CHE FINE HA FATTO LA CURVA DI PHILLIPS?

Per la teoria economica la curva di Phillips, dalla sua formulazione iniziale (1958) in avanti, non era mai stata messa in discussione sino a qualche mese fa. Teorie come quella sulle aspettative razionali (NAIRU) (non-accelerating inflation rate of unemployment) sono nate per cercare di spiegare la stagflazione. Oggi sembra accadere l’opposto della stagflazione: l’economia cresce ma con bassa inflazione.

 


Ma la teoria del livello naturale di disoccupazione, che distingue tra curve di Phillips di breve o di lungo periodo, nasceva dalla considerazione che con una disoccupazione effettiva al di sotto di esso, l’inflazione accelera, con una disoccupazione al di sopra di esso decelera. Tutto sta nel comprendere se esiste un tasso naturale di disoccupazione (o NAIRU), cosa oggi messa in discussione dai fatti. Sembrava a tutti una grande ovvietà il fatto che esista un meccanismo di azione e reazione degli eventi economici che crea una relazione inversa tra il tasso di disoccupazione e l’inflazione dei prezzi: vediamo il perché. IL CONCETTO SOTTOSTANTE Se la disoccupazione scende vuol dire che la domanda di lavoro (quella delle imprese che assumono personale) sale più dell’offerta di lavoro (quella di chi cerca un impiego). Ma se la domanda di un bene o un servizio supera l’offerta allora si creano le condizioni perché possa salire il prezzo di quel bene o quel servizio. In caso di crescita della domanda di lavoro da parte delle imprese si può dunque ritenere che la relativa retribuzione possa incrementarsi, con l’ovvio limite che quest’ultima dipende ovviamente anche da altri fattori (la disoccupazione pre-esistente, la precarietà del lavoro stesso e gli oneri sociali che si sommano al costo del lavoro). In un mondo normale la tendenza ad un incremento dei salari porterebbe ad una crescita dei consumi e, in ultima analisi, ad una risalita dei prezzi della maggior parte dei beni e servizi, come diretta conseguenza dell’incremento dei consumi. Ma quello in cui stiamo vivendo oggi evidentemente non funziona più così: con la ripresa economica che un po’ in tutto il pianeta si è manifestata negli ultimi anni la disoccupazione è scesa, i consumi sono tornati a crescere, ma lo stesso non è accaduto ai prezzi della maggior parte di beni e servizi ricompresi nel “paniere” statistico con il quale si misurava l’inflazione. LE RAGIONI DELLA MANCATA FIAMMATA INFLAZIONISTICA  Le ragioni di tale vistoso fenomeno di “decoupling” tra occupazione e inflazione sono incerte e altresì probabilmente numerose ed eterogenee: – dall’incremento del commercio elettronico che permette a chiunque, con un semplice “clic” sul telefonino, di acquistare beni e servizi provenienti dall’altra parte del mondo (e in particolare dai cosiddetti “Paesi Emergenti”, dove la manodopera costa molto meno e dove la sovracapacità produttiva è ampia),

– alla disponibilità di posti di lavoro temporanei e/o precari, che costringe il lavoratore ad accantonare parte di quanto guadagna per i momenti in cui sarà disoccupato, rimandando la spesa per consumi a tempi migliori,

– per passare poi alla riduzione della copertura sanitaria e previdenziale da parte dello Stato, che orienta il denaro guadagnato dal lavoratore verso capitoli di spesa (sanità e assicurazioni private) che in precedenza erano coperti dalla mano pubblica,

 – fino a tenere conto del crescente grado di automazione della produzione e dei servizi, che ne ha spesso calmierato il costo. Un minimo l’inflazione si è vista a causa della forte impennata dei prezzi delle materie prime, per la massiparte espressi in Dollari che di recente si sono rivalutati, e segnatamente quello del Petrolio, quasi raddoppiato in due anni, ma in un’economia globale sempre più digitalizzata questo fattore conta progressivamente di meno, tant’è che l’inflazione non è cresciuta proporzionalmente. Ma soprattutto l’inflazione non ha affatto risentito della maggior occupazione e della (relativa) ripresa dei consumi. IL CASO DEL GIAPPONE  Un po’ in tutto il mondo è dunque oramai acclarato che la disoccupazione scende ma l’inflazione non riparte, in particolar modo negli Stati Uniti d’America ma con punte quasi parossistiche come in Giappone dove la banca centrale ha immesso una montagna di liquidità acquisendo quasi il 90% dei titoli del debito pubblico nazionale, giunto a livelli record:


