LE FUSIONI E ACQUISIZIONI CRESCERANNO ANCHE NEL 2022

LA COMPAGNIA HOLDING
Prima della guerra in Ucraina si prevedeva per quest’anno un boom di aggregazioni d’aziende, tanto per merito della liquidità in circolazione, quanto per la necessità di creare maggiori dimensioni aziendali, ottimali per la globalizzazione roboante che era in corso. Ma il panorama è profondamente cambiato nel giro di poche settimane: la globalizzazione è oggi sotto la scure di una possibile divaricazione (politico, ma anche economico) tra l’Occidente e l’Oriente del mondo. La liquidità sembra infine decisamente calata, così come è scesa la disponibilità di credito per le acquisizioni. L’M&A crollerà ?

 

LA COMPAGNIA HOLDING
PIÙ RESHORING INDUSTRIALE

E’ presto per dirlo, e rischia di essere anche inesatto, perché altri fattori stanno progressiva-mente entrando in gioco: innanzitutto cambieranno le filiere di alimentazione di materie prime, semilavorati e componentistica terziarizzata, per le nostre industrie. E molti fornitori dell’estremo oriente punteranno a joint-ventures produttive in Europa o nelle Americhe, anche per scongiurare gli effetti devastanti del forte rincaro dei trasporti e avvicinare le produzioni o gli assemblaggi ai mercati di sbocco delle merci (il cosiddetto “reshoring”).

Così come i fornitori delle nostre industrie basati nel sud est asiatico probabilmente saranno affiancati nel tempo da altri produttori, meglio localizzati rispetto ai mercati di sbocco. Ma anche le organizzazioni commerciali e distributive cambieranno: la logistica sarà più pervasiva e meglio presidiata che in passato, come pure in tutto il mondo probabilmente le strutture estere di vendita tenderanno ad essere progressivamente soppiantate da avamposti organizzati anche per lo stoccaggio, l’assemblaggio, il controllo qualità, l’assistenza e il dialogo con la clientela.

Dunque -anche grazie alla progressiva digitalizzazione- le attività industriali che potranno permetterselo saranno sempre più “multi-localizzate”. E le principali multinazionali del mondo sono oggi americane. Ecco forse spiegato il grafico qui sotto riportato:

LA COMPAGNIA HOLDING
Per non parlare delle tecnologie: le grandi ricadute tecnologiche delle scoperte scientifiche e della progressiva digitalizzazione del mondo intero continueranno a favorire accordi industriali, scambi e soprattutto acquisizioni di aziende, dettate dalla necessità di portare in casa gli adeguamenti tecnologici. La ventata di operazioni “technology-driven” riguarderà innanzitutto, com’è ovvio, i settori più maturi, dove cioè l’impatto delle nuove tecnologie deve ancora dispiegarsi appieno. Ma in generale c’è forse oggi più bisogno di tecnologie di quanto ce ne fosse in passato.

SEMPRE PIÙ DIGITALIZZAZIONE

Molte attività tradizionali che ancora residuano dalla precedente era industriale verranno progressivamente stravolte, ottimizzate e semi-standardizzate, soprattutto nella componente “retail”, cioè nell’ultimo miglio verso la clientela finale, dove il dialogo sarà sempre più digitalizzato, onde ottimizzarne i costi.

Sul fronte retail ad esempio è indubbiamente avanzata ma non ancora completata la rivoluzione relativa i sistemi di pagamento, sempre più basati su una “identità digitale” e sempre meno dipendenti dalle carte di credito e debito. Anche la gestione del tempo libero, del leisure, dello sport, del turismo e della ristorazione sarà sempre più dipendente da sistemi digitali di filiera che riescano ad ottimizzare i costi e fornire servizi in tempo reale.

Una grossa parte dello sforzo tecnologico sarà poi rivolto alla necessità di proseguire anche con la transizione ecologica. Gli investitori di tutto il mondo hanno chiaramente espresso preferenze per chi riesce a ottimizzare i consumi energetici, a riciclare materiali e energie di risulta, a innovare nella produzione di energie da fonti rinnovabili. Anche perché prima la pandemia, poi la guerra ci hanno chiarito una tendenza di fondo che -a differenza di quanto poteva apparire in passato- oggi sembra unidirezionale: il mondo è sempre più affamato di energie e la loro produzione “sporca” (e dunque a buon mercato) è sempre meno accettabile per la sostenibilità del pianeta. Dunque è probabile che la transizione sarà dolorosa, a prezzi crescenti e con la necessità di investimenti esponenziali. Svantaggi talvolta aggirabili attraverso l’esecuzione di fusioni e acquisizioni.

