CI VORREBBE UN MIRACOLO

I contorni di una recessione diventano sempre più nitidi in tutto l’Occidente, nonostante il fatto che l’Europa debba fronteggiare crisi energetiche senza precedenti e l’America no. La Banca Centrale Europea (BCE) stima una decrescita vicina all’1% del prodotto interno lordo per l’anno in corso nel caso di blocco delle importazioni di gas russo, che però è già una realtà, dal momento che la turbina che manca al North Stream 1 il Canada se la tiene stretta e nessuno preme il pulsante per l’utilizzo del North Stream 2, che anzi i media di tutto il mondo fingono di dimenticare.

 


UN DISASTRO ANNUNCIATO

Dunque si tratta di un disastro annunciato, e forse procurato inutilmente. Si calcola che soltanto in Italia nei prossimi 2 trimestri solari mancheranno all’appello ben 11 milioni di metri cubi di gas, con il rischio quindi che molte industrie si fermeranno e che, nell’ inutile tentativo di prolungarne le scorte, si arrivi a razionarlo, con molte famiglie che evidentemente resteranno in casa col cappotto.

C’è poi l’altra faccia della medaglia, e cioè il caro-bolletta, che porterà ugualmente molte imprese (soprattutto quelle artigiane) a fermarsi oppure ad imporre un forte rincaro. Il centro studi di confindustria ha stimato che la sua incidenza sui costi di produzione sia passata dal 4-5% degli anni precedenti al 9-10% di quest’anno (cioè il doppio) e possa arrivare al 14% nel 2023 (cioè a circa il triplo) se il gas russo continuerà a mancare. E questo con un prezzo di 235 euro quest’anno e 298 nel 2023: se dovesse crescere ancora sarebbe ancora peggio.


I guai però non sono confinati all’Europa cui manca il gas perché l’inflazione continua a incombere e, che abbia raggiunto o meno il suo picco, volteggia ben al di sopra dei tassi d’interesse nominali oggi in vigore (intorno al 9% per entrambe le sponde dell’Atlantico), ragion per cui tanto la Federal Reserve Bank of America (FED) quanto la BCE saranno costrette a continuare ancora a lungo ad alzare i tassi d’interesse, oggi ancora al di sotto del 2%, e saranno puntualmente seguite tanto dalla Banca d’Inghilterra quanto da quelle centrali del Canada e dell’Australia.

ASPETTANDO RI RIALZI DEI TASSI

Addirittura si parla di un incremento che potrebbe oscillare tra i tre quarti di punto percentuale e un punto intero per la FED che si riunirà il prossimo Giovedì, con l’ovvia conseguenza che anche le altre banche centrali seguiranno. Già così infatti il Dollaro continua a mostrare i muscoli sfondando tetti che non vedeva da vent’anni e più, figuriamoci se le altre banche centrali non dovessero alzare i tassi anche loro. Ovviamente il caro-gas si riflette in un petrolio più caro, e non soltanto per coloro che devono pagarlo in Dollari ma addirittura anche indipendentemente, visto che c’è il bando delle importazioni anche sul petrolio, se proviene dalla Russia (che però annovera una porzione consistente delle forniture mondiali di greggio). In pratica, scarseggiando anche questo, non è improbabile che le sue quotazioni (già risalite oltre i 90 dollari per barile) superino con l’arrivo dell’autunno di nuovo quota 100.


In pratica in tutta Europa si stima che la frenata indotta da costi e scarsità dell’energia nel prodotto interno lordo arrivi al 3% tra il 2022 e il 2023 con la perdita di ben oltre 1/2 milione di posti di lavoro. E sempre che il resto del mondo non si avviti di nuovo in una recessione feroce, perché sino ad oggi l’export continentale ha mostrato una decisa resilienza, la quale invece verrebbe meno nello scenario peggiore. Per l’America, il Regno Unito, il Canada, l’Australia e i paesi scandinavi la minaccia è meno feroce che per l’Europa continentale, dal momento che sono tutti estrattori in proprio di gas e petrolio e che quindi quantomeno le loro fabbriche più difficilmente si fermeranno. Come si può ben leggere nel grafico qui riportato, il peso dell’energia sul totale del prodotto interno lordo è cresciuto ben di più in Europa che in America.


