L’EUFORIA DELLE BORSE

Che le prospettive di un indebolimento dell’economia reale non significhino necessariamente che le borse debbano crollare lo sapevamo già, ma che addirittura gli indici di tutte le principali borse del pianeta portassero a casa una settimana da record non era così scontato che potesse accadere. La domanda perciò è: cosa succede? Quali aspettative spingono gli investitori ad alimentare il “rally di Maggio”? I mercati lo hanno già ribattezzato “Iran Deal”.

 

Al di là dell’ovvia affermazione che la risalita del prezzo del petrolio ha beneficiato le numerose aziende quotate le cui sorti sono legate a questa variabile, non sembra facile rispondere compiutamente, proviamo perciò a esaminare i fatti:
•In funzione delle tensioni geopolitiche, oro e petrolio toccano nuovi massimi e trainano i listini di molte aziende energetiche, chimiche e industriali;

•I rendimenti a lungo termine si stabilizzano poco sotto il 3%, così come pure si riducono le ansie da risalita dell’inflazione e questo sembra dare ossigeno alle banche e alle compagnie assicurative, nonché più tempo alle banche centrali per far salire i tassi;

•Il Dollaro continua ad apprezzarsi contro tutte le altre valute ma soprattutto mette in difficoltà il cambio con buona parte dei Paesi Emergenti e fa scendere per gli americani il prezzo delle materie prime.


La montagna di preoccupazioni che la stampa internazionale ha quasi unanimemente sollevato per le tensioni commerciali con la Cina è stata ignorata dai mercati finanziari mentre l’abbandono dell’accordo nucleare sull’Iran da parte degli U.S.A., ha fatto ascendere le quotazioni di Dollaro e Petrolio generando il topolino di un “hurrà” dei mercati finanziari! L’effetto può apparire strano se non si comprende a fondo lo stato d’animo dei mercati, che nella misura dei rischi percepiti valutano molto più gravemente l’incremento dei tassi di interesse che non quello delle probabilità di un conflitto.

L’indice STOXX® Global 1800 è un indice relativo all’andamento di un paniere selezionato di 600 titoli azionari americani, 600 europei e 600 asiatici. Eccone il grafico, dove si può ben vedere la decisa rimonta delle borse da fine Marzo ad oggi, a un passo dal massimo, raggiunto a Gennaio 2018:


Senza dubbio il rientrato allarme sull’inflazione americana (quella europea sembra quasi inesistente) e il ritorno dei tassi a lungo termine sul Dollaro al di sotto del 3% ha poi scoraggiato la speculazione dal portare avanti indefinitamente le proprie posizioni ribassiste costringendola a ricoprirsi, ma è sufficiente questo fattore a spiegare la corsa di Wall Street del 2,4% in una settimana?

Sicuramente il temuto (almeno in America) surriscaldamento salariale non c’è quasi stato: le retribuzioni medie orarie dell’ultimo trimestre sono cresciute del 2,6% rispetto ad un anno prima, esattamente un decimo della crescita dei profitti netti delle aziende americane nello stesso periodo (+26%), mentre la disoccupazione è scesa al livello record del 3,9%.

Ma la vera notizia degli ultimi giorni sembra essere quella che non ci sono grandi notizie (negative), soprattutto in tema di crescita economica globale:

 

 

 

 

 

 

 

 

Dunque: se nell’economia americana (che fa da traino alle tendenze di tutte le altre) l’inflazione sale meno del previsto, il prodotto lordo prosegue senza scossoni la sua crescita e le tensioni mediorientali non spaventano i mercati ma giustamente li mettono un po’ in allerta, ecco allora che si prospetta un quadro in cui le banche centrali difficilmente accelereranno sulla previsione della risalita dei tassi d’interesse.

Se combiniamo il dato di fortissima crescita dei profitti aziendali con quelli di debole risalita del costo del lavoro e dell’inflazione, con la ricopertura delle posizioni speculative al ribasso e infine con la caduta dei timori di accelerazione della risalita dei tassi di interesse (e della conseguente riduzione della liquidità in circolazione), ecco che la ricetta è completa: i risparmiatori tornano a comperare titoli e fondi azionari e i mercati possono continuare a marciare a gonfie vele, almeno sintantoché la liquidità resterà abbondante !