L’ENERGIA RESTERÀ CARA

E dove ci sono grossi investimenti in ballo, sono più frequenti e più necessarie le operazioni di aggregazione di aziende. E chi non riuscirà a sostenere quegli investimenti dovrà fronteggiare l’alternativa di fallire o reperire maggiori capitali. Ci saranno perciò più fallimenti e più quotazioni in borsa, perché le risorse per le infrastrutture oramai arrivano sempre meno dai governi e dalle comunità locali. Dunque le imprese che vorranno risultare appetibili per i grandi gestori di patrimoni dovranno necessariamente trovare capitali per svecchiarsi, crescere, innovare e accettare una sempre maggiore attenzione all’efficienza nei costi, anche energetici. In passato ciò valeva per le produzioni di base, e non valeva per il lusso e la qualità. Oggi valgono per chiunque. Ecco perché ci saranno ancora tante operazioni di finanza straordinaria, e prime fra tutte : altre fusioni e acquisizioni.

Gli effetti pratici delle politiche ESG degli investitori, delle problematiche ambientali e la transizione energetica, della necessità geopolitica del “reshoring” (ritorno a casa) di molte produzioni, nonchè dell’impatto delle nuove tecnologie, condizionano fortemente le scelte industriali e non potranno che stimolare altre fusioni e acquisizioni tra aziende.

Dunque c’è da attendersi che nonostante la guerra, con i costi abnormi dell’energia, e nonostante ancora grandi limitazioni agli spostamenti e agli scambi commerciali, persino di questi tempi le fusioni e acquisizioni continueranno a correre, seppure con qualche scontato rallentamento di ordine temporale!

PRIVATE EQUITY & VENTURE CAPITAL

Ci sono poi altri due fattori esogeni che dovrebbero sospingere le aggregazioni di imprese: gli investimenti dei grandi operatori di private equity e venture capital.

  • Il Private Equity è indubbiamente un fattore “push”: se agli imprenditori arriva un’offerta interessante da investitori professionali, essi difficilmente riusciranno a dire di no. E oggi il private equity ha accumulato sempre più “polvere da sparo” (denaro contante raccolto dai propri sottoscrittori) per riuscire a mettere a segno le proprie incursioni. E una volta acquisita la prima azienda di ciascuna filiera occorre moltiplicare gli sforzi per consentirle di creare valore, di aumentarne le dimensioni e di fare leva su ogni possibile margine aggiuntivo: tutte cose che normalmente si traducono in un maggior numero di fusioni e acquisizioni tra imprese dove ha investito il private equity rispetto al caso-base in cui le medesime imprese restino nelle mani dei fondatori;
  • Il Venture Capital è invece più probabilmente un fattore “pull”. Cioè si sviluppa per “risucchio”, rispetto al private equity, che avanza per propria spinta. Gli investitori di venture capital vengono cioè normalmente sollecitati da miriadi di imprenditori in erba, da advisor e da tecnologi di ogni sorta. I quali sperano di essere selezionati tra i mille altri contendenti nella sfida per aggiudicarsi il denaro e le attenzioni degli ”investitori di ventura”. Questo perché nella maggior parte dei casi le innovazioni di ogni genere hanno bisogno di essere ampiamente sovvenzionate da capitali di rischio. Anche il venture capitalist però, una volta definita una certa strategia e partito ad investire in una determinata impresa (o startup), subito dopo si chiede se potrà generare valore aggregandola ad altre simili, ovvero se occorre moltiplicare gli sforzi tecnologici, quelli gestionali o quelli distributivi. E anche in questi casi si generano numerose ipotesi di fusioni e acquisizioni.