VALE LA PENA DI INTESTARDIRSI?

  • Fin qui i fatti e i numeri, che risultano immancabilmente testardi anche quando si volesse provare a scompigliarli visto che quasi tutto l’occidente risulta in campagna elettorale. Anzi, questa coincidenza appare terribile, a ben guardarla, perché è la garanzia più forte del fatto che gli attuali governi faranno nel frattempo ben poco per contrastare l’orrenda deriva appena descritta, in attesa di essere sostituiti da quelli in arrivo.

E alla luce di questi fatti ben si comprende la gogna mediatica cui è stato sottoposto negli ultimi giorni il governo ungherese, reo di aver deciso che il carovita dei propri cittadini viene prima delle strategie di pressione internazionali sulla Russia. E scrivo di gogna mediatica perché, a quanto risulta, all’atto pratico la Commissione Europea ha partorito soltanto minacce nei confronti di Victor Orban e dei suoi ministri, che però il gas continuano a riceverlo a buon mercato dalla Russia. Mentre al resto d’Europa gli Stati Uniti (che il gas lo esportano con le navi in grande quantità) hanno fatto sapere che non interverranno con un maggior quantitativo di forniture. Dunque risulta anche piuttosto teorico il dibattito sui nuovi rigassificatori in Italia, dal momento che al momento rimarrebbero parzialmente inutilizzati.

Per non parlare delle politiche di transizione energetiche, delle quali -appunto- non parla proprio più nessuno in questo momento, dopo i grandi sbandieramenti cui abbiamo assistito fino a tutto il 2021. L’incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili è sicuramente in corso, ma i suoi tempi non sono compatibili con il taglio repentino degli approvvigionamenti delle materie prime energetiche cui stiamo assistendo, ragione per cui il resto d’Europa continua a tenere accese le centrali nucleari e torna a bruciare il carbon fossile in grande quantità. In questa situazione chi rischia di pagare più salato il conto delle strategie geopolitiche messe in atto a livello atlantico è sicuramente il polo produttivo italiano della pianura padana e del circostante arco alpino, dove le temperature sono più rigide in inverno e dove si concentra la maggior parte delle produzioni industriali energivore.


CI VORREBBE UN MIRACOLO

Ci vorrebbe dunque un miracolo perché l’economia europea (e in particolare quella italiana) non prenda una nuova e più potente sbandata che la induca a subire ulteriori arretramenti nella classifica internazionale dei paesi più industrializzati. Qualcuno ha fatto notare che, in previsione di tutto ciò, è per questo motivo che le elezioni politiche sono state indotte così in fretta. Perché gli attuali governanti non debbano rispondere dei danni all’economia che si manifesteranno in autunno come conseguenza dell’aver accettato supinamente ogni richiesta atlantica, ivi compresi i 12-13 miliardi di euro di debito aggiuntivo per fornire nuove armi al governo di Zelenski.

La nostra borsa però non è destinata a riflettere il dramma che l’economia reale si accinge a subìre nei prossimi mesi. Innanzitutto perché i rialzi dei tassi d’interesse fanno bene ai conti delle banche, il cui peso sul totale del listino italiano non è affatto basso. E poi perché ha già forse subìto più delle altre borse internazionali il problema del caro-energia mentre il numero delle società quotate continua a diminuire per effetto delle migrazioni delle grandi imprese verso le borse più importanti del pianeta. Dunque a parità di domanda mancherà l’offerta.

Per cui è probabile che Piazza Affari si ridimensioni sì ancora un po’ ma non crolli affatto. Casomai il problema dei mercati finanziari al di quà delle alpi sarà quello dell’eccesso di debito pubblico pubblico, che con il rialzo dei tassi tornerà di grande attualità, e condizionerà non poco gli eventuali provvedimenti che il nuovo governo potrà adottare per stimolare la ripresa. Una situazione che non potrà non condizionare il risiko delle compravendite bancarie, desertificando ulteriormente il panorama delle alternative a disposizione delle piccole imprese per reperire credito. E spingendole ancora una volta a chiudere o ad aggregarsi oppure a reperire capitali di rischio.

