PROVE TECNICHE DI RECESSIONE

La vera novità della settimana è che un gran numero di indici statistici dell’economia reale hanno registrato un andamento debole, in particolare in Francia e ancor più in Germania (che sono al cuore dell’Unione Europea). In Germania l’indice PMI è crollato al livello di 44,7 (ben sotto la parità che è 50) ma anche in America la situazione è peggiore delle attese: l’indice Pmi di Markit sulle aspettative dei direttori degli acquisti delle aziende manifatturiere USA a marzo è sceso da 53 a 52,5 punti, deludendo le attese (53,5 punti) mentre quello Pmi dell’Eurozona a marzo è sceso ai minimi dal 2013. Le borse di tutto il mondo hanno ovviamente registrato con preoccupazione le vicende. Ma di qui a prevedere il peggio ce ne passa…

 

DATI MACROECONOMICI DELUDENTI

La produzione manifatturiera in Europa è inoltre calata del 3% negli ultimi tre mesi rilevati (Novembre-Gennaio), lasciando immaginare perciò che il calo possa persistere ancora per qualche mese. Le cose sono andate meglio per il settore dei servizi (che in Europa conta per il 75% del valore aggiunto), dove l’indice è rimasto sostanzialmente invariato (vedi grafici).


Ma tanto per non farsi mancare niente sono arrivati nel frattempo il voto negativo del Parlamento britannico sull’accordo con l’Unione europea e poco dopo la decisione di quest’ultima di concedere due ulteriori settimane di tempo alla Gran Bretagna per la Brexit: una notizia apparentemente buona ma che in realtà ha rilanciato il corso della Sterlina (deprimendo anche la Borsa di Londra) e riaperto ogni possibile scenario, ivi compreso quello di un nuovo referendum.

Ora ciò che i giornali spesso non chiariscono è che da uno scenario di duro confronto tra Gran Bretagna e Unione Europea ci rimettono più gli esportatori continentali che non quelli d’oltremanica, dal momento che il Regno Unito importa dall’Europa il doppio di ciò che esporta. Dunque la mancata soluzione “soffice” è in realtà una brutta notizia per l’economia reale comunque la si voglia interpretare e l’idea di ancora lunghi mesi di incertezza (in casi di nuovo referendum) non fa che complicarla.

Se si guarda altrove nel mondo si vedono problemi minori di quelli europei, ma pur sempre indicazioni poco rassicuranti (vedi grafico).


L’INVERSIONE DELLA CURVA DEI RENDIMENTI

Alla pletora di cattive notizie macroeconomiche se n’è aggiunta una -diciamo- “segnaletica” che riguarda la definitiva inversione della curva dei rendimenti (vale a dire che i tassi a breve hanno superato quelli a lungo termine, contro l’ordine naturale delle cose che riconoscerebbe un premio di maggior rendimento ai titoli con scadenza più remota) sul mercato più liquido del mondo: quello americano. È storicamente dimostrato che l’America cade in recessione economica all’incirca un anno dopo che questo fenomenosi manifesta (vedi grafico).


TUTTAVIA L’ANDAMENTO SOSTENUTO DEL PETROLIO PONE QUALCHE DUBBIO ALLA PROGNOSI DI RECESSIONE

L’elenco può continuare, dal momento che l’accordo commerciale degli USA con la Cina ristagna, e nel frattempo quest’ultima ottiene successi diplomatici in Europa e consente alla Corea del Nord di mostrare ancora una volta i suoi muscoli, mentre invece il prezzo del petrolio continua a esprimere stabilità e forza, cosa che fa pensare che -sebbene i produttori si sforzino di ridurne l’offerta- la domanda non ne sia stata compromessa dal rallentamento economico in corso.


Gli ostacoli alla continuazione della crescita economica insomma sembrano riguardare più le piccole e medie imprese (Europee in particolare) che non l’intera economia globale, cosa che lascia tutto sommato le borse in una situazione di incertezza (ma non di affanno) e che dovrebbe contribuire ad un maggior coraggio da parte delle banche centrali nel fornire liquidità al sistema bancario affinché incrementino l’erogazione di finanziamenti.

In questo contesto contrastato e con lo spettro della recessione in arrivo i mercati finanziari hanno proseguito con la rotazione dei portafogli acquistando titoli “difensivi”, primi fra tutti quelli delle cosiddette “utilities” cioè le imprese che offrono servizi di pubblica utilità (luce, gas, acqua, trasporti urbani eccetera).

