VENDITE AUTO NELLA BUFERA. E I CONCESSIONARI SI AGGREGANO

I veicoli immatricolati in Italia nel primo quadrimestre 2019 ammontano a 712.196 unità, il 4,6% in meno rispetto ai volumi dello stesso periodo del 2018, mentre la quota di mercato delle auto italiane nuove vendute nel nostro territorio è più o meno di un quarto del totale. Il mercato delle vendite di auto nuove, dopo le flessioni di gennaio (-7,5%), febbraio (-2,4) e marzo (-9,6%), ad aprile 2019 ha registrato una mini-ripresa “tecnica” (+1,5%) quasi solo grazie ad un giorno lavorativo in più (20 giorni ad aprile 2019 contro i 19 di aprile 2018) totalizzando nel quadrimestre un -4,6% rispetto allo stesso periodo del 2018.

 

Nel quadrimestre forte appare la contrazione delle autovetture diesel (-25%) mentre quelle a benzina sono viceversa in aumento quasi della stessa misura (+24%). Raddoppiano le auto elettriche rispetto ai primi 4 mesi del 2018: sfiorano le 2400 unità, anche grazie all’eco-bonus (dopo la pubblicazione, l’8 Aprile, ne sono state vendute 1200 in venti giorni) ma in totale rappresentano meno dell’1% del mercato (dunque il sistema bonus-malus -a conti fatti- pende fortemente a sfavore).

CRESCONO LE AUTO ELETTRICHE, CROLLANO DIESEL E A METANO


Crescono del 33% nel quadrimestre le vendite di auto ibride (quelle plug-in beneficiano parimenti dell’eco-bonus). In crescita anche le superutilitarie (anche perché la nuova normativa privilegia le auto con prezzo di listino inferiore a €50mila ed emissioni inferiori ai 70mg) e le S.U.V. (una tendenza oramai consolidata) mentre sono parimenti in calo le berline e più in generale viene penalizzato l’alto di gamma (-31%). Appena positive le vetture sportive e quelle di super-lusso. Nello stesso periodo crescono leggermente le vendite di auto nuove a GPL (+5%) ma crollano quelle a metano (-41%).

CRESCITA DELLE VETTURE USATE


Il medesimo andamento si registra per le vetture usate: nel primo quadrimestre del 2019, i trasferimenti di proprietà sono stati 1.480.849 (esattamente il doppio rispetto alle vendite di auto nuove), ma ammontano al 4,1% in meno rispetto allo stesso periodo del 2018, un calo poco inferiore a quello delle vendite di auto nuove, nonostante la decisa riduzione (anche per fattori stagionali) delle vendite di auto a km zero.

SCENDONO NOLEGGIO E FLOTTE AZIENDALI, CRESCONO I PRIVATI

Andando a separare le vendite di auto secondo il regime di proprietà, cala parecchio il noleggio (-6,8% nel quadrimestre) ma, a ben vedere, cresce decisamente nel solo mese di Aprile (+23%), evidenziando la sua caratteristica fortemente pro-ciclica di questa forma di proprietà. In generale comunque il noleggio a lungo termine sembra destinato a una riduzione nel 2019. Scendono inoltre decisamente le vendite alle flotte aziendali (-7,25% nel primo trimestre, a causa del venir meno degli incentivi per il superammortamento), mentre crescono di misura (meno del 3% quelle a privati), e i leasing auto.

In generale le previsioni per l’anno in corso sono dunque negative: qualcuno stima che le auto nuove che saranno state vendute a fine 2019 ammonteranno a meno di 1,8 milioni, contro le 1,9 milioni vendute nel 2018 (-5%) ma è questa soltanto una vaga ipotesi, che non tiene conto dell’attesa di possibile miglior ripresa economica per la seconda parte del 2019, che potrebbe dunque riflettersi anche sul mercato dell’auto.

BOOM DELL’USATO ONLINE

Si stima inoltre in crescita la quota di mercato delle auto usate (dovuta alla progressiva saturazione del mercato), sebbene il maggior numero di unità vendute non corrisponda che a circa la metà degli importi in termini di valore rispetto alle auto nuove.