In altri tempi e in altri luoghi ciò avrebbe scatenato l’inflazione ma in Giappone invece l’economia è cresciuta l’anno scorso di quasi il 2% e, misurata con parametri diversi dall’inflazione e tenuto conto della specificità di quel Paese, essa tende non solo a crescere ma addirittura a surriscaldarsi. Ciononostante l’inflazione non si manifesta quasi. Si vedano i due grafici qui riportati (dove si vede un tasso di disoccupazione tornato ai livelli di vent’anni addietro):

 

E questo accade in un Paese dove la percentuale di occupati sul totale della popolazione è tra i più alti del mondo: in Giappone lavorano quasi 67 milioni di persone su un oltre 127 milioni: quasi il 53% mentre in italia siamo a poco più di 23 milioni di occupati su una popolazione di poco più di 59 milioni, pari al 39%. IL GIAPPONE E’UN POSSIBILE PRECURSORE  Il caso giapponese potrebbe aver solo anticipato la tendenza che magari si svilupperà anche negli altri paesi OCSE, con il rischio tuttavia che la mancata crescita dell’inflazione alimenti la bolla speculativa dei valori mobiliari e immobiliari (con tutti i rischi che ne conseguono) , stante anche la progressione della concentrazione della ricchezza in poche forti mani.

Probabilmente l’attuale inconsistenza dell Curva di Phillips corrisponde ad un progressivo impoverimento dei ceti più bassi della popolazione dei paesi più sviluppati, ma questo fatto, come dimostra il colossale lavoro di ricerca di Thomas Piketty è ancora difficile da dimostrare.

 

Stefano di Tommaso




L’ENIGMA DEL DOLLARO DEBOLE E LA VARIABILE NASCOSTA DEL 2018

Cosa succede al biglietto verde perché esso scenda in picchiata di oltre il 10% nel 2017 nonostante abbia effettuato tre rialzi dei tassi (e altri tre ne abbia promesso per il 2018) nonostante la crescita del prodotto interno lordo americano abbia raggiunto il 3% e prometta faville a causa del taglio fiscale, nonostante la BCE se le inventi tutte per far scendere l’euro al cambio e nonostante che quest’ultima, insieme alla stragrande maggioranza delle altre banche centrali, stia ancora pompando liquidità a tutto spiano (che in parte finisce anche a Wall Street) ? Difficile, come si può vedere dai quattro dati appena citati, fornire spiegazioni razionali a questa e a altre dinamiche di una finanza globale che sembra aver perso da tempo la correlazione di un tempo tra le variabili economiche e fors’anche il lume della ragione. Eppure le ragioni -perché qualcosa accada- ci sono sempre. Proviamo perciò ad andare un po’ più a fondo per scoprirlo.

LA LEGGE DELLA DOMANDA E DELL’OFFERTA


Innanzitutto teniamo bene a mente che, teorie economiche e correlazioni statistiche a parte, a determinare le sorti di qualsiasi variabile economica insiste, prima di ogni altra, la legge della domanda e dell’offerta: se qualcuno vende dollari e compra altre divise evidentemente è perché preferisce fare così, oppure ve ne è costretto.

Esiste dunque una tematica di fondo relativa alla sfiducia degli investitori globali sull’economia americana? Sebbene ciò non abbia molto senso logico, viene da rispondere che evidentemente sì, esiste, altrimenti succederebbe il contrario: il dollaro si apprezzerebbe. Quasi impossibile inoltre affermare che il corso del dollaro scenda perché I biglietti verdi sono venduti da coloro che comprano bitcoin, oro ovvero qualsiasi altro bene-rifugio o moneta speculativa: le quantità in gioco non sono neppure paragonabili e, se anche tutto ciò avvenisse contemporaneamente e massicciamente, il cambio del dollaro farebbe fatica a segnare qualche minima differenza. L’economia americana è infatti la prima al mondo in valori assoluti e dunque il mercato del dollaro è davvero molto profondo.

Più probabilmente però il vistoso squilibrio della bilancia commerciale americana un ruolo ce l’ha di sicuro nel determinare la legge della domanda e dell’offerta: se gli americani hanno aumentato fortemente nell’anno in corso i loro acquisti online e quasi tutte le merci acquistate sono arrivate dall’Asia, probabilmente l’effetto “si sente”.

