IL CAMMINO STRETTO DI DRAGHI

LA COMPAGNIA HOLDING
Quando ha accettato il ruolo di presidente del Consiglio dei Ministri “di garanzia”, Mario Draghi aveva ben chiaro che la sua missione (quella di mettere ordine nel nostro Paese per riuscire ad ottenere i fondi europei del PNRR) non sarebbe stata una passeggiata di salute. Oggi, dopo le ultime notizie e le amarezze durante le elezioni del Presidente della Repubblica, ha ben chiaro che, insieme alla strada per la ripresa economica del Paese, anche quella per il colle gli si è fatta ancor più ardita di quanto avrebbe potuto immaginare. Vediamo il perchè…

 

LA RIPRESA E’ A RISCHIO

Non soltanto nelle scorse settimane una serie di allarmi relativi al maggior costo dell’energia elettrica (pari a quasi cinque volte i prezzi del 2021) stanno mettendo in difficoltà le piccole e medie imprese, già affette dai rincari della materia prima e dalle lungaggini delle forniture di microchip e altri semilavorati provenienti dall’Asia. A tali preoccupazioni si è poi aggiunto il grido d’allarme lanciato negli ultimi giorni da molti uffici studi circa i problemi burocratici che stanno azzoppando la possibilità di ricorrere alla misura del “superbonus” del cosiddetto 110%, per la ristrutturazione edilizia e l’ammodernamento energetico.

Ma la lista di ostacoli che rischiano di impedire nel 2022 la prosecuzione della crescita economica nel nostro Paese non si ferma qui: innanzitutto c’è la congiuntura economica globale che si fa più difficile e quindi gli ordinativi (principalmente tedeschi e francesi) all’industria italiana rallentano. Le nostre esportazioni possono dunque correre quasi soltanto in direzione dell’Asia, in diretta concorrenza con quelle tedesche!.

Ma nel contempo è in atto una bella crisi di liquidità per le piccole e medie imprese e anche le banche che le finanziano sono quasi a secco: se le piccole banche fanno fatica a supportare il finanziamento dei lavori del 110% e i mercati penalizzano i loro titoli per aver investito troppo nell’acquisire crediti d’imposta, allora le imprese che devono eseguire sul nostro territorio quei lavori hanno un problema ulteriore. Senza lubrificante liquido insomma l’economia delle piccole e medie imprese si ferma!

COSÌ COME I BUONI RAPPORTI CON L’UNIONE EUROPEA

Poi ci sono i numerosi problemi che provengono dai controlli dell’Unione Europea circa le riforme imposte all’Italia in cambio del “Next Generation EU”. Draghi sta infatti toccando con mano la quasi impossibilità di riuscire a procedere in tempo con le riforme necessarie a raggiungere gli obiettivi posti all’Italia dall’UE per procedere con il PNRR.

A dicembre 2021 il nostro Paese aveva conseguito tutti i 51 obiettivi previsti. Non ci dovrebbero dunque essere problemi a confermare l’assegnazione dei 24,1 miliardi di euro già anticipati dall’UE a Giugno scorso. Ma gli obiettivi previsti per il 2021 erano prevalentemente adempimenti burocratici o normativi (organizzazione della governance del PNRR, decreti ministeriali, etc.). Nel 2022, al contrario, per ottenere gli ulteriori 40 miliardi di euro previsti, l’Italia dovrà attuare altri 100 obiettivi che riguardano invece riforme più complesse e investimenti pubblici (progetti di fattibilità, apertura dei cantieri, etc.) in molti casi ancora in alto mare. E soprattutto, di questi 100 obiettivi, ben 45 dovranno essere realizzati nei primi sei mesi del 2022. Riuscirà il Governo nell’intento? È dubbio.

