitali e perciò coloro che si aspettano brusche correzioni di rotta sono oramai divenuti la maggioranza. Ovviamente questo ha determinato una loro pesante sotto-performance rispetto all’andamento dell’indice di borsa, come è mostrato dal grafico qui riportato.

Il punto è che da altrettanto tempo sentiamo cornacchie gracchiare pervicacemente contro le smisurate valutazioni implicite delle imprese quotate in borsa e ogni volta dobbiamo constatare che esse hanno avuto torto. E si dà il caso che le cornacchie siano giustappunto animali estremamente intelligenti, come del resto lo sono i professori, i premi Nobel e i capi degli uffici studi di tutto il mondo che le impresonano ma quando la campana suona a morto così a lungo e poi invece tutti gli astanti risultano essere in buona salute, allora bisogna chiedersi: “cosa sta succedendo”?


COSA STA SUCCEDENDO?


Le risposte che troppe volte ci siamo sentiti propinare a questa domanda sono state la favoletta (assolutamente fondata, per la verità) della liquidità in eccesso che fa galleggiare anche ciò che dovrebbe andare a fondo, l’altra favola degli effetti perversi di tassi troppo bassi che generano l’assenza di valide alternative all’investimento azionario (come negarla?) e, per i più sofisticati, anche quella della “congestione dei risparmi” (saving’s glut) dovuta ai cicli generazionali della demografia (altrettanto vera) che provoca sovraffollamento nella domanda di attivi finanziari.

Secondo chi ce le propina però, sono situazioni congiunturali che hanno prodotto effetti significativi anche perché fortemente concomitanti ma, per loro natura, sono vicende destinate a smorzarsi nel breve termine perché connesse a fattori tendenzialmente irripetibili.


Sarebbe stato tutto molto credibile se effettivamente i picchi delle quotazioni di borsa (cui rischiamo di abituarci senza più fare domande) fossero risultati temporanei e connessi ad un incremento della volatilità dei corsi, che tipicamente si associa a movimenti di breve periodo. Il breve periodo però è passato da un pezzo e la domanda resta: quanto sono folli le (oramai consolidate) valutazioni di borsa?

Il cittadino americano medio (grande frequentatore dei borsini rispetto alla media degli altri nel mondo) si fida oramai molto più dell’investimento in borsa rispetto al resto degli altri investimenti possibili.

I commentatori che gridano “al fuoco” sempre più a corto di argomenti si sono allora spostati sull’arcinoto concetto di “bolla speculativa”, secondo il quale una serie di concause psico-sociologiche possono determinare un rigonfiamento innaturale dei valori espressi dai mercati, ma prima o poi tale rigonfiamento, come una bolla di sapone, è destinato a scoppiare, esattamente come è già successo in precedenza per i prezzi dei tulipani, per le valutazioni immobiliari, per i crediti al consumo e i titoli derivati. Peccato che la maggior crescita delle quotazioni borsistiche si sia accompagnata alla più bassa volatilità dei corsi che la storia ricordi…

 

Dunque, a causa della durata record del ciclo rialzista (abbiamo superato l’ottavo anno in USA) la situazione degli investitori —soprattutto le grandi banche e società di gestione del risparmio— è perciò divenuta kafkiana, anzi beckettiana e, come nel notissimo dramma teatrale “Aspettando Godot”, la condizione esistenziale dei personaggi cui ogni volta viene mandato a dire “il signor Godot oggi non viene, verrà domani”, pur angosciosa si tramuta in irrinunciabile, poiché, come accade nel dramma di Samuel Beckett, i protagonisti a un certo punto, prima che il sipario cali, riprendono a dire “adesso andiamo” eppur non si muovono. Evidentemente quei protagonisti, come del resto gli investitori sempre più timorosi di crolli sui mercati, sono la metafora dell’animo umano il quale sebbene resti nell’attesa di un evento che non accade mai, si rafforza sempre più nelle sue convinzioni.


GLI EFFETTI COLLATERALI DEGLI ECCESSI DEI MERCATI : VALUTAZIONI ECCESSIVE

Tornando alle valutazioni di borsa, senza dubbio eccessive secondo i più, esse non risultano essere soltanto materia riservata agli investitori e speculatori che operano sul mercato mobiliare. Come minimo invece influenzano anche le valutazioni di tutte le altre imprese, cioè quella miriade di società e gruppi industriali i cui titoli non sono quotati sui mercati borsistici ma risultano ugualmente essere oggetto di stima di valore. Ciò vale innanzitutto per i titoli tecnologici che hanno mostrato negli ultimi anni la miglior dinamica degli utili operativi e che pertanto influenzano le valutazioni persino delle start-up.