IL RUOLO DELLE ASPETTATIVE

Ma questo a dirla tutta non basta a spiegare, ad esempio, il crescente “spread” (differenziale) tra i rendimenti dei titoli di stato americani a dieci anni e quelli europei (ed in particolare quelli tedeschi). Se il differenziale si amplia è perché gli investitori preferiscono comperare titoli tedeschi -denominati in euro e a rendimenti più o meno nulli- che non titoli americani in dollari -già svalutati e che rendono molto di più-. Torna dunque la tematica della domanda e dell’offerta: se essi lo preferiscono un motivo ci sarà e riguarda evidentemente le loro aspettative.

In effetti le aspettative giocano sempre un ruolo fondamentale.

Che si tratti dell’aspettativa che quel differenziale con il “Bund” (titolo di stato tedesco a 10 anni) si riduca presto, ad esempio, o che l’economia europea alla lunga possa correre più di quella americana (sebbene sia oggettivamente un po’ difficile credere a un vero sorpasso), o che sia l’antipatia per l’amministrazione del presidente Trump, sebbene di solito “pecunia non olet” (il denaro non abbia olezzo) ?

LA VARIABILE NASCOSTA E LE POSSIBILI ASIMMETRIE INFORMATIVE

È più probabile però che la “variabile nascosta” che permetta di fare la quadra con le discrepanze osservate nel, quadro economico di fine anno consista nelle aspettative he riguardano l’inflazione. Infatti, nell’ipotesi fantasiosa che l’inflazione americana non corrisponda a quella che attestano le statistiche correnti, bensì risulti molto più elevata, ecco che i tassi di interesse più elevati riscontrati sui titoli del tesoro americano avrebbero più senso e che, evidentemente, anche l’erosione attesa del valore del biglietto verde alla fine giustificherebbe una qualche disaffezione degli investitori che li spinge a venderlo.

C’è solo un particolare però che ancora non quadra: gli investitori professionali internazionali sanno qualcosa che nemmeno la Federal Reserve conosce (o peggio: che non vuole ammettere)? L’enigma finanziario dunque si tinge di giallo e rimanda a possibili trame “complottiste” : forse che esistano pesanti asimmetrie informative che per qualche ragione non devono finire a conoscenza del grande pubblico ? E perché mai ? Oppure l’istinto animalesco degli operatori di mercato li spinge a non fidarsi e a rimanere in sicurezza sospettando che l’inflazione sia più alta pur senza averne le prove?

Forse infine -e più semplicemente- sono in molti a ritenere che l’inflazione, senza essersi ancora manifestata, sia comunque in procinto di fare la sua comparsa. E che questo comporterà un riallineamento monetario nient’affatto grave, ma tale da ispirare tanto ulteriori rialzi del mercato borsistico (nonostante nel 2017 abbia sfondato ogni record precedente) quanto ulteriori scivolamenti del corso dei titoli a reddito fisso, i cui rendimenti nominali dovranno evidentemente crescere perche quelli reali arrivino a incorporare la componente inflattiva. Il punto è che le attuali quotazioni dei titoli a reddito fisso in dollari (ma anche in euro) non sembrano incorporare già uno scenario di forte risalita dell’inflazione, che anzi in Europa preoccupa per la sua quasi assenza.

SE FOSSE VERO COSA SUCCEDEREBBE?

Il problema logico che ne discende però è più ampio: poiché questo scenario comporta l’aspettativa di ulteriori riassestamenti dei titoli a reddito fisso e negli ultimi anni questa “asset class” (categoria di beni sui quali investire) abbia avuto una fortissima correlazione a tutte le altre, esistono solo due possibilità:

•che la possibile ulteriore discesa dei corsi dei titoli a reddito fisso dia luogo a sussulti e scivoloni anche delle borse (e infatti sono in molti a preconizzare maggior volatilità nel 2018), oppure :

•che ritorni una decisa correlazione negativa tra i titoli a reddito fisso e quelli azionari, dal momento che questi ultimi possono contare su un consistente e crescente flusso di dividendi e che dunque possano beneficiare ancora a lungo del superciclo economico espansivo che il mondo sta vivendo oramai da oltre otto anni.