Non chiedetemi però fino a quando. Non lo sa nessuno, nemmeno gli economisti che continuano a snocciolare (spesso a ragione) dati preoccupanti a proposito dei timori relativi alla fragilità delle economie dei Paesi Emergenti davanti alla risalita di Dollaro e Interessi, nonché nei confronti della presunta maturità del ciclo economico o meglio, come afferma qualcuno più autorevole del sottoscritto, di quella del “ciclo del credito” (e dunque dell’abbondanza di liquidità). Ecco un grafico che mette a confronto i periodi di recessione già vissuti con l’andamento del ciclo del credito:


Sarà anche vero (e dunque pericoloso) ma intanto l’andamento attuale del grafico mostra una maggior similitudine con quello dell’ultimo decennio del 1900 che con il primo decennio del 2000. Ma poi non possiamo non accettare che sino ad oggi sono stati i governi ed i mercati -con i loro “animal spirits”- a mostrarsi più autorevoli degli economisti e questi ultimi, si sa, sono tendenzialmente pessimisti e sicuramente più deboli, dunque finiscono con l’aver spesso torto. Voglio proprio vedere se se la prenderanno con Trump anche per questo motivo!

Stefano di Tommaso




IL PARTITO DELLA GUERRA

Dopo l’attacco alla Siria da parte delle forze congiunte di America Gran Bretagna e Francia, qualcosa di importante è cambiato -e in peggio- sullo scacchiere della geo-politica. Qualcuno parla di nuova guerra fredda, ma anche i tempi sono cambiati.

 

LA PROVOCAZIONE

Che sia vero o meno che il governo siriano volesse un attacco alla popolazione con armi chimico-biologiche a Duma (ed è fortemente discutibile che lo sia) oramai non è più così importante: quel che conta è che l’attacco alleato (piuttosto pesante e apparentemente assai inutile) è stato sferrato ugualmente, sfidando le ire di una Federazione Russa che aveva fatto sapere senza mezzi termini che difenderà il suo partner siriano addirittura colpendo le basi da cui sono partiti i missili.

E come se ciò non bastasse il governo americano ha deciso di infliggere alla Russia nuove sanzioni commerciali, che tra l’altro è vero che nuocciono soprattutto ai suoi alleati europei, ma alla lunga portano un danno non solo alla Russia, bensì anche a tutto l’Occidente, perché la obbligano a sostituire con i paesi del continente asiatico

i suoi partner commerciali europei. Non per niente la Germania si è voluta tenere fuori dall’iniziativa militare, ma è rimasta ugualmente colpita dalle sanzioni commerciali.

SPINGERE LA RUSSIA TRA LE BRACCIA DELLA CINA

Sembra al momento improbabile che la Russia reagirà alla tenaglia militare-commerciale. Se lo facesse trascinerebbe il mondo verso un forte rischio di terza guerra mondiale, ma questo non significa che non terrà conto dell’accaduto nelle sue alleanze internazionali (con la Cina, in particolare, oramai giudicata interlocutore altamente più affidabile dell’Occidente) e non è detto che gli attuali rapporti di forza (basati sulla supremazia della macchina militare della NATO), non possano presto arrivare a cambiare.

Spingere la politica estera della Russia ad abbracciare quella della Cina (riconosciuta dagli studiosi di relazioni internazionali come il vero problema dell’Occidente nel lungo termine) potrebbe sembrare una cosa semplicemente stupida, ma probabilmente è invece voluta ed anche assai folle, perché il rischio di spiazzamento dell’Occidente negli interscambi commerciali tra la nazione più ricca al mondo di risorse naturali e quella più popolosa e più dinamica nelle nuove tecnologie è elevato. L’unica vera contropartita di tale follia può essere l’allargamento delle occasioni per far nascere nuovi focolai di guerra.

Quel che sembra rispuntare vincente dalle ceneri della diplomazia in questi giorni è infatti il cosiddetto “partito della guerra”, cioè quella coalizione trasversale e ben occultata ai media di ogni parte del mondo costituita di produttori di armi, mercanti ed esportatori di materie prime, finanzieri d’assalto e lobbisti politici, uniti dal fatto che otterrebbero tutti dei grandi profitti dalla deflagrazione di nuovi conflitti e dalle spese straordinarie di cui essi necessiterebbero.