Dunque lo sviluppo di queste tipologie di intervento finanziario contribuisce non poco a sviluppare nel mondo le aggregazioni d’impresa, che ci siano o meno conflitti armati. Anzi: in casi di grandi sconvolgimenti epocali come la pandemia prima (con la necessità di sviluppare nuovi farmaci e nuovi presidi sanitari) e la guerra dopo (con la necessità di individuare fonti di risparmio energetico o nuova disponibilità di energie), crescono inevitabilmente anche le esigenze di accelerare sul fronte delle fusioni e acquisizioni.

ELEMENTI A FAVORE E CONTRO LE FUSIONI E ACQUISIZIONI

Lo scenario che si prospetta perciò è caratterizzato da tre generi di spinte:

  • da un lato con la guerra sono intervenuti più timori, minori margini operativi, il rallentamento delle attività produttive, la scarsità delle filiere di approvvigionamento, minor generazione di cassa, minor disponibilità di credito e più bassa valutazione delle imprese. Tutti fattori che tendono a frenare le fusioni e acquisizioni;
  • dall’altro lato le “multi-localizzazioni”produttive, le tecnologie, le esigenze di sostenibilità ambientale e il maggior costo delle energie, spingono in senso opposto: cioè in direzione dello sviluppo di ulteriori attività di fusioni e acquisizioni;
  • infine gli investitori seriali (tanto quelli del private equity quanto quelli del venture capital) man mano che ampliano il loro raggio d’azione, generano anche crescenti esigenze di aggregazioni di aziende, oltre a contribuire a far nascere nuove imprese come pure a farne crescere velocemente la dimensione. E se c’è un maggior numero di aziende attive, o se le medesime sono mediamente più capitalizzate, allora c’è anche, probabilmente, un maggior flusso di fusioni e acquisizioni.

Come si può facilmente dedurre, le spinte all’incremento delle fusioni e acquisizioni sono probabilmente maggiori di quelle che frenano tali attività. Ragione per cui ciò che potrà succedere sarà al massimo un rallentamento delle attività in corso, anche in attesa di conoscere gli esiti della situazione attuale. Situazione oggettivamente non facile, e e non di immediata risoluzione.

LA RIPRESA DELLE BORSE POTREBBE AIUTARE

Nel giro di qualche settimana tuttavia, a meno di una escalation militare oggi di difficile prevedibilità, la situazione del conflitto potrebbe chiarirsi. E il prezzo delle materie prime, come si è iniziato già a vedere, potrebbe ritracciare rispetto ai picchi dei giorni scorsi.

È relativamente probabile perciò che le imprese di ogni parte del mondo continueranno a vagliare, negoziare e concludere nuove importanti operazioni. Probabilmente quest’anno con più cautela e per dimensioni inferiori a quelle viste in precedenza, ma comunque non irrilevanti. Anche le borse potrebbero sospingere non poco le fusioni e acquisizioni, poiché ci si aspetta -seppur con alterne vicende- una qualche prosecuzione dei primi rimbalzi già osservati. E se i moltiplicatori di borsa (e dunque le valutazioni) dovessero riprendersi -soprattutto nelle tecnologie- ecco allora che anche le probabilità di concludere nuove aggregazioni aziendali potrebbero trarne beneficio.

Stefano di Tommaso




IL PRIVATE EQUITY PAGA PIÙ CARO

La Compagnia
Il Private Equity paga di più in tutto il resto del mondo. Succederà anche da noi? L’auspicio nasce dalla considerazione -generalmente valida- che ciò che succede altrove nel mondo prima o poi accade anche a casa nostra. Ebbene: le grandi case di investimento di capitali privati negli ultimi mesi hanno alzato la posta in gioco pur di aggiudicarsi il controllo delle società quotate e investire la grande liquidità di cui dispongono. E probabilmente ciò risponde tanto alla logica del mercato finanziario quanto all’esigenza di un cambio di passo perché il Private Equity e il Venture Capital crescano anche in Italia come hanno già fatto nei paesi più sviluppati.

 

Su questo tema un recente articolo del Financial Times parla molto chiaro (qui sotto il grafico pubblicato insieme all’articolo dove si fa notare che in media (tanto per l’Europa quanto per l’America) il prezzo offerto in operazioni di buy-out per le società quotate è intorno al 45% più alto rispetto alla media delle quotazioni dell’ultimo mese.