PERCHÉ LE UTILITY

La spiegazione è semplice: il settore industriale dei servizi di pubblica utilità risulta storicamente più performante quando l’economia abbandona lo stadio avanzato della crescita per entrare in stagnazione o in recessione.

Sia perché i tassi d’interesse in discesa producono il massimo beneficio per le utility (scende infatti il costo dell’indebitamento), un fattore importante per il bilancio di società che fisiologicamente ricorrono a un elevato indebitamento per finanziare ricorrenti investimenti fissi.


Ma anche perché diventano più appetibili i loro dividendi (tradizionalmente elevati) derivando da attività consolidate nei servizi di prima necessità il cui fatturato è poco volatile e perciò minore è l’impatto degli alti e bassi dell’economia. Comperare azioni di società operanti nella pubblica utilità non è dunque troppo diverso dal comperare titoli a reddito fisso ed è considerata la classica manovra difensiva di chi investe professionalmente. Dai grafici qui allegati si può notare l’andamento più che positivo (soprattutto in Italia) degl’indici che rappresentano quei titoli:


Anche la marcata crescita delle quotazioni delle utilities è tuttavia a sua volta un segnale di relativa sfiducia nella prosecuzione della crescita economica o quantomeno è l’avvisaglia tipica di una temporanea stagnazione.

Ma se osserviamo l’andamento tipico dei fattori che contribuiscono all’avvitarsi della recessione (rappresentato dal grafico qui allegato) possiamo osservare di essere ancora relativamente lontani dalla cosiddetta “spirale del declino”: i profitti industriali non sono in discesa la deflazione per il momento è lontana, la disoccupazione è addirittura in contrazione e i consumi evolvono in modalità differenti da quelle strettamente consumistiche del recente passato ma non crollano. Dunque lo scenario economico fino a qui visibile è sicuramente un quadro a tinte fosche ma il cui esito è quantomeno incerto e nient’affatto sicuramente negativo per l’anno in corso. In altri termini: non vi sono certezze.


NUOVI STIMOLI ALLA CRESCITA

Spingersi di conseguenza a prevedere cosa succederà oltre l’orizzonte naturale di fine 2019 non è tuttavia così facile: da un lato sono in molti a prevedere la recessione economica nel 2020 (anno tra l’altro bisestile e per questo considerato parecchio problematico per la scaramanzia dei mercati finanziari) e dall’altro c’è che giura che le cose andranno assai diversamente, tanto per la propulsione asiatica e tecnologica alla crescita economica, quanto perché Donald Trump vorrà presentarsi all’appuntamento con gli elettori con un’America in ottima forma finanziaria e cercherà di spingere sugli incentivi fiscali (alle opere pubbliche, agli investimenti e alla piena occupazione) così come sta cercando di fare -nel suo piccolo- il governo giallo-verde italiano. Imprese non facili, dato il contesto generale riflessivo e quindi poco idoneo a recepire appieno misure espansive, ma pur sempre iniziative potenzialmente in grado di “tenere botta” alla fase di maturità del ciclo economico, in attesa che qualcos’altro lo rilanci più vigorosamente.

Le banche centrali sono già peraltro pronte a fare la loro parte con gli stimoli monetari e anche questo è un mezzo segnale positivo. Così come è successo già nei tre-quattro anni precedenti dunque non è escluso che le cose non vadano per il meglio. Possiamo almeno augurarcelo, dal momento che il modo migliore per evitare i danni di una recessione è quello di prepararvisi il più possibile.

Stefano di Tommaso




PERCHÉ LE BORSE CORRONO

L’economia globale ha frenato abbastanza bruscamente alla fine del 2018, poi tra mille sussulti e distinguo sembra essere tornata a innestare la marcia in avanti (in quasi tutto il mondo salvo che in Europa), ma la ripresa delle quotazioni delle borse mondiali, dopo il calo registrato nel 2018 ha superato le più rosee aspettative. Perché? La risposta più breve è: perché le banche centrali hanno cambiato atteggiamento e oggi la liquidità sovrabbonda sui mercati. Ma in realtà lo scenario è più complesso.