La seconda possibilità farebbe peraltro scopa con le teorie economiche classiche che sino ad oggi appaiono inspiegabilmente inconsistenti con la realtà che vivono gli Stati Uniti d’America, a partire dalla famosa “curva di Phillips” che indica un innalzamento dell’inflazione come conseguenza della maggior pressione salariale e della minor disoccupazione, sino ad oggi completamente smentita dai fatti.

Quella dell’incombenza di maggior inflazione -evidentemente a partire già dal 2018- come variabile nascosta idonea a spiegare le incongruenze, nonché quella che possa approssimarsi un periodo di deciso disaccoppiamento dell’andamento dei titoli a reddito fisso rispetto a quello delle azioni, restano dunque ipotesi più che realistiche, sebbene dell’intero ragionamento sin qui esposto io non possa che avere racimolato soltanto qualche indizio negativo.

Ma come Sir Arthur Conan Doyle faceva dire a Sherlock Holmes: “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”.

Stefano di Tommaso




I PROFITTI E I FONDAMENTALI DELL’ECONOMIA TENGONO ALTE LE BORSE

Siamo arrivati quasi al mese di Agosto e i sapientoni che continuavano a prevedere un disastro imminente sui mercati finanziari ancora una volta sono stati smentiti dai fatti! Ovviamente in una situazione così contraddittoria nessuno può fare previsioni inequivocabili. Anzi, per molte ragioni i mercati potrebbero sperimentare qualche imprevisto temporale estivo! Però quando l’analisi tecnica dell’andamento dei mercati non ci viene incontro non resta che guardare agli elementi fondamentali dell’economia globale. È quello che anch’io intendo fare per commentare la situazione generale e dedurne qualche utile considerazione.

 

Le stime che riguardano la crescita economica mondiale infatti sono tutte in continua revisione al rialzo, mentre quelle che riguardano la previsione di un ritorno dell’inflazione sono assai più controverse perché non sembra esserci alcuna “curva di Phillips” in grado di spiegare più o meno linearmente per quale motivo i prezzi i beni e servizi quasi non si allineano al rialzo mentre l’occupazione e le retribuzioni salgono un po’ in tutto il pianeta.
Persino la Federal Reserve Bank of America ha sentito la necessità di esprimersi al riguardo, correggendo un po’ il tiro e ammettendo che per rivedere un rialzo dei prezzi generalizzato ci vorrà ancora molto tempo.

Questo non significherà necessariamente che i tassi (soprattutto quelli a lungo termine) non potranno salire ugualmente. Troppi i motivi per cui dovrebbero comunque farlo, a partire dal fatto che le autorità monetarie di tutto il globo è da tempo che blaterano in tal senso ma poi hanno di fatto mantenuto gonfi i loro portafogli di titoli acquistati sul mercato, lasciando vicini ai minimi storici i tassi di interesse e addirittura innalzando la liquidità disponibile sui mercati finanziari.

È chiaro a tutti che prima o poi le banche centrali dovranno invertire la rotta e che questo non potrà che elevare i livelli dei saggi di interesse, costringendo i mercati a guardare solo agli elementi fondamentali dell’analisi economica e a chiedersi se le valutazioni implicite che circolano in Borsa sono corrette. Una manovra che può portare qualche sussulto sui mercati.
È altrettanto chiaro però che questo non accadrà tanto presto, almeno sin tanto che i loro uffici studi non spiegano meglio per quale motivo l’armamentario degli strumenti di analisi economica (a partire dalla Curva di Phillips) non funzionano più.

GLI UTILI AZIENDALI

In realtà basta guardare meglio all’esplosione dei profitti delle principali società quotate in Borsa in tutto il mondo e alla crescita complessiva del reddito lordo prodotto dai cittadini di tutto il mondo (in qualche caso, come in Italia, quello netto è più o meno totalmente controbilanciato da un incremento della pressione fiscale).

Non solo sono saliti in tutto il mondo gli utili aziendali riportati nel primo trimestre 2017, ma dalle prime indicazioni che arrivano da J.P. Morgan e Citi Bank sembra che la festa sia decisamente continuata nel secondo. A partire dalle banche e società finanziarie, posizionate per beneficiare al meglio della situazione. Sinanco quelle europee, dopo che sono riuscite a tagliare buona parte degli sprechi e delle inefficienze, adesso vedono che il mercato finanziario fa affluire loro quei capitali che possono permettergli di riprendere a fare il loro mestiere fondamentale: prestare denaro.