La Compagnia
UNA FORTE CAPACITÀ DI GENERARE VALORE

Il fenomeno è vistoso perché rivela innanzitutto una forte capacità di generare valore da parte dei gestori dei fondi di private equity (p.e.) rispetto a quella del management delle imprese-obiettivo, e anche rispetto alla capacità di intervenire nella governance delle società quotate da parte degli investitori istituzionali che normalmente investono. Il rischio evidente che emerge dal forte premio che spesso viene pagato è quello di una bolla speculativa, derivante dalla necessità per il p.e. di investire i capitali ottenuti in gestione e dunque dalla propensione a pagare di più.

Ovviamente si potrebbe obiettare che tali proposte (quelle di buy-out) vengono rivolte alle imprese quotate laddove c’è un’occasione da cogliere, un prezzo troppo basso espresso dal mercato azionario che non rispecchia i fondamentali dell’impresa, un’arbitraggio da effettuare. Il p.e. normalmente acquisisce imprese non quotate oppure le “de-lista” dopo l’acquisizione, perché solo in tal modo può aver le mani libere per creare valore o riscoprire qualità nascoste delle imprese.

LE VALUTAZIONI TORNANO A MOLTIPLICATORI CRESCENTI

E a ragione, ma certo negli ultimi anni i prezzi riconosciuti dal p.e. per acquisire la maggioranza delle imprese-obiettivo è risultato man mano crescente, e non soltanto a causa del fatto che la liquidità a disposizione del private equity continua ad aumentare ma anche perché i tassi d’interesse scendono e dunque salgono più che corrispondentemente le valutazioni aziendali.

La Compagnia
A metà Luglio 2021 si è registrato un record di operazioni di fusioni e acquisizioni: 826 secondo l’osservatorio della SDA Bocconi, di cui 268 condotte da fondi di p.e., contro un totale del 2020 di 1025 con 274 condotte dal p.e. Anche i prezzi pagati sembrano in crescita con un valore mediano (il più numeroso) pari a 7.5 volte il margine operativo lordo (ebitda) per il totale delle operazioni osservate, ma il p.e. sembra aver pagato in media 9 volte l’ebitda, dunque significativamente di più. Gli investimenti del p.e. in Italia nel primo semestre del 221 si concentrano in due fasce di valora d’azienda (enterprise value): quella tra i 25 e i 50 milioni dove si sono rivolti capitali per il 20% del totale, e quelle tra i 50 e i 100 milioni, per le quali si sono effettuate operazioni nel 19% dei casi.

È da considerare normale questo maggior valore? Probabilmente si: quando il p.e. investe crea numerosi condizionamenti nel management e nella governance della società (o per gli azionisti originari, che spesso rimangono in quota) : la leva finanziaria cui sono sottoposte le imprese acquisite, la necessità di accelerare e fare acquisizioni per creare valore, la necessità di pianificare il disinvestimento e dunque spesso la cessione integrale dell’azienda acquisita. Tutto questo ha inevitabilmente un prezzo.

Ma c’è anche un’altra ragione: il p.e. ha messo oramai a punto una serie di metodologie per generare nuovo valore nelle imprese acquisite che permette di proiettare il valore pagato in acquisizione come parte del valore totale che ritiene di poter generare dalle imprese-obiettivo. Dunque il riferimento che gioca l’investimento dei p.e. sembra essere più il valore-obiettivo che ritiene possibile generare a 4-5 anni data, che non quello di mercato al momento dell’acquisizione. Talvolta questi due valori possono divergere sensibilmente.

E C’È SPAZIO PERCHÉ LE VALUTAZIONI CRESCANO ANCORA

Lo sconto rispetto al valore-obiettivo costituisce la plusvalenza teorica del p.e., vale a dire il rendimento del capitale investito. Ma anche quest’ultimo inizia a ragionare su valori più limitati quando il panorama dei tassi d’interesse scende ai livelli attuali! Se i tassi d’interesse privi di rischio erano in passato intorno al 3-4% e il p.e. si poneva un rendimento-obiettivo del capitale di rischio del 20-25% annuo nei 4-5 anni (cioè più del raddoppio in totale), oggi che i tassi d’interesse sono scesi all’1% in media nel mondo, anche il rendimento-obiettivo dovrebbe corrispondentemente ridursi.