 

I MOTIVI DI TIMORE A FINE 2018

Per cercare di interpretare correttamente la situazione corrente bisogna innanzitutto notare come alcuni tra i maggiori timori che erano comparsi al momento della picchiata delle borse di tutto il mondo (a fine dicembre 2018) stanno perdendo la loro ragion d’essere mano mano che i mesi passano:

  • prima quelli sulle guerre commerciali internazionali (a partire dalla madre di tutte le battaglie: la Cina contro l’America),
  • poi i timori derivanti dall’eccesso di rigore praticato dalla Federal Reserve nel perseguire la normalizzazione della politica monetaria (e dal conseguente scontro con il Presidente Trump),
  • per seguire con quelli derivanti dalle conseguenze di una lite profonda tra la Gran Bretagna e il resto d’Europa (la prima è importatrice netta dalla seconda),
  • e per finire con le possibili tensioni che sarebbero conseguite a una crisi dei debiti pubblici (a partire da quelli italiano e americano).
    Con la conseguenza quasi scontata di una potenziale revisione al ribasso del giudizio delle agenzie di rating internazionali, di materia per far tremare le borse ce n’era perciò proprio a bizzeffe.

LA MINI-RECESSIONE D’AUTUNNO

A tutto ciò si aggiungeva lo sconcerto provocato dalla mini-recessione d’autunno (che sembrava essere arrivata senza alcun preavviso e che pareva precludere ad una decisa anticipazione della conclusione dell’attuale ciclo economico positivo e all’arrivo di una nuova recessione globale). Recessione tecnica invece, rivelatasi poi per quello che in realtà è forse sempre stata: uno scossone di assestamento o poco più, persino in Italia, dove il primo trimestre 2019 sembra già puntare oltre la parità.

IL PANORAMA SEMBRA DECISAMENTE MIGLIORATO

Tutti coloro che si informano regolarmente sanno perciò che buona parte dei mal di testa che conseguivano all’accumulo di nuvoloni neri e che avevano scatenato un panico da nuova tempesta perfetta nella finanza mondiale oggi sembrano invece dileguarsi, quantomeno nelleaspettative: la Cina e l’America (ma soprattutto quest’ultima, che ha smesso di cannoneggiare anche nei confronti del resto del mondo) stanno mostrando fermamente che vogliono trovare un esito positivo ai negoziati. La FED ha detto chiaramente che non intende accollarsi la responsabilità di una nuova recessione e che dunque i prossimi aumenti dei tassi d’interesse sono rinviati a data da destinarsi. La Gran Bretagna ha abbandonato l’idea di sbattere la porta alla Commissione Europea rinviando a tempi migliori l’uscita dall’Unione (tra due mesi ci saranno le elezioni per il rinnovo dei vertici d’Europa) e infine le agenzie di rating si sono guardate bene dall’infierire sull‘eccesso di debiti pubblici, astenendosi dal peggiorare i loro giudizi e, più di ogni altro fattore, il timore che il mondo stesse viaggiando verso una nuova recessione sembra quantomeno rintuzzato da una serie confortante di nuovi dati macroeconomici che paiono smentire i gufi che annunciavano un‘ imminente apocalisse.

MA NON BASTA PER GIUSTIFICARE LA CORSA DEI LISTINI

Tutto bene dunque? Più o meno si, fatta salva l’ovvia considerazione che quelle sopra citate sono tutte delle “mezze buone notizie”, non il grilletto che può aver scatenato la nuova corsa all’oro della finanza mondiale! In molti casi l’allarme è stato infatti soltanto rinviato.

Non per niente l’inflazione resta ai minimi storici, i tassi d’interesse a lungo termine sono andati in direzione opposta a quelli a breve termine (sono scesi) e tutti sanno che, tempo un anno o due, l’inversione della curva dei tassi (quelli a lungo termine dovrebbero normalmente restare ben al di sopra di quelli a breve, per remunerare la minor liquidità) prelude all’inversione del ciclo economico.

Se invece dal picco negativo di Dicembre scorso (meno di tre mesi fa) le principali borse sono cresciute circa del 20% qualche altro motivo ci deve pur essere e i più concordano che la risposta risieda nella politica monetaria delle banche centrali, le quali non hanno soltanto cambiato atteggiamento (come la FED) ma in molti altri casi hanno addirittura ripreso a pompare liquidità, a partire da quella cinese, fino a quella europea, passando dalla Bank of Japan che non ha letteralmente mai smesso di farlo.

LA LIQUIDITÀ INNANZITUTTO

Altro che normalizzazione monetaria dunque, siamo di fatto agli antipodi, anzi peggio che agli antipodi, perché -anche a causa della maggior offerta di moneta da parte delle altre banche centrali che non trova riscontro in altrettanta fiducia nelle borse locali- Wall Street in questi mesi non solo è cresciuta parecchio (vedi grafico qui sopra), ma ha anche continuato a rosicchiare quote di mercato alle altre grandi borse, attirando capitali dal resto del mondo sia perché esprime grandi qualità (liquidità, trasparenza e controlli, eccetera) che per il fatto che il Dollaro è rimasto da tempo in tendenza ascendente contro praticamente tutte le altre valute.