Ma l’argomento più interessante è quello delle vendite online: sembrerebbe che il 40% degli 800.000 veicoli posti in vendita online in ogni istante venga piazzato a privati nel giro dei successivi 30 giorni. I maggiori operatori del mercato sono senza dubbio AutoScout24 e Facile.It e rischiano di erodere una fetta sempre maggiore di un mercato, quello dell’usato, che ha sempre rappresentato una miglior fonte di guadagno per i concessionari auto rispetto alle vendite del nuovo.

Il 27% delle persone in Italia sarebbe interessato all’acquisito dell’auto online e ci si aspetta che questa percentuale cresca sulla sua di quanto sta accadendo in UK e US. Le ragioni che spingono i consumatori ad optare per questa scelta sono: migliori promozioni (per il 51% degli intervistati) , una più facile comparazione di prezzo (37% ) e un risparmio di tempo (28%).

I DISTRIBUTORI SI AGGREGANO, MA IN EUROPA SONO PIÙ AVANTI

Quanto ai distributori di auto, è sempre più chiaro che, mentre in Italia continuano ad operare le piccole realtà, nel resto d’Europa sono soprattutto i grandi gruppi a crescere di fatturato. Il mercato dell’auto infatti risente meno di altri dell’esplosione delle vendite online, sia per un problema concreto di assistenza e manutenzione, che per i servizi accessori che accompagnano quasi sempre le vendite.


Le statistiche disponibili per i concessionari in Europa sono tuttavia molto limitate per il 2018 e, per farsi un’idea del mercato, bisogna risalire al 2017, anno in cui la Svizzera Emil Frey ha registrato il più alto livello di fatturato (oltre 11 miliardi di euro, mezzo milione di vicoli consegnati e quasi 700 punti vendita). Seguono a distanza Penske Europe (quasi 8 miliardi) e tre pesi massimi britannici: Pendragon (5,5 miliardi), Lookers (poco meno) e Inchcape Europe (quasi 5 miliardi). Tra le italiane spiccava (sempre nel 2017) la Autotorino, che però nel 2018 ha già totalizzato una forte crescita, contando anche il fatturato della neo-acquisizione di Autostar, a circa 1,2 miliardi di euro. Seguono Intergea e Porsche Holding (appartenente al gruppo VW). Molti di questi grandi gruppi distributivi sono però oggi indipendenti dalle case di produzione automobilistica, che in precedenza sembravano voler presidiare più direttamente il loro mercato di sbocco.

CRESCE LA QUOTA DI MERCATO DEI GRANDI MULTIMARCA


Dappertutto però si assiste a un andamento opposto delle vendite a seconda delle strutture distributive: crescono quelle dei grandi gruppi multimarca, calano più che proporzionalmente quelle dei piccoli e dei monomarca. In Italia poi nel 2017 i primi 50 dealer fatturavano in media meno di 300 milioni di euro, un ordine di grandezza dunque nemmeno paragonabile a quello dei primi gruppi europei appena citati. Nel grafico qui sopra si nota comunque per quei medesimi top 50 una quota di mercato comunque crescente.

BOOM DEI SOFTWARE PER VENDITE E ASSISTENZA AUTOMOBILISTICA


Chi può farne i migliori guadagni sono le case produttrici di software per la gestione delle vendite auto, per i configuratori, per i comparatori di prezzo e prestazioni, per gestirne la fiscalità, la manutenzione e la soddisfazione come utilizzatori. Una vera e propria messe di nuovi prodotti informatici è destinata a riversarsi sul tema secondo la società di analisi e previsioni Garner Insight.

Stefano di Tommaso




CORSI E RICORSI DELLE BORSE

Sono almeno due anni che ascoltiamo litaníe di analisti e profeti della finanza annunciare imminenti crolli delle borse. Le ragioni del loro argomentare nel tempo sono state di volta in volta le più varie: il “tapering” (la fine del Q.E. e l’annuncio della cessazione degli altri stimoli monetari) la Brexit, la crisi della Grecia, l’elezione di Trump, la polveriera del Medio Oriente, le elezioni italiane, l’eccesso di debiti globali, la Corea, le guerre commerciali americane, la risalita dei tassi d’interesse e gli uragani. Tutte smentite dai fatti. Ma è giustificato il nuovo ottimismo?