MA QUEL MIRACOLO, FORSE, STA ARRIVANDO

Ma quel miracolo forse sta arrivando. Ci sono tuttavia dei segnali di distensione tra gli speculatori sui prezzi a termine (i “futures”) del gas i quali potrebbero indicare un’anticipazione di ciò che Russia e Cina potrebbero aver concordato nel vertice di Samarcanda: la riapertura del gasdotto North Stream 1 da parte della Russia. I motivi, politici, strategici o altro non è dato di conoscerli dal momento che non è nemmeno sicuro che succederà, ma il segnale fa il paio con la proposta di Putin di riaprire i negoziati di pace per l’Ucraina, segnale di fatto snobbata tanto da Zelenski quanto dai media nostrani ma che, se portato avanti con insistenza, non potrebbe essere ignorato. Se la Russia mostrasse infatti una forte volontà di ridurre la tensione in corso è piuttosto probabile che lo potrebbe fare accompagnando la strategia diplomatica con un gesto di “amicizia” verso l’Europa, e in particolare verso la Germania, che ha indubbiamente subìto il diktat americano e che rischia di stracciare il proprio tessuto manifatturiero.

Ora è evidente che, qualora la Russia mostrasse di voler fare sul serio, non solo non ci sarebbero i famigerati razionamenti, ma i prezzi dell’energia scenderebbero decisamente così pure come il cambio del Dollaro, che ha sino ad oggi indubbiamente beneficiato dei rischi di guerra. E chi ci guadagnerebbe di più potrebbe essere l’Europa, dal momento che è quella che ha più da perdere nello scenario opposto. Una mossa che indubbiamente scompiglierebbe gli alleati occidentali, alle prese con un’America che vuole vincere sempre e a prescindere e un’Europa continentale che, in preda alla crisi che sta arrivando, rischierebbe soltanto di accelerare le sue divisioni!

Stefano di Tommaso




SE MANCA IL GAS ALL’EUROPA

LA COMPAGNIA HOLDING
Lunedi 11 Luglio 2022 potrebbe essere ricordato nella storia come il giorno in cui le forniture di gas dalla Russia si arrestarono quasi del tutto per l’Europa occidentale. E’ previsto infatti dall’11 al 21 Luglio il fermo tecnico del gasdotto North Stream, che attraversa il mar baltico per finire sulle coste della Germania. Si tratta in realtà del primo di due gasdotti con il medesimo nome e il medesimo percorso (North Stream 1 e 2) ma il secondo, da tempo pronto all’uso, non è mai stato utilizzato per pressioni americane. Molti analisti concordano sul fatto che, probabilmente, non riaprirà mai più, a causa delle tensioni geopolitiche in corso.

 

L’INCIDENTE DIPLOMATICO

La Germania già doveva fare i conti con una riduzione di circa il 40% del gas in arrivo tramite il North Stream 1. Ora per 10 giorni il gasdotto si fermerà del tutto. Secondo Mosca, questo è dovuto a problemi tecnici: Gazprom spiega che il gasdotto funziona al 60% per la mancanza di una gigantesca turbina della Siemens fabbricata però in Canada, che però in base al regime delle sanzioni in vigore non può essere inviata in Russia. Ora il Canada ha finalmente sbloccato l’invio della turbina, ma toccherebbe alla Germania infrangere le sanzioni alla Russia. Dal canto suo quest’ultima potrebbe approfittarne per segnalare l’evidenza che le sanzioni colpiscono innanzitutto chi le ordina. E potrebbe decidere di non riceverla nei suoi porti.

L’EUROPA È QUELLA CHE CI RIMETTE DI PIÙ

Se il flusso del gas russo dovesse interrompersi però, l’industria tedesca (e non soltanto quella tedesca) potrebbe essere messa a dura prova, a corto di energia e senza valide alternative. L’evento è tutt’altro che certo, ma il solo rischio che possa accadere è fortemente esemplificativo della situazione che L’Europa sta vivendo in questi mesi, cioè da quando è partita la guerra in Ucraina: è senza dubbio l’area economica che ci sta rimettendo di più dallo scorso Febbraio, quando al termine di un crescendo di bombardamenti e pressioni di ogni genere del governo centrale di Kiev nei confronti delle due repubbliche separatiste de nord-est, ucraine ma filo-russe, l’esercito di Mosca si è deciso ad intervenire militarmente per disarmare il paese ed impedire il suo ingresso nella NATO, cosa che gli avrebbe impedito di farlo in futuro.