Ma non solo. Le borse ai massimi storici dunque influenzano anche il mare magnum di fusioni e acquisizioni che si estende al mondo intero, come pure l’oceano sconfinato delle valutazioni di credito da parte di banche e società finanziarie. Valutazioni che si basano sempre più, secondo le ultime teorie, sul cosiddetto “equity value” delle imprese affidate (cioè sul valore di mercato delle loro quote sociali, più o meno indipendentemente da quello contabile).

Se oggi i moltiplicatori dell’utile (p/e) che girano in borsa toccano la media di 30 volte, allora, pur scontando significativamente per la minor liquidità i titoli che non risultano quotati, difficilmente scendiamo sotto livelli di 15 o 20. I quali però risultano comunque al di sopra delle medie storiche di borsa (mi pare che la media delle medie risulti pari a 16 volte e, ovviamente, si riferisce a titoli mediamente molto “pesanti”. Lo stesso vale per la valutazione dei titoli a garanzia ai fini dei finanziamenti per le acquisizioni: se voglio indebitarmi per 50 per comperare un titolo che viene comunemente valutato 100 sto facendo un’operazione chiaramente molto prudente. Ma se quel 50 che prendo a debito corrisponde alla metà delle suddette valutazioni “prudenziali” di 15 o 20 volte l’utile, allora chi finanzia sta fornendomi un finanziamento che anmonta a 7 o 10 volte l’utile, che comunque rischia di risultare eccessivo.

Ecco dunque che l’economia reale risulta in ogni caso fortemente influenzata dai valori borsistici, sebbene talora sembri che i due mondi (quello dell’economia reale e quello dell’economia “di carta”) non si parlino.

MOLTE (DISCORDANTI) MISURE DELLA SOPRAVVALUTAZIONE

Esistono in proposito numerosi criteri da considerare se vogliamo affrontare il tema delle valutazioni d’impresa senza parteggiare per alcuna delle scuole di pensiero, a partire da quelli suggeriti dal famoso professor Robert Shiller e dal suo “CAPE RATIO” (cyclically adjusted price-to-earnings ratio: il rapporto prezzo/utili ponderato con la misura dell’inflazione e dei tassi di interesse) sulla base del quale egli ha lanciato ripetuti allarmi.

Numerosi sono però altri illustri pensatori come il professor Jeremy (autore del libro “Stocks for the Long Run” del 1994) che non condividono quei punti di vista perché, anche volendo considerare un eccesso nel livello dei moltiplicatori di valore, quando l’aggiustamento dell’indice viene operato sulla base della progressione degli utili in rapporto alla crescita economica, le attese di valore crescono fino a livelli più che accettabili.

Lo stesso vale quando andiamo a prendere il medesimo indice prezzo/valore ma lo consideriamo su base prospettica e lo compariamo con il cosiddetto “Misery Index “, vale a dire con la somma del tasso di inflazione più quello della disoccupazione. Se andiamo a osservare le serie storiche di nota una decisa correlazione inversa tra l’uno e l’altro indice: quando inflazione e disoccupazione sono contemporaneamente più basse è logico che gli investitori risultino più ottimisti e accettino quotazioni basate su multipli di valore più elevati.

Un indicatore ancora più deciso che punta a sfatare il mito delle valutazioni eccessive riguarda l’ultimo grafico qui riportato: l’indice dei rendimenti reali dei titoli azionari (il tasso di rendimento del paniere di azioni che compongono l’indice S&P500 di Wall Street depurato del tasso di inflazione dei prezzi al consumo): se esso risultasse troppo basso questo significherebbe che le azioni quotate risulterebbero troppo care, ma non è così. Se guardiamo alla media di lungo termine (dal 1935, pari al 3,7%) ci troviamo oggi al 2,6% vale a dire poco al di sotto di essa.

A dirla tutta ci sono altri indicatori molto meno rassicuranti da guardare con altrettanta attenzione, in particolare quello preferito da Warren Buffett, il rapporto tra capitalizzazione di mercato e valore del prodotto interno lordo (che rappresenta una misura grossolana del valore dei titoli quotati rispetto ad un anno di attività economica (e soltanto dell’America) oggi apparentemente a livelli preoccupanti: 135%. Ben oltre la misura suggerita in passato dal mago di Omaha (non oltre il 100%).

Non per niente la sua holding di partecipazioni, la Berkshire Hathaway, oggi detiene un livello record di denaro liquido : $100 milioni sul totale dei propri investimenti: $450 milioni. Un segnale di cautela.