Difficile dire di quanto, ma certo gli investitori che scelgono di allocare parte dei loro capitali in un fondo di private equity possono ugualmente dirsi più che soddisfatti se il premio per l’illiquidità e il rischio restano ugualmente 8-10 volte superiori al rendimento privo di rischio, anche se questo significa ottenere un rendimento del capitale investito decisamente inferiore agli obiettivi del passato. Soprattutto i privati, che stanno progressivamente incrementando questa asset class e che in passato hanno sempre avuto alternative inferiori a quelle a disposizione degli investitori istituzionali.

Di seguito un grafico che indica la crescente liquidità disponibile (dry powder) del Private Equity in Europa:

La Compagnia
Dunque per per il p.e. non soltanto si pone la possibilità teorica di pagare di più di quanto è disposto a riconoscere il resto del mercato per le aziende-obiettivo, in funzione delle attese di creazione di valore, ma ciò è anche giustificato sia perché talvolta serve la leva del prezzo per potersi aggiudicare un affare, sia per il fatto che può oggi far felici i propri investitori con una plusvalenza teoricamente inferiore a quella che necessitava in passato.

Quello che segue è un grafico relativo all’andamento del CAMBRIDGE ASSOCIATES PRIVATE EQUITY INDEX, che indica il tasso interno di rendimento del capitale basato su dati trimestrali forniti da quasi 2.300 fondi di private equity (buyout e growth) tra il 2000 e il 2020. Il paragone è con lo STANDARD&POOR TOTAL RETURN INDEX:

La Compagnia
SOPRATTUTTO IN ITALIA

D’altronde nel nostro Paese il p.e. deve ancora svilupparsi davvero. Per fare qualche paragone: secondo l’Aifi – l’associazione che raduna i principali operatori di venture capital e di private equity – i soggetti economici nostrani che stanno dietro a tutti i fondi basati in Italia sono soltanto una trentina, contro i 150 della Gran Bretagna, i 110 della Francia e i 160 della Germania (molti dei quali operano anche stabilmente in Italia).

E tra il 2016 e il 2020, nel nostro Paese l’ammontare complessivamente investito da questi investitori è stato soltanto di 1,2 miliardi di euro, a fronte di 6,4 miliardi nel Regno Unito, 8,3 miliardi in Francia e 8 miliardi in Germania. Nel 2021 dovrebbe finalmente essere superato il miliardo di euro di investimenti in venture capital. La storia è, dunque, ancora tutta da scrivere.

La nostra vera rivoluzione industriale probabilmente è ancora da scrivere. Gli investitori di venture capital così come di private equity possono oggettivamente essere protagonisti tanto di una nuova stagione di start-up innovative quanto del cambiamento di paradigma delle vecchie imprese familiari italiane. E per finanziare le vere innovazioni scongiurando il pericolo che corrano all’estero appena vedono che ce la possono fare o per convincere chi deve cedere l’impresa che la famiglia controlla da due generazioni, è piuttosto normale dover alzare il prezzo!

Stefano di Tommaso




BOOM DEI MINIBOND: AUMENTA LA LORO DURATA, SE NE RIDUCE IL COSTO E CRESCE IL NUMERO DI IMPRESE EMITTENTI

Continua a crescere il numero di Mini-bond emessi e sottoscritti (sia private placement che public offering) grazie al crescente numero di imprese che scelgono di prendere le distanze dai tradizionali canali bancari (tipici della nostra cultura) sperimentando opportunità di finanziamento alternative capaci di riservare molteplici vantaggi nonché quello di sconfiggere le timidezze e diffidenze che gli imprenditori ancora oggi nutrono verso i mercati finanziari.

 

Un fattore che potrebbe aver stimolato questo exploit, è quasi certamente la “caduta” di diversi istituti bancari (soprattutto a Nord-Est) che per decenni hanno monopolizzato e centellinato l’erogazione di risorse finanziarie.

Di seguito il grafico delle emissioni di Minibond quotati al comparto Extra Mot Pro della Borsa Italiana fino al 31.12.2016.