L’indice europeo paragonabile allo Standard&Poor 500 riportato qui accanto è infatti l’Eurostoxx 600 qui sotto, che evidentemente si è mosso con più moderazione e in leggero ritardo.

 

Tra l’altro l’afflusso netto di capitali in zona Dollaro non fa che rinforzare quella divisa, che resta chiaramente in un canale ascendente, come mostra il grafico della sua quotazione contro Euro qui accanto riportato.

La liquidità dunque è ciò che fino ad oggi ha continuato a sostenere i listini di borsa, anche tenendo conto del fatto che i titoli a reddito fisso mancano oramai del primo dei due aggettivi: il reddito, e che per questo motivo molti investitori scelgono i titoli azionari per avere dai dividendi la cedola che non esiste più per quelli obbligazionari.

MA QUANTO PUÒ DURARE ?

Ma quanto può durare questa bonanza? La domanda è per definizione senza risposte certe ma possiamo provare a guardare qualche dettaglio interessante negl’indici che misurano la produttività del lavoro, dal momento che il rialzo del costo della manodopera già registrato in America può diffondersi nel resto del mondo anche se esso non sembra incidere necessariamente sui consumi, la cui composizione è in forte cambiamento (ed è forse principalmente per questo motivo che l’inflazione non cresce).


La produttività non è soltanto stranamente rimasta al palo negli ultimi anni, un periodo in cui viceversa i profitti aziendali hanno corso più di quanto avessero mai fatto prima, ma ciò è anche successo nel Paese che più di tutti gli altri ha investito nella rivoluzione digitale (che ha da molti altri punti di vista portato a immensi efficientamenti economici): gli Stati Uniti d’America. Qualcuno ne ha attribuito le cause all‘ avanzamento delle tecnologie che hanno generato la cosiddetta “sharing economy” (economia della condivisione) grazie alla quale molti prodotti e servizi sono divenuti economici o addirittura gratuiti (a partire dalle notizie, fino al noleggio di bici e automobili), andando ad alterare gli indici che la tracciavano proprio laddove le nuove tecnologie si sono sviluppate maggiormente.

ALCUNI SEGNALI POSITIVI…

Ebbene dopo molti anni in cui addirittura sembrava volgere al ribasso, nell’ultimo trimestre 2018 ha fatto un balzo in avanti, facendo ben sperare che le tensioni salariali non finissero con il divorare il salto in avanti dell’efficienza aziendale che è derivata dall’andamento economico positivo in America.

Se andiamo poi a guardarne l’andamento dell’efficienza dell’ora lavorata nei paesi più sviluppati (OECD) troviamo in effetti che molte economie emergenti e in particolare quelle dell’Europa dell’Est come Polonia, Lettonia, Bulgaria e Romania, negli ultimi tre lustri hanno mostrato dinamiche molto più pronunciate che non quelle degli U.S.A. o del Regno Unito.


Lo stesso non può peraltro dirsi per il nostro Paese che, rispetto ai più diretti concorrenti europei, ha accumulato un ritardo considerevole, come si può notare dal grafico qui riportato.


Ebbene quella timida ripresa della produttività americana fa pensare che la maggior efficienza per le imprese derivante dall’avanzamento delle tecnologie produttive sia arrivata a lambire anche l’industria manifatturiera americana, lasciando ben sperare che non resti effimera la timida ripresa dei prodotti economici lordi che sembra aver attecchito sul pianeta dopo la pausa della crescita registrata alla fine dello scorso anno.

Nulla di certo tuttavia, e soprattutto non si tratta ancora di una tendenza consolidata che possa far sperare nella ripartenza di un nuovo ciclo economico globale di sviluppo senza essere passati (o quasi) dalla fase recessiva. Per ora è soltanto una pia speranza: quella che l’incedere inesorabile delle nuove tecnologie possa aprire nuovi scenari di sviluppo economico, sino ad oggi impensabili.