 

NIENTE CROLLI

Io stesso in questi anni mi sono talvolta lasciato prendere la mano da inviti alla prudenza, motivi di preoccupazione, disallineamento degli andamenti economici e timori di crolli dopo eccessi di crescita degli indici di borsa. Ma poi è sempre arrivata una ragione per il contrordine. Niente crolli: c’è ancora troppa liquidità in circolazione dicono ogni volta gli irriducibili.

Certamente esistono diverse verità in contemporanea: se è vero che i listini delle borse (soprattutto quelle americane) sono cresciuti del 50% è altrettanto vero che spesso è accaduto in relazione all’ascesa dei profitti aziendali e che, di conseguenza, ciò non è successo dappertutto (ad esempio non in Italia) e non si sono ugualmente rivalutate tutte le categorie di titoli quotati: è continuata la corsa dei “tecnologici”, soprattutto sui mercati anglosassoni e sono discesi tutti gli altri, in particolare quelli delle borse periferiche. Dunque i listini di borsa assomigliano alla “media del pollo” di trilussiana memoria, e così pure gli indici globali risentono della forte componente positiva americana. Andando a discernere meglio non è andato tutto all’insù.

IL GIOCO DELLE ASPETTATIVE

Ma la triste verità è pur sempre un’altra: non esiste alcuna vera correlazione diretta tra le “notizie” relative a economia reale e geopolitica e gli andamenti dei mercati finanziari, i quali seguono queste insieme a mille altre logiche contemporaneamente e dunque si orientano in funzione della percezione collettiva della prevalenza dell’una o dell’altra, mentre alla fine è il fattore psicologico che comanda: se le aspettative degli investitori sono buone i mercati crescono “nonostante” ogni elemento oggettivo negativo e viceversa!

CINA E MERCATI EMERGENTI: DI NUOVO OTTIMISMO

Così scopriamo che, se è vero che i dazi doganali preoccupano per il possibile ostacolo che possono opporre alla crescita economica globale, è altrettanto vero che i mercati stanno prendendo atto del fatto che la questione non è poi così grave se finisce che le aspettative positive di nuovi negoziati con la Cina arrivano sopravanzare i timori di ulteriori misure restrittive. E se è vero che i mercati emergenti sono stati in prevalenza abbandonati dai grandi capitali che hanno preferito approdare in porti più sicuri in vista della fine di un lungo ciclo economico espansivo, adesso è anche altrettanto vero che le quotazioni nelle borse più periferiche sono basse e che il potenziale di crescita che esse esprimono (oltre ai fattori demografici) suggeriscono nuovo ottimismo sulle piazze finanziarie dei paesi emergenti!

Ma basta così poco per trasformare le cautele e le prese di beneficio dopo anni di crescita vorticosa in nuovo ottimismo?

PERSINO L’INDICE DELLA PAURA È AI MINIMI

Evidentemente si, se non si bada ai fatti bensì agli umori. E il bello è che il “barometro della paura”, quell’indice VIX della volatilità delle borse che sempre più spesso viene consultato dai profani, stavolta è tornato di nuovo ai minimi storici, a segnare non soltanto un rimbalzo degli umori, ma addirittura anche una certa rilassatezza di chi si sta abituando a cambiarla sempre più spesso.

Emerge allora un ricordo di molti anni fa quando avevo ascoltato alle “grida” di Piazza Affari una citazione del mitico Giannino, un procuratore di borsa negli anni ‘70 che continuava a ripetere : “quando spengono la luce non ti avvisano prima!” Ecco, forse anche stavolta alla fine andrà così: le peggiori crisi sono giunte quasi sempre inaspettate, quando la guardia collettiva era stata abbassata e la divergenza tra fatti ed opinioni era giunta a livelli estremi.

BALLIAMO SULLORLO DEL PRECIPIZIO?