Oltre ai titoli finanziari quelli per i quali ci si può aspettare maggiore attenzione da parte degli investitori sono probabilmente i grandi produttori di commodities a buon mercato (ici inclusi i metalli e in particolare l’acciaio), mentre tra i titoli tecnologici sarà sempre più evidente che rimangono sulla cresta dell’onda quelli più liquidi e patrimonialmente solidi e, tra questi, quelli che non hanno deluso le aspettative di crescita.

I FONDAMENTALI MACROECONOMICI

Il Fondo Monetario Internazionale ha incrementato quest’anno le aspettative di crescita economica globale dal 3,5% al 3,8%, ben al di sopra del 3,1% realizzato nel 2016. Le migliori sorprese sono arrivate dall’Europa e dal Giappone, per le quali si prevedeva uno scenario molto più statico ma secondo il mio modesto parere queste si spiegano assai bene con la volata delle rispettive esportazioni, che a loro volta sono generate da una crescita economica anche al di sopra di quanto rivelano le statistiche nelle aree dov’è più si concentra la popolazione mondiale e la sua relativa espansione demografica: i Paesi Emergenti, con l’Asia in testa, Cina e India comprese.

Persino il Prodotto Interno Lordo degli U.S.A. è previsto che quest’anno crescerà di almeno il 2%, sebbene la macchina politico-legislativa americana resti intrappolata nello stallo istituzionale seguìto alle accuse rivolte al neo-Presidente Trump di aver ricevuto un supporto dagli “hackers” russi. Ciò accade nonostante il governo non stia concludendo nulla sul fronte della riduzione fiscale e neppure su quello della spesa infrastrutturale!

Anzi, in tutti i paesi avanzati si rivedono copiose delle nuove quotazioni in Borsa (sulle quali era sceso un certo gelo da parte degli investitori) e continua imperterrita la crescita delle Fusioni ed Acquisizioni, che in tanti casi hanno avuto un ruolo positivo nelle razionalizzazioni da queste provocate e dunque nel miglioramento dei profitti aziendali. Le aspettative sono di ulteriori avanzamenti in tal senso e dunque i fattori fondamentali al lavoro in sottofondo fanno sperare che questo scenario quasi idilliaco possa non venire interrotto.

IL BASSO RUMORE DI FONDO DERIVANTE DALLE TENSIONI GEOPOLITICHE AIUTA LA CRESCITA DEI PAESI EMERGENTI

Dunque osserviamo uno scenario economico globale positivo cui si temeva potesse guastare la festa il riacuirsi delle tensioni internazionali, che invece sembrano essere state quasi quasi un fuoco di paglia. E se neanche la geo-politica rovinerà queste aspettative moderatamente ottimiste allora possiamo sperare che sarà quasi indolore il progressivo disimpegno delle autorità monetarie dagli stimoli imposti sino ad oggi?
Inutile dire che l’ottima salute -nonostante tutti i soloni- che stanno mantenendo i mercati finanziari, non aiuta necessariamente a sollevare dalla povertà le fasce più povere della popolazione, non riduce (anzi aumenta) le disuguaglianze nel reddito e, soprattutto, non cancella i debordanti e in qualche caso -come quello nostrano- addirittura crescenti debiti pubblici.

Però l’elevato livello (consolidato oramai da tempo) dei mercati finanziari può indubbiamente aiutare l’economia globale a migliorare e, indirettamente, a curare -sebbene non a risolvere-  i problemi di chi rimane più indietro. Quantomeno aiuta la crescita dell’occupazione, la speranza che questo aiuti l’inclusione economica dei più deboli in circuiti virtuosi di miglioramento, e lascia maggiori spazi per il futuro affinché gli investimenti proseguano la loro corsa e, con essi, nuove iniziative di spesa infrastrutturale possano tornare a prendere piede. Due elementi fondamentali affinché la grande liquidità che ancora alimenta i mercati possa trasmettere a valle un incremento di reddito che a sua volta può tenere alte le aspettative degli investitori.

In fondo l’incremento degli investimenti e il miglioramento dell’efficienza generale costituiscono la strada maestra che i sacri testi raccomandano per migliorare il benessere economico, insieme al diffondersi della conoscenza e degli interscambi. Se perciò i ricchi diventano più ricchi, è possibile che anche i poveri riescano a migliorare la loro situazione e ciò risulta indubbiamente migliore dell’alternativa!
Stefano di Tommaso