E ALTRI SEGNALI DI PRUDENZA

Per il momento dunque la prudenza è d’obbligo: le borse mondiali appaiono ancora una volta fortemente sopravvalutate rispetto alla redditività delle imprese che vi sono rappresentate, o quantomeno in forte anticipo rispetto alle performances che queste ultime dovranno mostrare per giustificare le elevatissime valutazioni implicite nei corsi azionari. E sempre che l’inflazione non faccia brutte sorprese, dal momento che se arrivasse anche le aspettative -oggi stazionarie- relative ai bassissimi tassi di interesse che sottendono alla stima dei flussi di cassa prospettici che possono generare quelle imprese, sarebbero riviste al ribasso, trascinando con sè anche i listini di borsa.

Un’ipotesi al rialzo quindi e una al ribasso fanno la più assoluta parità nelle attese circa l’evoluzione delle borse di qui alla fine dell’anno in corso. Che peraltro è quello che si aspettano quasi tutti gli analisti finanziari per i prossimi 10 mesi, ma con l’unica avvertenza che la media del pollo appena ipotizzata non implica necessariamente un mare calmo come l’olio per la navigazione, soprattutto quando gli scenari appena pennellati tendono un po’ troppo al colore rosa, che sia esso quello di un’alba oppure di un tramonto. Nessuno può davvero dirlo…

Stefano di Tommaso




A PROPOSITO DI CICLI ECONOMICI

Le borse stanno vivendo un momento di traslazione dopo lo scoppiettante inizio del 2019, l’arrivo del quale ha regalato a chi investe una performance che potrebbe essere considerata già valida per tutto il resto dell’anno. Oggi l’economia di carta sembra sonnecchiare senza molti timori, mentre è assai difficile affermare che anche per l’economia reale va tutto bene: i dati macroeconomici non sono affatto rassicuranti e l’intero sistema industriale planetario sembra registrare un rallentamento. E ci si chiede se potrà contagiare anche i mercati finanziari.

 

PERSINO L’AMERICA TEME LA RECESSIONE

I dati statistici parlano chiaro persino in America (la stessa che ancora prevede di chiudere l’anno in corso con una crescita del Prodotto Interno Lordo al 3%, e che probabilmente dovrà presto rivedere quel numero al ribasso): il rallentamento della crescita economica è sotto gli occhi di tutti. Persino la disoccupazione in America rischia di riprendersi, sebbene con il 3,7% sia scesa a poco più di un terzo della nostra, mentre calano la crescita della produzione manifatturiera, i prezzi degli immobili, la fiducia dei consumatori, l’erogazione di credito alle piccole imprese, e mentre il debito pubblico supera il livello di guardia. L’America però sul piatto da poker della crescita economica ha da tempo giocato la sua carta migliore: gli investimenti sull‘innovazione, in molti casi destinati a portare dei frutti persino in caso di recessione.

L’INDUSTRIA EUROPEA GIÀ ARRANCA

Il continente europeo purtroppo non se la cava affatto altrettanto bene. Il governo italiano sta cercando come può di creare nuovi stimoli all’economia ma l’impostazione complessiva dell’Unione tende a limitarne l’efficacia: sarà già un bel risultato se riusciremo a contrastare la frenata delle esportazioni e la diminuzione del potere d’acquisto dei consumatori, facendo terminare l’anno poco sopra la parità.

Frenano pesantemente la crescita economica e un certo malessere delle banche, che soffrono per i tassi bassi e la liquidità che vola oltre oceano. La riduzione del credito alle piccole e medie imprese è particolarmente rilevante in Italia, dove rischia nel 2019 di risultare maggiore di quella registrata nel 2018 (oltre 40 miliardi di euro). I fattori esterni congiurano con gli scontri politici per le prossime elezioni europee, a tarpare le ali all’economia del nostro Paese, sebbene è probabile che anche l’anno in corso risulti positivo per il turismo e l’industria alimentare nazionali.

La Germania è risultata ancor più vulnerabile dell’Italia all’arrivo della recessione nel 2019, non soltanto perché fortemente dipendente dall’andamento delle esportazioni, ma anche perché è risultata troppo esposta all’andamento -non positivo- dell’industria automobilistica, sottoposta a sempre più stringenti regolamentazioni ambientali e al cambio di paradigma che viene imposto dalle auto elettriche. Peraltro le condizioni generali dell’economia-molto migliori delle nostre- hanno fatto sì che i consumi tedeschi sino ad oggi non subissero forti ripercussioni.