Inoltre l’articolo 11 del Regolamento dell’Unione numero 2021/241 approvato il 12 febbraio dello scorso anno (quello che istituisce il dispositivo per la ripresa e resilienza) prevede che soltanto il 70% dei fondi assegnati dal New Generation EU sia considerato definitivo. Cioè oltre 57 miliardi di euro potrebbero essere ridotti o tolti o assegnati ad altri Paesi membri che dovessero risultare più meritevoli o che avessero avuto performances economiche peggiori nel 2021 (come ad esempio la Spagna). La verifica arriverà entro il 30 giugno prossimo. Il PIL dell’Italia nel 2021 è cresciuto del 6,5% contro una stima di circa il 6%, con la variazione più alta tra i Paesi membri. Ciò significa circa 8-9 miliardi in più rispetto alle stime che potrebbero esserci tolti. È chiaro però che sarebbe politicamente molto complesso per questo Governo rivedere i piani di investimento già annunciati a causa della riduzione delle risorse disponibili!

LA PRODUZIONE INDUSTRIALE RALLENTA

La produzione industriale italiana era cresciuta nell’ultimo trimestre del 2021 soltanto dello 0,5%, con un progressivo rallentamento in dicembre (meno 0,7%) e ha registrato una maggior caduta a gennaio: meno 1,3%. Lo calcola il Centro studi di Confindustria indicando che «la contrazione è dovuta principalmente al caro-energia (elettricità +450% a gennaio 2022 su gennaio 2021) e al rincaro di altre commodity che comprimono i margini delle imprese e, in diversi casi, stanno rendendo non più conveniente produrre. A questo si sommano le persistenti strozzature lungo le filiere globali di fornitura.

Ciò evidentemente mette a rischio la risalita del Pil nel 2022 (al momento stimata intorno al 3,6%). L’economia italiana dovrebbe completare il percorso di ripresa, già iniziato nel ‘21 ma successivo ad un calo di quasi il 10% nel 2020, ma il rischio è invece che le previsioni formulate per il PIL italiano del 2023 (soltanto più 1,9%) possano invece applicarsi già al 2022, nonostante gli stimoli monetari (ancora in atto) e quelli fiscali (i vari bonus per le ristrutturazioni e le transizioni energetiche e digitali) a dare manforte.

MA L’INFLAZIONE MORDE UGUALMENTE

Per non parlare della “grana” dell’inflazione che sta esplodendo così come era successo quasi cinquant’anni fa con la risalita del prezzo del petrolio, dopo la guerra del kippur del settembre 1973. Come allora le tensioni geopolitiche avevano dato una sferzata al costo dell’energia (petrolio e gas in particolare, che viaggiano sempre a braccetto) la quale aveva innescato una serie di rincari dei prezzi. Quel che era successo allora e che oggi non può succedere più è sicuramente la catena di svalutazioni delle divise di conto “minori”, rispetto al Dollaro e al Marco Tedesco. Forse una nuova “svalutazione competitiva” potrà essere adottata per le economie dei Paesi emergenti in giro per il mondo, ma non certo in Europa, dove vige la moneta unica “marcocentrica”. L’Italia non può permettersi invece nemmeno di far anticipare alle sue banche due volte il credito d’imposta. Senza svalutazioni competitive perciò a casa nostra arrivano le deflazioni, a partire da quella salariale (con la perdita di potere d’acquisto dei salari).

Il problema per l’economia italiana è quindi bello grosso e il rincaro del costo dell’energia ha appena iniziato a farsi sentire: già a gennaio l’indice IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato) ha registrato in Italia una variazione annualizzata del 5,3%, contro il 5,1% medio dell’Eurozona. Anche se l’ISTAT parla di una inflazione acquisita del 3,4%, questa sarebbe valida per il 2022 solo qualora i prezzi al consumo non crescessero più da qui a fine anno. Cosa che sappiamo già non sta succedendo. Qualche esempio: la pasta è già rincarata del 10% e la bolletta media del gas del 63%. Difficile pensare che, sebbene le statistiche resteranno prudenti finché potranno, riusciranno tuttavia a nascondere la pura verità: l’inflazione in tutta Europa ha appena iniziato a mordere e si può ragionevolmente temere che continuerà ancora a lungo a generare disastri e a determinare la chiusura di numerosissime piccole e medie imprese. Si comprende che chi ci rimetterà di più sarà il nostro Paese, che si basa soprattutto su di esse.