Non rientra nell’oggetto di questo articolo comprendere chi possa aver ragione e chi torno (sappiamo che i nostri media sono tutti pesantemente schierati sulla narrativa anglo-americana della vicenda) bensì è importante il fatto che, da quel momento, l’economia europea è stata sottoposta ad una serie di eventi che ne hanno limitato la prosperità e che rischiano oggi di metterla del tutto in ginocchio. La Germania peraltro può ancora decidere di non fermare le proprie centrali elettriche basate sul nucleare, il cui stop è programmato per il 2023, e sta riaprendo le proprie centrali elettriche a carbone. La Francia può decidere di incrementare la produzione elettrica da energia nucleare. E’ casomai l’Italia quella che può attivare ben poche opzioni strategiche.

IL RISCHIO CHE CROLLI L’INDUSTRIA TEDESCA

Tuttavia il solo rischio che l’arrivo del gas russo si interrompa sta provocando una serie di problemi all’economia tedesca. Problemi che evidentemente rischiano di ripercuotersi in tutti gli altri paesi dell’Unione. Il gigante tedesco del gas Uniper -ad esempio- ha chiesto al governo un salvataggio pubblico acquisendo una partecipazione azionaria «rilevante». Ha anche chiesto un ulteriore finanziamento del debito attraverso un aumento della linea di credito garantita dallo Stato: si stima che la compagnia, controllata dal gruppo finlandese Fortum, potrebbe aver bisogno di circa 9 miliardi di euro, più del doppio del suo valore di mercato. Uniper ha dovuto comprare gas sui mercati spot a prezzi molto elevati pur in presenza di prezzi di vendita “rigidi”, il che ha messo a dura prova le sue finanze. Il capo di Uniper ha anche preannunciato un «enorme aumento delle bollette del gas il prossimo anno» a carico di imprenditori e consumatori tedeschi.

L’azienda energetica tedesca rischia perdite fino a 10 miliardi di euro quest’anno. Il governo ha approvato una legge per l’acquisizione di partecipazioni in aziende energetiche in crisi. Il ministro dell’Economia Habeck ha messo in guardia circa la possibilità che il fallimento delle imprese energetiche possa comportare fallimenti a catena, con un meccanismo simile a quello di Lehman Brothers sulle altre banche. Non soltanto: con il rialzo oltre misura dei prezzi dell’energia, alcune città tedesche stanno già organizzando spazi pubblici riscaldati per il prossimo inverno, in maniera da poter ospitare gratuitamente quanti, all’arrivo della stagione fredda, non potranno permettersi di pagare le bollette rincarate dall’aumento del costo del gas. Il fatto che altri paesi europei, meno previdenti, non ne stiano ancora parlando, non significa che il rischio di un inverno “freddo” non sia reale.

LA COMPAGNIA HOLDING
Il conflitto in corso sta dunque aggiungendo molta tensione sui prezzi dell’energia, cosa che non soltanto significa dover rialzare il prezzo di moltissimi altri beni, ma anche e soprattutto il rischio di dover riconvertire buona parte dell’apparato industriale della Germania, oggi ancora basato sull’utilizzo intensivo di carburanti fossili. Tagliare le forniture di gas e petrolio russo sulle quali ha sempre contato, comporterebbe una carenza di gas in Germania tra 23,8 TWh (terawattora) e 160 TWh. Alcuni istituti di ricerca economica hanno stimato che la riduzione della produzione industriale ad alta intensità di consumo di energia si tradurrebbe in una perdita di valore aggiunto tra i 46 e i 283 miliardi di euro per le industrie tedesche, cioè tra il 2% ed il 9% circa del totale della produzione industriale del 2021. Questo rischio ha tra l’altro determinato la necessità -da parte dei governi- di innalzare al massimo possibile il livello delle scorte strategiche e di limitarne i consumi privati, nella prospettiva che quelle forniture possano presto terminare.