Come pure un elemento da non trascurare nelle valutazioni di borsa è rappresentato dalla convenienza (in termini di rendimenti prospettici) ad investire in azioni come alternativa ai titoli obbligazionari, oggi invertita (convengono i bond) sebbene riferita ai rendimenti passati, non a quelli futuri (che è sempre difficile stimare).


ALLORA CHI HA RAGIONE: OTTIMISTI O PESSIMISTI?

Allora forse ha ragione Warren Buffett a preferire investimenti obbligazionari e ad accumulare grande liquidità? A modesto avviso di chi scrive, forse questa volta meno del solito.

A parte il fatto che abbiamo notato in precedenza (il ripetersi da più di un anno di segnali di allarme sulle borse, a posteriori del tutto ingiustificati), bisogna ricordarsi del fatto che l’investimento azionario ha caratteristiche di rischiosità correlate alla speranza di rendimenti futuri che possono differire non poco da quelli passati, soprattutto negli anni di deflazione e bassa crescita che abbiamo appena sperimentato.

Molti analisti oggi concordano che non solo l’economia globale cresce ben più del previsto, ma soprattutto cresce di più in funzione di fattori demografici in zone diverse da quelle dove precedentemente ha fatto meglio (l’Asia invece che l’America) e in modo esponenziale, a causa del diffondersi della digitalizzazione e delle altre nuove tecnologie. Se una piccola parte delle attese economiche legate a tali tecnologie si tramuterà in realtà allora gli utili aziendali delle principali imprese multinazionali quotate in borsa andranno alle stelle, giustificando ampiamente le attese oggi implicite nelle elevate quotazioni azionarie. Nessuno oggi può dirlo con certezza (e nel frattempo qualche ruzzolone di borsa non potrà che capitare), ma forse meno degli altri può parlare del futuro un ottantacinquenne (per quanto arzillo).

Il mondo potrebbe essere a una svolta che lo vede finalmente assaporare i frutti del progresso tecnologico in corso, come potrebbe invece avvitarsi attorno a nuove minacce o sciagure. I mercati finanziari riflettono tali attese, tanto nel bene quanto nel male, ma di solito non hanno torto. E questa volta le premesse perché gli ottimisti abbiano ragione sulla carta ci sono tutte!

Stefano di Tommaso




SULLE BORSE GLOBALI DUE MONDI CONTRAPPOSTI: TITOLI DIFENSIVI O TECNOLOGICI?

Sui listini di tutto il mondo la galassia dei titoli tecnologici appare avere andamenti sempre più contrapposti a quelli di un’altra galassia, quella dei titoli azionari dei comparti tradizionali. Investire sugli uni risponde infatti a logiche molto differenziate dall’investire sugli altri.

 

Sono oramai molti molti mesi che le borse globali galleggiano su livelli record e che, per questo motivo, i gestori del risparmio si interrogano su come orientare gli investimenti per rispondere alle esigenze dei loro sottoscrittori. L’onda lunga delle nuove tecnologie ha favorito guadagni meravigliosi ma sicuramente i titoli “tecnologici” se da un lato promettono ancora performance eccezionali, dall’altro costituiscono una scommessa forte e rischiosa. I loro corsi sono soggetti a violente oscillazioni anche a causa del fatto che la calma piatta in superficie dei mercati ha incentivato una decisa rotazione dei portafogli.

Sino ad oggi poi anche il mercato dei titoli a “reddito fisso” ha fornito ottime soddisfazioni, ma il livello “quasi zero” dei tassi di interesse fornisce poca attrattiva per gli investitori e per questo motivo essi tendono a preferire investimenti azionari “difensivi” cioè orientati verso titoli a bassa oscillazione e con elevate politiche di dividendi.

Quel che accade perciò rassomiglia ad un processo di polarizzazione degli investimenti. È ormai come se ci fossero per ogni grande borsa del mondo due diversi mercati azionari:

•da un lato quello dei titoli azionari emessi da aziende tradizionali, dove gli investitori hanno da tempo rinunciato a fare scorribande e alla speranza di cospicui apprezzamenti in conto capitale, ma dove cercano invece una sponda di lungo termine, che assicuri loro la cedola e la solidità (per “bondificare” cioè “obbligazionarizzare” i loro investimenti).

•dall’altro lato quello dei titoli emessi da start-up tecnologiche, aziende del mondo internet e società con elevato potenziale di crescita: tutti titoli che esprimono invece forti attese di rivalutazione, assieme ad un’elevata volatilità. Questo mercato risponde al veloce cambiamento delle attese man mano che si chiariscono le tendenze di fondo delle curve esponenziali delle performances. Dunque con titoli come Snapchat che vanno giù e quelli come Amazon o Tencent che invece continuano a correre.