COSA C’È DA FARE

Per tutti questi motivi il Governo avrebbe un disperato bisogno di rimuovere ogni possibile restrizione agli investimenti e alle condizioni di lavoro delle piccole e medie imprese, ogni vincolo burocratico, ogni balzello inutile, ogni limitazione al credito e alla circolazione del denaro. E c’è da giurare che questo governo proverà a fare tutto il possibile in tale direzione. Ma tutto il possibile non significa che sarà sufficiente. Anzi! C’è già da attendersi una vera e propria rivolta dalle parti sociali, delle corporazioni e dei potentati, da parte dei sindacati, dei dipendenti pubblici e sinanco dalla magistratura. Quest’ultima infatti non potrà scansare una sua riforma importante, oltretutto chiesta dall’Europa. I primi invece sono già sul piede di guerra per la perdita del potere d’acquisto dei salari. Persino la stessa Europa non vede di buon occhio una ventata di liberismo e di politiche industriali pro-business.

Draghi dovrà insomma fare lo slalom tra le varie normative, i vincoli legislativi, gli slogan ecologisti e le crescenti misure europee relative alla sicurezza sul lavoro, se vuole riuscire a mobilitare il Paese per sbloccare i cantieri e accelerare le riforme. Con questi fatti è facile pronosticare ogni genere di rallentamenti alle riforme e conseguenti nuove tensioni politiche all’interno della variegata maggioranza che sino ad oggi ha sostenuto il Governo. Né potrà qualcosa il nuovo-vecchio presidente della Repubblica, che tutti sanno resterà in carico soltanto un paio d’anni al massimo e che non ha certo l’autorevolezza necessaria per tenere a bada le parti sociali.

L’Italia avrebbe bisogno di nuova linfa e di grandi intese con gli altri Paesi membri dell’Unione Europea. Invece il rischio è che accada l’esatto opposto: la Germania continua infatti a parlare del suo “ordoliberismo”. Un neologismo che significa innanzitutto “Deutschland Uber Alles” nelle politiche comunitarie. E significa anche che, con l’attenuarsi della pandemia (quantomeno per l’ampia diffusione dei vaccini) i Paesi “frugali” dell’Unione torneranno ad insistere sul rispetto dei vincoli di bilancio, impedendo dunque al nostro Paese di trovare altre risorse per finanziare la crescita.

LA SVALUTAZIONE DELL’EURO NON PIACE AI PAESI DEL NORD

Con un Dollaro tendenzialmente più forte che in passato, sarà infatti più difficile anche per la Banca Centrale Europea reperire risorse per sostenere le iniziative comunitarie e finanziare le banche sul territorio, perché a ogni ulteriore acquisto di titoli pubblici potrà seguire un indebolimento dell’Euro. La Banca Centrale Europea ha sino ad oggi provveduto autonomamente a monetizzare il debito dei Paesi come il nostro (che sono strutturalmente ancora in forte deficit e dunque avrebbero bisogno che essa continui). Dunque la strategia più probabile (quella del “cerchio-bottismo”) della BCE avrà un limite nel fatto che la svalutazione della moneta unica non potrà andare lontano.

Draghi che ha gestito per quasi un decennio il governo della BCE lo sa bene, e sa anche che deve riuscire a trovare altre risorse finanziarie per portare avanti il Paese più che si può in questi mesi, almeno sino a quando le condizioni generali dell’economia globale non saranno troppo peggiorate a causa dell’inflazione e del caro-energia. L’appuntamento del “redde rationem” è infatti per la fine dell’anno, quando ogni possibile velo che nasconde le vere posizioni delle parti sarà tolto, e il confronto, tanto all’interno dell’Italia quanto con gli altri Paesi dell’Unione (anche in vista delle elezioni politiche della primavera successiva) si farà molto più duro. Un momento che risulterà difficile quasi per certo, cui bisognerebbe riuscire a prepararsi sin da ora. Ce la farà?