È andata così nel 2008 e rischia di andare allo stesso modo la prossima volta. Ma forse non già nel 2018: ci sono ancora troppi fattori in gioco che premono in direzione dell’ottimismo sfrenato e troppi interessi a evitare che “qualcuno spenga la luce”. (qui sopra l’andamento dell’indice Dow Jones della borsa americana).

La verità però è che man mano che ci si approssima al crinale della montagna, a ballare e far baldoria si rischia di più di cadere a capofitto nel baratro.

Stefano di Tommaso




L’ENIGMA DEL DOLLARO DEBOLE E LA VARIABILE NASCOSTA DEL 2018

Cosa succede al biglietto verde perché esso scenda in picchiata di oltre il 10% nel 2017 nonostante abbia effettuato tre rialzi dei tassi (e altri tre ne abbia promesso per il 2018) nonostante la crescita del prodotto interno lordo americano abbia raggiunto il 3% e prometta faville a causa del taglio fiscale, nonostante la BCE se le inventi tutte per far scendere l’euro al cambio e nonostante che quest’ultima, insieme alla stragrande maggioranza delle altre banche centrali, stia ancora pompando liquidità a tutto spiano (che in parte finisce anche a Wall Street) ? Difficile, come si può vedere dai quattro dati appena citati, fornire spiegazioni razionali a questa e a altre dinamiche di una finanza globale che sembra aver perso da tempo la correlazione di un tempo tra le variabili economiche e fors’anche il lume della ragione. Eppure le ragioni -perché qualcosa accada- ci sono sempre. Proviamo perciò ad andare un po’ più a fondo per scoprirlo.

LA LEGGE DELLA DOMANDA E DELL’OFFERTA


Innanzitutto teniamo bene a mente che, teorie economiche e correlazioni statistiche a parte, a determinare le sorti di qualsiasi variabile economica insiste, prima di ogni altra, la legge della domanda e dell’offerta: se qualcuno vende dollari e compra altre divise evidentemente è perché preferisce fare così, oppure ve ne è costretto.

Esiste dunque una tematica di fondo relativa alla sfiducia degli investitori globali sull’economia americana? Sebbene ciò non abbia molto senso logico, viene da rispondere che evidentemente sì, esiste, altrimenti succederebbe il contrario: il dollaro si apprezzerebbe. Quasi impossibile inoltre affermare che il corso del dollaro scenda perché I biglietti verdi sono venduti da coloro che comprano bitcoin, oro ovvero qualsiasi altro bene-rifugio o moneta speculativa: le quantità in gioco non sono neppure paragonabili e, se anche tutto ciò avvenisse contemporaneamente e massicciamente, il cambio del dollaro farebbe fatica a segnare qualche minima differenza. L’economia americana è infatti la prima al mondo in valori assoluti e dunque il mercato del dollaro è davvero molto profondo.

Più probabilmente però il vistoso squilibrio della bilancia commerciale americana un ruolo ce l’ha di sicuro nel determinare la legge della domanda e dell’offerta: se gli americani hanno aumentato fortemente nell’anno in corso i loro acquisti online e quasi tutte le merci acquistate sono arrivate dall’Asia, probabilmente l’effetto “si sente”.

IL RUOLO DELLE ASPETTATIVE

Ma questo a dirla tutta non basta a spiegare, ad esempio, il crescente “spread” (differenziale) tra i rendimenti dei titoli di stato americani a dieci anni e quelli europei (ed in particolare quelli tedeschi). Se il differenziale si amplia è perché gli investitori preferiscono comperare titoli tedeschi -denominati in euro e a rendimenti più o meno nulli- che non titoli americani in dollari -già svalutati e che rendono molto di più-. Torna dunque la tematica della domanda e dell’offerta: se essi lo preferiscono un motivo ci sarà e riguarda evidentemente le loro aspettative.

In effetti le aspettative giocano sempre un ruolo fondamentale.

Che si tratti dell’aspettativa che quel differenziale con il “Bund” (titolo di stato tedesco a 10 anni) si riduca presto, ad esempio, o che l’economia europea alla lunga possa correre più di quella americana (sebbene sia oggettivamente un po’ difficile credere a un vero sorpasso), o che sia l’antipatia per l’amministrazione del presidente Trump, sebbene di solito “pecunia non olet” (il denaro non abbia olezzo) ?