Ovviamente gli investitori non sanno bene se e quando saltellare dall’una all’altra galassia, ma appare loro tuttavia abbastanza chiaro che i titoli appartenenti alla prima sembrano divenuti quasi inscalfibili e immutabili alle oscillazioni degli umori persino quando i peggiori timori geopolitici prendono il sopravvento. Dipendono forse maggiormente dalla liquidità dei mercati che però ancora oggi resta molto elevata (vedi il grafico qui allegato che riporta una delle spiegazioni”tattiche” per cui le borse sino ad oggi non sono andate giù: anche nell’ultimo semestre la liquidità sui mercati si è accresciuta ).

Mentre i titoli appartenenti alla seconda galassia (i “tecnologici”) appaiono molto più sensibili alle oscillazioni degli indicatori economici, al trading online e, in definitiva, al “consensus” del mercato. La loro volatilità è infinitamente più alta anche perché settimana dopo settimana qualcuno di essi appare essere un cavallo stanco, altri corrono più delle aspettative e in media scontano maggiormente i timori di un improvviso ridimensionamento dei listini.

Un interessante comparto industriale rimasto forse a cavallo tra i due mondi appare essere quello dell’automobile, dove convivono FCA e GM da una parte, ancora ostinatamente orientati al design più che all’innovazione e dall’altra parte aziende innovative come Tesla, produttrice di auto elettriche supertecnologiche e capaci di guidare quasi da sole. Con tutte le vie di mezzo come Toyota, WW e Volvo, che hanno saltato il fosso della tecnologia di trazione con motori termici tradizionali ma non del tutto e non prevalentemente.  Ovviamente i titoli di Tesla volano, dominati dalle attese sulle consegne di autoveicoli la cui domanda supera di molte volte l’offerta, mentre sugli altri titoli aleggiano minacciosi i nuvoloni della prossima riduzione della spesa per consumi, cui essi possono risultare più sensibili della media.

Utile anche domandarsi chi ci rimette in una tale forte diaspora tra le due diverse tipologie di titoli azionari, mossa dai timori di fondo di possibili ridimensionamenti delle quotazioni. La risposta è che non rientrano in nessuna delle due categorie oggetto di questa polarizzazione i titoli meno liquidi e quelli a minor capitalizzazione. Ma anche quelli emessi da imprese non fortemente caratterizzate come “market leader” di qualche specifico settore, le start-up in generale e forse anche i progetti di IPO. La polarizzazione degli investimenti in fondo è uno dei tanti modi adottati dal mercato per mettersi sulla difensiva !

 

Stefano di Tommaso

 




BENVENUTI NELL’ERA DEL QUANTITATIVE INVESTING

Dopo l’euforia dei mercati arriva una fase di consolidamento che vede gli investitori attenti alle nuove tecniche quantitative di costruzione dei portafogli basate sul concetto di “Bondification”. Vediamo cosa significa.

 

C’era una volta il “Trump Trade”, vale a dire quell’euforia dei mercati finanziari che era immediatamente succeduta all’elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America, provocando forti aspettative di riduzione della tassazione e incremento degli investimenti infrastrutturali. Per molti mesi i mercati di quasi tutto il mondo (emergenti compresi) sono saliti uniformemente creando la sensazione che la rinnovata crescita economica globale avrebbe risvegliato il mondo dalla deflazione e alimentato guadagni generalizzati sui mercati.

Oggi invece, alla vigilia di un’estate che si preannuncia algida e relativamente povera di novità sostanziali, salvo il forte rischio di un nuovo acuirsi delle tensioni geopolitiche globali (quantomeno in Siria), con il raffreddarsi delle aspettative di inflazione nei paesi OCSE (che si pensava potesse addirittura tornare prepotente sulla scena) molti investitori stanno facendo “ruotare” i portafogli limitando gli investimenti più speculativi, mentre si torna ancora una volta a parlare di “quantitative investing” e, in particolare, di quella nuova tendenza nelle strategie di investimento che seleziona portafogli di titoli azionari configurandoli per avere caratteristiche simili a quelle di un titolo a reddito fisso di natura sintetica, nota come “bondification”.

ALLA SCOPERTA DELLA “BONDIFICATION”

La strategia, al di là delle sue caratteristiche tecniche (di rischio e rendimento) e dell’intelligenza che essa può esprimere, torna oggi in voga per rispondere ad una fondamentale esigenza di combinare prudenza e ritorni significativi negli investimenti da parte dei gestori di fondi pensione, degli amministratori di riserve tecniche delle compagnie assicurative e dei tesorieri istituzionali di qualunque tipo.