TRUMP È UN OSTACOLO

Nella stessa direzione va probabilmente l’attacco frontale al presidente Trump, reo di non essersi messo (completamente) a disposizione del partito della guerra, pur avendo ordinato egli stesso l’attacco siriano. Che i poteri forti vicini alla fondazione Clinton volessero farlo fuori è noto, ma è più probabile che l’interminabile processo giudiziario denominato “Russiagate” non abbia come obiettivo quello di dimostrare il suo connubio con Putin (impossibile, altrimenti le prove dopo un anno e mezzo sarebbero già saltate fuori), bensì quello più sottile di deterioramento della sua immagine sui media, per riuscire costringerlo -nel dubbio- a guerreggiare con quest’ultimo, anche per dimostrare la sua estraneità alle accuse.

Trump non è stupido e si rende perfettamente conto del pericolo di un conflitto allargato (a partire dagli effetti al rialzo che potrebbe avere sul prezzo del petrolio) e del fatto che ci sono dietro le quinte forti interessi economici in tal senso, ma resta tutto da vedere cosa possa farci per ostacolarne la possibilità.

Non per niente sulla vicenda della Corea del Nord Trump ha appena fortemente voluto e alla fine ottenuto una vittoria significativa proprio nel dialogo con la Cina (da sempre l’alleato occulto di Kim Yong Un), ed ha anche invitato Putin a sedersi ad un tavolo comune per evitare l’escalation militare.

Ma conciliare lo spirito patriottico (che ha sempre più necessità di dimostrare) con l’esigenza di ridurre le tensioni internazionali è un esercizio notoriamente assai difficile. E non è detto che gli porterà consenso aggiuntivo tra i suoi elettori alla prossima tornata…

Stefano di Tommaso




IL CARO-PETROLIO PUÒ TRAINARE L’INFLAZIONE

Mentre le economie più avanzate del mondo (e in particolare in America e Asia) ancora gongolano nel godersi i benéfici effetti di uno dei più lunghi e meglio sincronizzati cicli economici positivi di tutta la storia economica (tassi di interesse ancora bassi, profitti industriali alle stelle, commercio internazionale in ascesa, investimenti infrastrutturali di ogni genere allo studio…) i prezzi delle materie prime vanno alle stelle (in special modo petrolio e gas) perché risentono della maggior domanda mondiale.

 

Non c’è molto da stupirsene se non fosse che l’anomalía era stata casomai la loro mancata crescita sino a ieri.

Il fatto è che la ripresa economica in corso non è neanch’essa priva di stranezze, dal momento che la ripresa è stata registrata nelle statistiche ma, per molti motivi (vedi un mio precedente articolo : “amazzonizzazione dell’economia”) non ha generato un’effettiva maggior capacità di spesa degli individui, e non solo nella periferia Europea dove noi viviamo, bensì un po’ dappertutto, a partire dall’America di Donald Trump (che si preoccupa di riportare entro i confini il denaro delle multinazionali perché investano a casa loro e qualche briciola di quel denaro arrivi anche agli operai del mid-west e alle piccole imprese), fino ai paesi del sud-est asiatico che pullula di fervore e sembra essere il crogiolo dell’umanità dei prossimi decenni.

Inoltre la prospettiva di ulteriori tensioni commerciali (se non vere e proprie guerre delle tariffe doganali) ha inoltre aiutato la ripresa dei costi (e quindi anche dei prezzi) di talune materie prime, dando ulteriore fiato ai timori di fiammate inflazionistiche che, tuttavia, fino a ieri non si erano ancora manifestate. Sono in molti a ritenere che nei prossimi giorni il prezzo del barile possa raggiungere la soglia psicologica degli 80 dollari.