Se fino a quella data avevamo assistito a una crescita costante dello strumento, è nell’ultimo trimestre del 2017 che si è registrato un vero e proprio boom sui minibond, privilegiati soprattutto dalle Pmi rispetto alla Borsa e all’intervento del Private Equity anche grazie alla piena deducibilità degli interessi (entro i limiti del 30% del Reddito Operativo Lordo) e alla scarsa “invasivitá” dello strumento nella gestione e nella “governance aziendali.

Nel solo periodo Ottobre-Dicembre Il numero delle emissioni è fortemente cresciuto: quelle inferiori ai 50 milioni di euro sono state 28 per 147 milioni. Dato che ha portato ad un ammontare complessivo erogato nel 2017 a quota 1,805 miliardi e sono guidate principalmente dal comparto manifatturiero, seguite poi da quello del Food&Beverage, Utilities e Media & ICT.

Ma anche le operazioni di taglio molto grande (più di 150 milioni) sono aumentate, facendo registrare in totale a fine 2017 oltre 300 emissioni per più di 14 miliardi.

Parallelamente alla forte crescita registrata, si è assistito anche ad una contrazione del taglio medio dei bond (sceso a 7.3 Mio), nonché ad una cedola media scesa al 5.13% ed infne ad un “time to maturity” (durata) finalmente superiore ai 5 anni.

La riduzione del ticket evidenzia una maggiore attenzione ed interesse da parte delle PMI verso il mercato del debito e dei capitali riservato, fino a pochi lustri fa, alle sole realtà di maggiore dimensione. Difatti, se fino a pochi anni fa il campione emettente di minibond era presidiato da realtà con fatturato superiore ai 100 Mio., da pochi anni a questa parte, questo è cambiato radicalmente tanto da portare a 40 il numero complessivo delle società emittenti con ricavi inferiori ai 10 Mio. Anche la durata media è cresciuta, sebbene il maggior numero di operazioni si sia concentrato sulla scadenza dei 5 anni.

I Minibond vengono visti dall’imprenditore come alternativa all’ingresso di fondi di Private Equity per sostenere gli è investimenti rivolti allo sviluppo del business. Per ottenere un Minibond infatti resta essenziale poter esibire un buon Piano Industriale, il medesimo che risulta fondamentale per accedere agli altri strumenti del mercato dei capitali. E nel piano industriale può evidenziarsi un’ottima capacità finanziaria prospettica anche laddove gli ultimi bilanci fossero stati particolarmente avari di risultati.

I Minibond vengono visti dall’imprenditore come alternativa all’ingresso di fondi di Private Equity per sostenere gli è investimenti rivolti allo sviluppo del business. Per ottenere un Minibond infatti resta essenziale poter esibire un buon Piano Industriale, il medesimo che risulta fondamentale per accedere agli altri strumenti del mercato dei capitali. E nel piano industriale può evidenziarsi un’ottima capacità finanziaria prospettica anche laddove gli ultimi bilanci fossero stati particolarmente avari di risultati.

Un altro interessante aspetto dei Minibond é la presenza di possibili opzioni di riacquisto o rimborso, come mostrato da questa statistica:

Ecco di seguito una tabella dei principali investitori:

ASPETTI FISCALI E COSTI:

§ Deduzione dei costi inerenti l’emissione ‘per cassa’ (esempi: commissioni , costi società di rating, provvigioni di collocamento, costi Advisor, compensi legali e altri);

§ Richiesta codice ISIN a Banca d’Italia (in caso di dematerializzazione del titolo) e accentramento dei titoli presso un ente autorizzato: costo iniziale c.a. 2.000 € e di mantenimento c.a. 1.500€/anno

§ Certificazione bilancio di esercizio: circa € 15.000

§ Fee Advisor: Una Tantum tra 1% e 2.5% del collocato

§ Fee Arranger: Una Tantum tra 0.5% e 1.5% del collocato

§ Studio Legale: da € 15.000 a € 25.000

§ Emissione del Rating: da € 15.000 a € 20.000 per le PMI. Dal secondo anno -40%.