 

LE CONTROMOSSE DELLE BANCHE CENTRALI

D’altra parte, proprio perché il timore di una recessione globale è oramai generalizzato, le banche centrali si preparano (tutte) a tornare a immettere stimoli monetari (come il Quantitative Easing o il TLTRO), per cercare di prevenire e contrastare la possibilità di una deriva eccessiva, e questo apparentemente ha ottenuto l’effetto di rassicurare i mercati borsistici, i quali ne risulterebbero beneficiari molto prima che il mondo manifatturiero. Addirittura il Tesoro britannico ha accantonato una liquidità di emergenza del valore di 4 miliardi di sterline, mentre la Banca d’Inghilterra non ha escluso la possibilità di intervenire, nello scenario peggiore -quello del “no deal Brexit- con un taglio dei tassi. L’opinione prevalente è che nel breve termine tali contromisure sortiranno un effetto positivo, soprattutto sul fronte dell’erogazione del credito alle imprese, mentre è meno chiaro cosa possa succedere nell’arco di un anno o più.

LE TEORIE ECONOMICHE NON AIUTANO

In congiunture come quella attuale non c’è allora da stupirsi se -nell’incertezza- tutti gli osservatori corrono a scrutare teorie economiche vecchie e nuove che aiutino a chiarire se sono fondati i timori di essere giunti al termine del ciclo economico espansivo. La crescita economica globale sta soltanto prendendosi una “boccata d’aria” o una nuova tempesta perfetta è in procinto di abbatterla? Come sempre è più probabile che la verità sia nel mezzo, il che però non risulterebbe un granché di buona notizia perché contribuirebbe a rafforzare ugualmente i timori e le perplessità degli operatori economici in procinto di effettuare nuovi investimenti.

Ma rispondere sarebbe più facile se potessimo spiegare perché periodicamente la crescita economica si trasforma nel suo opposto. Quali sono le ragioni determinanti? Questa tendenza alle oscillazioni del pendolo è irrinunciabile oppure si può sperare in una crescita economica prolungata senza preoccuparsene troppo ?

QUATTRO SCUOLE DI PENSIERO

Sono queste le domande cui numerosi economisti hanno tentato di rispondere nell’ultimo secolo, sfornando ipotesi per tutti i gusti di cui vorrei fare soltanto quattro rapidissime citazioni:

  • dalla scuola austriaca che vede nelle manovre delle banche centrali la causa prima del disequilibrio che in prima battuta droga i mercati ma poi porta all’effetto opposto,
  • alla teoria Keynesiana secondo la quale il governo può allentare gli effetti della recessione tagliando le tasse ed aumentando la spesa pubblica.
  • Quest’ultima è contrastata dalla “scuola monetarista” secondo la quale il concetto di ciclo economico è controverso e le sue fasi sono da intendersi piuttosto come fluttuazioni irregolari (per citarne solo alcuni) derivanti dalla maggiore o minore disponibilità di denaro liquido e dalla sua velocità di circolazione.
  • Negli ultimi anni si è poi diffusa la cosiddetta “Modern Monetary Theory”, che vede il governo di ciascuna nazione che possiede sovranità monetaria (non l’Italia, dunque) come un monopolista capace di controllare l’economia con la sua spesa, le sue tasse e il suo debito. In questa logica non importa quale sia il livello del deficit o del debito pubblico, purché l’inflazione sia sotto controllo e si possa raggiungere la piena occupazione. Insomma la negazione della concezione della scuola austriaca.

Morale: sembra proprio che non esista alcuna teoria universalmente valida e condivisa da tutti a proposito dei cicli economici, nè una ricetta che ne derivi consigli utili a prevenire o limitare i danni di una possibile recessione! Se questo è vero è come dire che non ci sono prove che le teorie sul ciclo economico rispondano a verità nè che esistono ragioni universali che ne spieghino l’andamento, e nemmeno una teoria condivisa circa gli arnesi di politica economica da usare di conseguenza.

LE “UNIFORMITÀ RELATIVE” FANNO TREMARE

Eppure se guardiamo al passato, esistono eccome delle “uniformità relative” e degli strumenti per Identificare a quale punto del ciclo economico ci troviamo. Questo perché dopo qualche anno di espansione l’economia di ciascuna nazione è sempre tornata a contrarsi, e questo è ciò che sembra accadere già oggi all’Europa, a prescindere dalle teorie e dalle spiegazioni possibili, così pure ci sono segnali di rallentamento della crescita economica anche in America e ancor più in Cina, esattamente come era avvenuto alla vigilia dei precedenti momenti di inversione del ciclo economico.

Il grafico sottostante (riferito agli U.S.A.) può mostrarci ad esempio che l’andamento della disoccupazione tende a scendere ai minimi poco prima che arrivi una recessione (fascia grigia) per poi risalire bruscamente.