L’INFLAZIONE DEI PREZZI E IL PERICOLO DI TASSI TROPPO ALTI

Dopo tanto tuonare però, la pioggia sembra finalmente essere arrivata, e con la risalita dei prezzi di petrolio e materie prime (che aiuta a esportare la ripresa economica ai paesi emergenti, loro grandi produttori), i primi effetti della crescita dell’occupazione, dei salari e dei consumi, cominciano a fare capolino, quali :
– L’incremento dei costi energetici
– L’inflazione di buona parte degli altri prezzi che ne deriva
– Il rialzo dei tassi di interesse che deriva dalle attese di inflazione
– I rinnovati timori per i forti debiti, pubblici e privati che dovranno pagare maggiori interessi.


Chiaramente infatti un’eventuale forte fiammata inflazionistica rilancerebbe l’attenzione sull’importante stock di debito che il mondo intero si porta appresso dall’epoca della grande crisi finanziaria del 2008. Qualora il costo di quel debito dovesse crescere oltremisura l’intero ecosistema economico internazionale si troverebbe a fronteggiare un bel problema!

Tutto scontato e previsto, se non fosse che questi effetti creano pericoli per la tenuta delle quotazioni dei mercati finanziari e che quest’ultima, con la crescente finanziarizzazione dell’economia, non è più un optional, come si è visto dopo i disastri del 2008 !

LA NECESSITÀ DI STABILITÀ DEI MERCATI FINANZIARI

La stabilità dei mercati finanziari è divenuta sempre più importante mano mano che i cittadini del mondo intero hanno scoperto la pressante necessità di questi ultimi tanto per far filtrare le risorse monetarie alle imprese più meritevoli, quanto (e soprattutto) come riserva di valore oramai essenziale per andare a sostituire le sempre più esigue risorse dei welfare nazionali destinate a infrastrutture, previdenza sociale, sanità e sicurezza.

La crescente “privatizzazione” della maggior parte delle funzioni che in passato erano assolte dalle pubbliche amministrazioni rende dunque quantomai necessaria non soltanto la stabilità dei prezzi (inflazione) ma addirittura anche quella dei mercati finanziari ! Il mondo cioè può permettersi sempre meno che l’arrivo di una seppur periodica e limitata recessione economica arrivi anche a generare forti cadute delle borse o forti impennate dei tassi di interesse.

LA PROBABILE RESILIENZA DI FONDO

Fortunatamente tuttavia, alla necessità generale che ciò non accada si affianca, più o meno inspiegabilmente, la sua scarsa probabilità complessiva. L’inflazione può arrivare cioè, magari trainata proprio dalla crescita di domanda di materie prime ed energia, e le borse possono affrontare un periodo di moderata correzione al ribasso per scontare una risalita dei rendimenti di mercato, ma nessuno si aspetta davvero l’apocalisse né che essa permanga stabilmente!


Ovviamente se lo scenario dei mercati finanziari dovesse procedere in questa prospettiva molta ricchezza rimarrebbe più o meno nelle casse delle banche, spesso liquida e quasi inutilizzata, e questo altrettanto ovviamente non è un bene, ma la verità è che se il petrci sono molti fattori correttivi che in caso di emergenza si metterebbero all’opera (primo fra tutti il monitoraggio da parte delle banche centrali, ma anche le importanti riserve di petrolio sino ad oggi non sfruttate, i produttori americani che fanno “fracking” pronti ad immettere sul mercato forti quantità a questi prezzi, eccetera) per ristabilire l’equilibrio sui mercati.


Stefano di Tommaso




I TAMBURI DI GUERRA FANNO TREMARE LE BORSE

Non bastavano le guerre commerciali a rovinare le prospettive della crescita economica globale e, ovviamente, quelle dei mercati finanziari. Adesso sono arrivati anche i missili. E per non farci mancare niente persino lo spettro del terrorismo sembra resuscitare dal passato.

 

LA MISURA È COLMA

Se fino a ieri c’erano ancora speranze sulla possibilità che gli ottimi risultati della crescita economica globale potessero fare da contraltare al forte deterioramento del panorama geopolitico globale, adesso ci può essere soltanto un atto di fede: l’innalzamento oltre ogni recente limite del prezzo del petrolio che ne consegue è destinato a portare decise ripercussioni sull’inflazione, i tassi di interesse e persino sulla possibile evoluzione debiti pubblici, sufficientemente alti già prima di quello che sta accadendo in questi giorni.