Quello che si è visto infatti dopo le ultime, drammatiche crisi finanziarie, è che anche seguendo una politica di forte differenziazione degli investimenti effettuati e anche limitandosi a selezionare titoli a reddito fisso o collegati ad una importante garanzia sottostante, quando i mercati finanziari picchiano, essi tendono a muoversi più o meno tutti nello stesso modo, provocando ingenti perdite di valore anche nei portafogli gestiti dagli investitori più moderati, quelli che avevano sperato di scambiare minori rendimenti potenziali con una maggior protezione dai rischi.

Una volta cadute quelle certezze del passato relativamente alle cosiddette “asset classes” (cioè alla tipologia di titoli disponibili sul mercato), ecco che quegli operatori del mercato finanziario che sono ugualmente costretti a cercare forme di impiego a limitato rischio speculativo e con buona capacità di pagare un reddito periodico, si sono rivolti a sistemi complessi di analisi quantitativa per trovare delle risposte alle loro esigenze.

Il Financial Times di qualche giorno fa per mano di John Authers ne compie un’ampia indagine per comprendere il fenomeno, descritto come il trend del momento dal Rapporto Annuale fornito da “Create-Research” per Principal Global Investors, che ha intervistato oltre 700 gestori professionali di patrimoni i quali, nel complesso, controllano investimenti per quasi 30.000 miliardi di di Dollari.

Il segreto della Bondification sta sicuramente nella selezione scientifica di titoli azionari emessi da grandi società con basso indebitamento, business stabile, buona generazione di cassa e conseguente forte politica dei dividendi. Più o meno il contrario delle caratteristiche dei titoli tecnologici che sono andati a ruba fino a qualche mese fa.

LA “ROTAZIONE” DEI PORTAFOGLI

Non soltanto in tale modo gli investitori più avversi al rischio possono risultare in grado di costruire l’equivalente di un portafoglio obbligazionario evitando di accettare i rendimenti quasi a zero che si trovano ancora oggi sul mercato.

Quel che sta avvenendo è anche che la rotazione dei portafogli nelle ultime settimane derivante dai timori di qualche significativa correzione sui mercati sta spingendo anche gli altri gestori di patrimoni, che normalmente erano più propensi a prendere dei rischi, tra le braccia degli analisti “quantitativi” capaci di costruire portafogli di titoli diversificati non più sulla base delle “asset classes” bensì soprattutto sulla base dei loro indici statistici di rischio, indipendentemente da quale asset class cui appartengono e, ovviamente, alla “bondification”.

IL TRIONFO DEI “QUANTS”

Per comprendere l’attenzione che sta generando il fenomeno della progressiva sostituzione dei “traders” sui mercati finanziari con ingegneri e specialisti di analisi finanziaria quantitativa, può essere utile dare un’occhiata a un articolo apparso su Bloomberg Finance qualche mese fa denominato “Inside A Moneymaking Machine Like No Other” (ecco il link: https://www.bloomberg.com/news/articles/2016-11-21/how-renaissance-s-medallion-fund-became-finance-s-blackest-box ) dove si spiegava la rivoluzione copernicana negli investimenti proposta da Renaissance Technologies, un misterioso e leggendario gruppo economico, gestore di fondi “hedge” e in particolare del “Medallion Fund”, riuscito a generare profitti per 55 miliardi di dollari dai propri investimenti negli ultimi 28 anni senza quasi mai perdere nemmeno nei momenti più difficili.

Renaissance Technologies ha insomma performato meglio di George Soros e Ray Dalio, prendendo tra l’altro un numero di rischi molto minore e in un periodo più breve!

Quale il segreto? Enunciarlo è più semplice di quanto si possa immaginare: mettere insieme e investire in cervelli e conoscenze scientifiche provenienti dai rami più disparati dello scibile per generare tecnologie interpretative dei segnali provenienti dal mondo reale, applicandole negli investimenti azionari. Più difficile è ovviamente farlo davvero, e per un periodo di tempo così lungo come quasi un trentennio.

Ma al di là della storia straordinaria di questa società di investimenti, campione mondiale del settore, l’impossibile risposta all’eterna questione di dove investire nei momenti più difficili oggi arriva soltanto da quelli che una volta erano definiti i “nerds”, gli intellettuali con la testa fra le nuvole. Che oggi -con il loro approccio pragmatico ai numeri della Finanza- più che mai sembrano aver vinto la battaglia per il successo.

Stefano di Tommaso