Di seguito l’elenco completo delle emissioni fino a 50 milioni di controvalore e la loro ripartizione per settori industriali di appartenenza:

 

Stefano di Tommaso

Giorgio Zucchetti




QUANDO SCENDE LA TASSAZIONE DELLE IMPRESE

La proposta di riforma fiscale che si è consolidata al Congresso Americano (il parlamento degli Stati Uniti d’America) comporta una drastica riduzione dell’aliquota di tassazione del reddito imponibile (dal 35% al 20%) e con ogni probabilità non rimarrà un fenomeno isolato e legato alla parabola politica di Doonald Trump. Esiste una tendenza generale al ribasso della tassazione delle imprese che trae fondamento dall’interesse un po’ di tutti a far sí che il maggior numero possibile di soggetti investa, intraprenda e faccia assunzioni di personale, affinché l’economia cresca e tutti possano trovarsi in una condizione di maggior benessere.

 

In Europa come al solito arriveremo un po’ più tardi a metabolizzare il concetto ma ritengo sia altrettanto probabile, in quanto la prima nazione che muoverà in tal senso è il Regno Unito, adesso che è finalmente fuori dell’Unione Europea e che ne ha toccato con mano di recente i benefici osservando da vicino lo sviluppo economico che ha avuto l’Irlanda, ancor oggi quasi un paradiso fiscale.

COME CAMBIANO LE CONVENIENZE

La riforma fiscale americana tuttavia non arriva in maniera generalizzata a migliorare indistintamente le aspettative di profitto di tutte le imprese. Si porta dietro invece una serie di cambiamenti e novità che non è difficile presumere verranno adottati anche da molte altre nazioni, quali la riduzione della deducibilitá degli oneri finanziari e in generale una semplificazione del sistema di tassazione che ridurrà il numero e l’ammontare delle spese deducibili ai fini del reddito imponibile.

Che tali riduzioni di beneficio porteranno nuovo slancio alle borse è facile intuirlo (sebbene le quotazioni stratosferiche che queste esprimono di fatto ne incorporino già le aspettative).

Ma le misure collaterali che vengono varate accanto alla riduzione delle aliquote (che hanno per molti versi un gran senso, al fine di rendere sostenibili le riduzioni di aliquota per le casse pubbliche), cambieranno senza dubbio le cose man mano che il processo suddetto si espanderà. La riforma americana prevede ad esempio che gli oneri finanziari restino deducibili sono alla soglia del 30% del Margine Operativo Lordo (ebitda).

SARANNO DISINCENTIVATE LE SITUAZIONI AZIENDALI AD ELEVATO INDEBITAMENTO

In generale possiamo quindi immaginare che ciò che verrà disincentivato maggiormente sono le situazioni di elevato indebitamento (e dunque si può desumere che ciò sospingerá le compravendite, fusioni e aggregazioni di imprese, come pure le operazioni di acquisizione con la leva finanziaria, per le quali la convenienza evidentemente si riduce. E insieme a queste ultime subiranno una riduzione della redditività gli operatori che più ne hanno beneficiato in passato: i fondi di private equity.

L’impatto peraltro è stato stimato che sarà piuttosto lieve, quantomeno sintantoché i tassi di interesse si manterranno bassi. Se invece dovessero volgere decisamente al rialzo le cose cambieranno parecchio.

È facile intuire perciò che la tendenza fiscale accompagnerà e sosterrà il processo di ricerca di nuove fonti di capitale (e dunque la tendenza a quotarsi in Borsa) e il consolidamento/la concentrazione dei settori economici più maturi e meno redditizi, ma d’altro canto non potrà che favorire un’ulteriore concentrazione della ricchezza in poche mani forti e in generale a favore dei detentori di capitale liquido.

I fondi di private equity peraltro troveranno un incentivo intatto nell’effettuazione degli investimenti produttivi, ma non avranno la medesima convenienza a comprare imprese fortemente “capital intensive”, dal momento che avranno un beneficio fiscale solo se effettuano “nuovi” investimenti.

Niente male dal punto di vista dell’incentivo alla creazione di nuovi posti di lavoro e allo sviluppo delle nuove tecnologie. Un po’ meno positiva la cosa se osservata dal punto di vista di chi pensa di cedere la propria impresa: la riduzione delle aliquote di deducibilitá della leva finanziaria non potrà che limarne le valutazioni.

Stefano di Tommaso