Questo perché l’ondata di riduzione della tassazione delle attività economiche che stava soltanto iniziando negli ultimi mesi presupponeva di provocare di conseguenza una sostenuta crescita dei prodotti interni lordi affinché non generasse una voragine nei conti pubblici. Ma se invece il rilancio dell’economia con stimoli fiscali (dopo che quelli monetari sono stati usati anche oltre il loro limite naturale) non dovesse avere effetto a causa di fattori “esterni” come le conseguenze di una situazione di guerra, ecco che le minori entrate generate dalla minor tassazione si ripercuoterebbero inevitabilmente in un aggravamento dei conti pubblici dell’intero Occidente.

LE CONSEGUENZE MACRO DELLE TENSIONI GEOPOLITICHE

Proviamo perciò ad elencare le “conseguenze” di una situazione di conflitto più allargata in Medio Oriente e dei timori di accrescimento delle tensioni geopolitiche: in questo caso dovremmo dare per decisamente probabili tanto la maggior risalita dei prezzi di energie e materie prime quanto la rivalutazione del dollaro, con i rischi che ne conseguono di vedere accendersi oltre misura le aspettative di inflazione, di una risalita dei tassi di interesse più brusca di quanto in precedenza prospettato e, dulcis in fundo, un probabile conseguente calo delle quotazioni delle principali borse mondiali.

Perché le borse dovrebbero crollare? Non soltanto perché le attese di profitti futuri che determinano le valutazioni aziendali andrebbero scontate a tassi di interesse più elevati, ma anche perché al peggiorare delle prospettive economiche complessive anche la profittabilitá stessa delle imprese non potrebbe che ridursi, alimentando un circolo vizioso delle aspettative di mercato.


Ora, se vogliamo essere più realisti, il mondo sembra essere già caduto nella trappola di una “guerra fredda”, dove stavolta il conflitto oriente-occidente rischia di coinvolgere anche la Cina e quindi di penalizzare fortemente il commercio internazionale, uno dei motori dell’attuale crescita globale e uno dei maggiori veicoli di rilancio delle aspettative per i paesi emergenti, i veri protagonisti dell’ultimo biennio. Anche le valute meno “forti” hanno subìto un ridimensionamento negli ultimi giorni e il petrolio ha già superato la soglia dei 70 dollari al barile, un livello ritenuto da molti impensabile ancora poche settimane fa.

Nel grafico sotto riportato vediamo il recente andamento e le previsioni della domanda e produzione di petrolio (linee) e delle scorte (istogrammi):


Ma fino ad oggi la reazione dei mercati finanziari si è mantenuta decisamente equilibrata e priva di ondate di irrazionalità.

IL PROBLEMA DELLE ASPETTATIVE

Ciò che invece veramente può fare davvero la differenza per i mercati finanziari non è il picco delle quotazioni di una o due settimane, quanto il rovesciamento dello scenario di relativa stabilità che sembrava fino a ieri inscalfibile. Se la prospettiva di una nuova guerra del golfo dovesse insediarsi stabilmente nelle previsioni allora dovremmo aspettarci un rapido deterioramento della situazione generale delle borse e il rischio di un deciso avvitamento dell’economia dell’intero Occidente perché anche i forti investimenti in tecnologia e nuovi prodotti che fino a ieri erano previsti da buona parte delle aziende nel mondo potrebbero di conseguenza venire posticipati.

La posta in gioco per i mercati sembra dunque decisamente elevata nelle prossime ore e i rischi di una escalation del confronto ancora maggiori, in un momento nel quale si evidenziavano già talune difficoltà per la prosecuzione del ciclo economico positivo, che sembrava essersi sincronizzato per buona parte delle economie mondiali ma non aveva ancora prodotto un significativo incremento nel reddito disponibile dell’uomo della strada.

Oggi quell’equilibrio delle aspettative (crescita economica da un lato, inflazione e aumento dei tassi dall’altro) sembra essersi rotto. Non c’è da stupirsi pertanto se da lunedì gli investitori istituzionali approfitteranno di ogni possibile movimento delle borse per alleggerire le loro posizioni fino ache le cose non miglioreranno decisamente!

Stefano di Tommaso