LA VARIABILE NASCOSTA E LE POSSIBILI ASIMMETRIE INFORMATIVE

È più probabile però che la “variabile nascosta” che permetta di fare la quadra con le discrepanze osservate nel, quadro economico di fine anno consista nelle aspettative he riguardano l’inflazione. Infatti, nell’ipotesi fantasiosa che l’inflazione americana non corrisponda a quella che attestano le statistiche correnti, bensì risulti molto più elevata, ecco che i tassi di interesse più elevati riscontrati sui titoli del tesoro americano avrebbero più senso e che, evidentemente, anche l’erosione attesa del valore del biglietto verde alla fine giustificherebbe una qualche disaffezione degli investitori che li spinge a venderlo.

C’è solo un particolare però che ancora non quadra: gli investitori professionali internazionali sanno qualcosa che nemmeno la Federal Reserve conosce (o peggio: che non vuole ammettere)? L’enigma finanziario dunque si tinge di giallo e rimanda a possibili trame “complottiste” : forse che esistano pesanti asimmetrie informative che per qualche ragione non devono finire a conoscenza del grande pubblico ? E perché mai ? Oppure l’istinto animalesco degli operatori di mercato li spinge a non fidarsi e a rimanere in sicurezza sospettando che l’inflazione sia più alta pur senza averne le prove?

Forse infine -e più semplicemente- sono in molti a ritenere che l’inflazione, senza essersi ancora manifestata, sia comunque in procinto di fare la sua comparsa. E che questo comporterà un riallineamento monetario nient’affatto grave, ma tale da ispirare tanto ulteriori rialzi del mercato borsistico (nonostante nel 2017 abbia sfondato ogni record precedente) quanto ulteriori scivolamenti del corso dei titoli a reddito fisso, i cui rendimenti nominali dovranno evidentemente crescere perche quelli reali arrivino a incorporare la componente inflattiva. Il punto è che le attuali quotazioni dei titoli a reddito fisso in dollari (ma anche in euro) non sembrano incorporare già uno scenario di forte risalita dell’inflazione, che anzi in Europa preoccupa per la sua quasi assenza.

SE FOSSE VERO COSA SUCCEDEREBBE?

Il problema logico che ne discende però è più ampio: poiché questo scenario comporta l’aspettativa di ulteriori riassestamenti dei titoli a reddito fisso e negli ultimi anni questa “asset class” (categoria di beni sui quali investire) abbia avuto una fortissima correlazione a tutte le altre, esistono solo due possibilità:

•che la possibile ulteriore discesa dei corsi dei titoli a reddito fisso dia luogo a sussulti e scivoloni anche delle borse (e infatti sono in molti a preconizzare maggior volatilità nel 2018), oppure :

•che ritorni una decisa correlazione negativa tra i titoli a reddito fisso e quelli azionari, dal momento che questi ultimi possono contare su un consistente e crescente flusso di dividendi e che dunque possano beneficiare ancora a lungo del superciclo economico espansivo che il mondo sta vivendo oramai da oltre otto anni.

La seconda possibilità farebbe peraltro scopa con le teorie economiche classiche che sino ad oggi appaiono inspiegabilmente inconsistenti con la realtà che vivono gli Stati Uniti d’America, a partire dalla famosa “curva di Phillips” che indica un innalzamento dell’inflazione come conseguenza della maggior pressione salariale e della minor disoccupazione, sino ad oggi completamente smentita dai fatti.

Quella dell’incombenza di maggior inflazione -evidentemente a partire già dal 2018- come variabile nascosta idonea a spiegare le incongruenze, nonché quella che possa approssimarsi un periodo di deciso disaccoppiamento dell’andamento dei titoli a reddito fisso rispetto a quello delle azioni, restano dunque ipotesi più che realistiche, sebbene dell’intero ragionamento sin qui esposto io non possa che avere racimolato soltanto qualche indizio negativo.

Ma come Sir Arthur Conan Doyle faceva dire a Sherlock Holmes: “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”.

Stefano di Tommaso