Lo stesso discorso si può fare a proposito dell’indice di fiducia dei consumatori, che si riporta rapidamente in territorio positivo (colore verde) subito dopo la fine di ogni nuova recessione per poi declinare progressivamente mano mano che si prosegue nel corso del ciclo economico espansivo.


Il problema di un tale approccio però è che molte considerazioni valide per ciascuna nazione rischiano di risultare poco valide per il mondo intero, dal momento che le oscillazioni della crescita economica sono quasi sempre sfasate tra una nazione e l’altra.

D’altra parte ciò può essere un bene, dal momento che i veri problemi si manifestano quando tutto il mondo contemporaneamente si avvia verso la recessione, e ciascuna area geografica contagia le altre.

Ci sono peraltro sempre maggiori collegamenti tra i mercati finanziari di tutto il mondo e alcune variabili tendono oramai a oscillare in perfetta sincronia. Si guardi per esempio all’inversione della cosiddetta “curva dei rendimenti”: una tendenza manifestatasi con costanza negli ultimi decenni in tutto il pianeta, alla vigilia di ogni recessione c’è stata infatti una sensibile riduzione (sino all’inversione) delle differenze dei rendimenti finanziari tra il breve e il lungo termine, come è mostrato dal grafico che segue:


Se da un segnale così forte dovessimo dunque dedurne qualcosa in termini predittivi, allora sarebbe piuttosto probabile che il momento attuale esprima la potenzialità dell’arrivo di una nuova recessione, così come è successo quasi sempre in precedenza.

IL DEBITO GLOBALE È FUORI CONTROLLO

Ma il mondo deve anche confrontarsi con una variabile che sembra essere uscita fuori controllo soltanto negli ultimi anni: l’espansione del debito globale. Nel grafico qui sotto ne vediamo le proporzioni: alla fine dell’anno in corso probabilmente conviveremo con un debito complessivo globale che è semplicemente triplicato rispetto a quello del 2003, come mostrato dal grafico che segue:


Una crisi di fiducia prossima ventura insomma trascinerebbe con sè una crisi del debito le cui proporzioni si sono sensibilmente ampliate negli ultimi dieci anni. Difficile ovviamente dedurne delle indicazioni pratiche circa le azioni da intraprendere, tanto a livello pubblico quanto dei propri investimenti privati. E di conseguenza è difficile dedurne delle cautele possibili, ma certamente il contesto macroeconomico in cui ci troviamo sembra premonire -senza precisarne il momento- l’arrivo di una nuova recessione globale e il livello di indebitamento cui si è spinto l’intero pianeta non fa presumere nulla di buono circa la sorte possibile delle attività finanziarie in contesti come quello attuale.

Ma, come appena specificato, nessuno sa quando arriverà quel momento. America e Cina -per motivi politici- concordano fortemente nel cercare soluzioni per prolungare la durata dell’attuale ciclo economico, ma ciò non sarà possibile se il resto del mondo andrà ugualmente sott’acqua (e l’Europa ci è molto vicina).

QUALE DIVERSIFICAZIONE DEGLI INVESTIMENTI ?

Non è un caso che oramai già da qualche tempo gli investitori di tutto il mondo cerchino protezione del valore delle ricchezze amministrate nelle più svariate direzioni della diversificazione degli investimenti, ma in un mondo dove gli andamenti di quasi tutte le attività finanziarie sembrano sempre più fortemente correlati tra di loro, è davvero difficile ottenerla.

Qualcuno dice che quella protezione potrebbe arrivare dal mattone e dalle cosiddette “utilities” (attività economiche di produzione di beni e servizi di pubblica utilità) cioè dagli investimenti anticiclici per eccellenza, qualcun altro dice che tale difesa può trovare attuazione investendo di più sui mercati delle economie emergenti del pianeta (quelle meno colpite oggi dalla speculazione), i quali risentiranno meno di un’eventuale crisi perché hanno meno da perdere e perché la crescita demografica sospinge le loro economie.

Ma la verità è che, sebbene molti dati inizino a parlar chiaro circa la possibilità di una recessione globale, resta molto difficile presagire temporali mentre ancora il sole splende a cielo terso, e che in casi come questo si corre persino il rischio di essere additati per il malaugurio!