IL GAS NON È LA SOLA ARMA DELLA RUSSIA

Oggi quel momento sembra essere arrivato, anche se non è detto che la Russia deciderà di procedere con la sospensione immediata delle forniture di gas, perché -contro le sanzioni che le sono state comminate da America e Unione Europea- potrebbe avere un più sofisticato potere dissuasivo, attraverso la riduzione delle esportazioni di petrolio. Qualora infatti Mosca decidesse di procedere in tal direzione il prezzo dell’oro nero sarebbe inevitabilmente destinato a crescere parecchio, dal momento che già oggi la sua domanda supera l’offerta e l’attuale equilibrio tra l’una e l’altra è -per il momento- garantito dall’aver portato al massimo l’estrazione da parte dei paesi del golfo arabico.

Ma ora siamo in piena estate e impatterebbe di meno. Il problema potrebbe invece aggravarsi con il sopraggiungere della stagione fredda e l’inevitabile maggior costo del petrolio potrebbe mettere in ginocchio l’intera industria occidentale, provocando di fatto una recessione. Il rimpiazzo di quelle minori forniture di petrolio non è impossibile, ma non potrebbe essere immediato, e comporterebbe ingenti investimenti da parte dei grandi produttori, con un’attesa di almeno sei mesi fino al momento in cui potesse essere installata nuova capacità produttiva.

L’ECONOMIA OCCIDENTALE A UN BIVIO

Il problema è che la crescita economica dei paesi occidentali è attualmente ad un bivio, tra la prosecuzione dell’attuale ciclo post-covid (di ripresa) e una possibile nuova pesante recessione, potenzialmente peggiore di quella scatenata dalla pandemia. Le banche centrali (prima fra tutte la Federal Reserve) tra l’altro hanno agito da cassa di risonanza per la situazione, riducendo la liquidità disponibile sul mercato finanziario e innalzando il costo del denaro. In particolare ha agito prima e più di tutte le altre quella americana, cosa che ha di conseguenza artificialmente innalzato il cambio del Dollaro.

Di conseguenza molti investimenti, pubblici e privati, oggi vengono rinviati a data da destinarsi, soprattutto nei paesi emergenti dove il caro-Dollaro e il rialzo dei tassi di interesse stanno colpendo più duramente. Chi ci rimette di più in questa situazione sono soprattutto le esportazioni dell’industria tedesca, e insieme a quest’ultima anche buona parte di quella europea, che molto spesso agisce in regime di sub-fornitura di quella teutonica.

Se infatti per l’industria italiana l’aver dovuto rinunciare alle esportazioni verso la Federazione Russa è stato un colpo duro, ma limitato a taluni comparti e tutto sommato “gestibile”, cosa diversa sarebbe dover rinunciare ad una quota consistente delle esportazioni verso la Germania qualora le grandi imprese tedesche dovessero ridurre i loro ritmi produttivi, e tra l’altro l’effetto -più grave- si sommerebbe a quello già registrato, mettendo in ginocchio molti distretti industriali del Bel Paese e contribuendo a far dilagare una recessione economica che -oramai- appare quasi certa anche per i prossimi due trimestri dell’anno in corso.

E ORA ARRIVA L’AUTUNNO “CALDO”

Tra l’altro l’Europa non ha ancora affrontato, a causa della rigidità del mercato del lavoro rispetto all’economia americana, il problema della perdita di potere d’acquisto dei salari e stipendi delle classi sociali più basse, cosa che invece nei paesi anglofoni, con un mercato del lavoro molto più vivace, non p stato un problema, dal momento che si è riallineato verso l’alto quasi automaticamente. Nei paesi invece dove vige la contrattazione collettiva e dove il mercato del lavoro subisce molte più rigidità (con situazioni non non proprio identiche parliamo in particolare di Italia, Spagna, Francia e Germania), al momento i salari sono rimasti quelli di prima dei rincari a raffica, con una significativa perdita del potere d’acquisto da parte delle famiglie appartenenti ai ceti più bassi.

Il rischio di forti tensioni sociali e altrettanto aspre rivendicazioni salariali è dunque evidente. Non è probabile che esso vada in testa alle priorità politiche e sindacali durante la pausa ferragostana, ma è molto concreto il rischio che si sviluppino vivacemente subito dopo, alla ripresa autunnale, contribuendo a far si che la recessione si “avviti” e che l’inflazione giunga ad auto-alimentarsi, esattamente come era già successo negli anni ‘70. L’autunno sembra proprio prefigurare una “tempesta perfetta” sull’economia dell’Eurozona, e i governi europei sembrano assai poco in grado di prevenirla!

Stefano di Tommaso