Stefano di Tommaso




È IL 2019 L’ANNO PER QUOTARE IN BORSA LE STARTUP TECNOLOGICHE

30Molte Start-Up tecnologiche sono andate in borsa in America nel 2018 (sono state 52 su un totale di 191 imprese che sono approdate a Wall Street) ma il numero di quelle che oggi si stanno preparando allo stesso passo per il 2019 sembra essere addirittura superiore…

 

Il grafico qui accanto riporta il numero totale di imprese che si sono quotate in America per ciascun anno recente.

Tra di loro anche alcuni nomi famosi al grande pubblico, come Spotify,Dropbox, Smartsheet, Sonos o SurveyMonkey, ma in generale si è trattato di realtà non di primo piano, nessuna delle quali con capitalizzazione di borsa da capogiro e molte delle quali dopo pochi mesi di quotazione sono già sugli scudi, con crolli delle loro valutazioni mediamente nell’ordine del 20-30% ad oggi.

TANTI NUOVI MODELLI DI BUSINESS

Ma il 2019 potrebbe essere diverso. Molti “giganti” con modelli di business innovativi sono pronti al fatidico passo di vedere i loro titoli pubblicamente negoziati: dai colossi della cosiddetta “gig-economy” (economia dei “lavoretti”) quali il trasporto di persone o cose da parte di privati che offrono servizi di ”ride hailing” sotto l’insegna di Uber e Lyft, alle piattaforme tecnologiche di prenotazione alberghiera come Airbnb, passando per la sharing economy degli uffici di WeWork, al “data-mining” di Palantir, alle macchine tecnologiche da fitness di Peloton (considerata la Netflix del fitness),

fino alle mille applicazioni della nuova internet quali Zoom (videoconferenze) o piattaforme social come Slack o Pinterest, o altri ancora come Crowdstrike, Cloudflare, eccetera.
In passato molte Startup hanno invece preferito finanziare il loro sviluppo

col denaro “privato” (cioè non emettendo titoli quotati in borsa) del Venture Capital, anche perché è stato relativamente abbondante sino ad oggi, ma soprattutto talune situazioni paradossali come la quotazione in borsa di Snapchat (crocifissi sui titoli della stampa per mesi) hanno gettato un’ombra di terrore sulla quotazione delle Startup, tanto per chi decide di quotarsi quanto per chi deve valutare la convenienza ad investire.

IL RIPENSAMENTO

Ma oggi è in atto un ripensamento, tanto per il fatto che gli investitori hanno ben chiaro che se vorranno ancora trovare il modo di far fruttare il loro denaro con la prospettiva di borse che non cresceranno in media, dovranno concentrarsi nei prossimi anni su quelle categorie business che oggi sono allo stadio di sviluppo iniziale, piuttosto che su quelle tradizionali, quanto perché la notorietà che deriva dalla quotazione in borsa e la liquidità del titolo quotato fanno sempre più gola ai nuovi pionieri del business, i quali intravedono anche il rischio che il venture capital potrà risultare meno disponibile a rifinanziare le loro perdite in anni di recessione come quelli che sembrano prospettarsi.

IL SELL-OFF SEMBRA AVER STIMOLATO LA CORSA A QUOTARSI

Paradossalmente, il “selloff” (la svendita dei titoli quotati in borsa) dell’ultimo trimestre del 2018, invece che instillare prudenza negli imprenditori li ha invece spinti ad accelerare il loro percorso verso la quotazione, nel timore che l’inversione del ciclo economico attuale possa giungere in anticipo rispetto alle aspettative correnti, che lo traguardavano al 2020.

E poi la notorietà di grossi nomi come Uber (valutata oggi oltre 100 miliardi di dollari), Palantir (41 miliardi ), Lyft (15 miliardi ), WeWork (45 miliardi), Airbnb (31 miliardi) o Peloton (4 miliardi), dovrebbe facilitare la quotazione di molte altri titoli “tecnologici“ (che potrebbero trovare nei primi la loro pietra di paragone) a aiutarli a superare l’ostacolo della diffidenza del mercato.

LA STRATEGIA DI UN INTERO PAESE

Dietro tutto questo movimento si può tuttavia individuare chiaramente una tendenza di fondo ma anche la strategia di un intero Paese: l’America resta la maggior fucina mondiale di nuovi modelli di business, di nuove avventure e intraprese e in definitiva di creazione di nuova ricchezza. E senza renderne liquidi e arcinoti i relativi titoli azionari e mettere tutto ciò in vetrina dei listini di Wall Street, il resto del mondo potrebbe anche far finta di non saperlo!

Stefano di Tommaso