Stefano di Tommaso




L’ITALIA CORRE, MA LO SPREAD SALE

La Compagnia Holding
Non sono bastate le ottime notizie sulla ripresa della produzione industriale e dell’export nazionale per tranquillizzare i mercati finanziari sulle sorti dell’Italia: mentre l’export italiano continua a correre più di quello tedesco e degli altri paesi europei, la congiuntura internazionale potrebbe invece giocarci un brutto scherzo, soprattutto se le banche centrali andranno a concretizzare la ventilata riduzione di acquisti di titoli sul mercato, tra i quali quelli italiani. Lo spread sale poi anche per un altro motivo: la più che probabile -a questo punto- risalita dei tassi d’interesse che induce anch’essa forti timori sulla sostenibilità del debito pubblico Italiano.

 

PREMESSA: IN ITALIA IL PIL CORRE PIÙ CHE ALTROVE

Nel terzo trimestre 2021 il PIL italiano è cresciuto del 2,6% in termini assoluti sul trimestre precedente (un dato che, se fosse annualizzato, indicherebbe una crescita a doppia cifra per il nostro paese. Tenendo conto però della minor crescita registrata all’inizio dell’anno e di quella -più tenue- prevista per il quarto trimestre, è già un ottimo risultato il fatto che esso sia salito nel complesso di circa il 4% dall’inizio dell’anno, che in termini annualizzati corrisponde ad una crescita del 6,1%. Un dato che a fine 2021 potrebbe addirittura migliorare.

Insomma un ottimo risultato, se confrontato con quello europeo (+2,2% rispetto al trimestre precedente) e con quello tedesco (soltanto +1,8% rispetto al trimestre precedente). Se tutto va bene potremmo chiudere il 2021 poco sotto il valore del PIL del 2019 (di circa l’1,4%, mentre la Spagna resta a meno 6,6%) mentre la zona Euro è in media sotto al risultato 2019 soltanto dello 0,5%. La Francia è invece già tornata in pari a fine Settembre. Nel confronto con il resto del mondo invece l’intera Area Euro tende a sbiadire: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede infatti per l’economia americana una crescita del 7% sull’anno precedente (e per quella globale del 6%).

La Compagnia Holding
MA SPREAD E INFLAZIONE MORDONO

Insomma sale per il nostro paese il Prodotto Interno Lordo (PIL) più che nel resto d’Europa, ma cresce anche lo spread, arrivato a 131 punti percentuali e, con esso, le preoccupazioni che i capitali scarseggeranno sulle piazze finanziarie italiane. La preoccupazione riguarda infatti anche la possibilità che il PIL possa proseguire la sua corsa, e superare di slancio tanto l’incremento dell’inflazione, che ha raggiunto -per le statistiche ufficiali- il 4,1% nell’Eurozona quanto lo spiazzamento delle imprese private che deriva dall’ingombrante presenza della macchina pubblica, finanziata da una tassazione da record tanto per il mondo quanto per la storia.

C’è da dire che nella medesima Eurozona l’inflazione al 4,1% è il dato più alto da 13 anni (e a quell’epoca il petrolio raggiunse i 146 dollari/barile) mentre in America l‘inflazione è giunta al 4,4% ufficiale (è doveroso segnalarlo perché le statistiche ufficiali sono sempre “ammaestrate”) ed è la rilevazione più alta da 30 anni a questa parte. Per non parlare degli indici dei prezzi all’ingrosso, che rivelano molto meglio l’andamento reale dei prezzi dei “fattori di produzione” e che sono tutti oltre la doppia cifra! In Germania l’ultima rilevazione (Settembre) parla di un +13%, ma in Spagna siamo arrivati addirittura al +23%.

La Compagnia Holding
L’incremento dell’inflazione (soprattutto di quella vera, quella non addolcita dai metodi statistici) ha mobilitato l’attenzione degli osservatori sui cambi valute e sull’atteggiamento delle banche centrali. Nel mondo queste si sono allineate su due poli contrapposti: sono rimaste in attesa di osservare lo sviluppo degli eventi e non hanno alzato i tassi quelle dei paesi più sviluppati: area Euro, zona Dollaro (che comprende anche quello canadese e quello australiano) e Giappone. Altrove le banche centrali sono invece dovute intervenire invece con decisione, rompendo gli indugi e somministrando rialzi di tassi a dosi da cavallo: a partire dalla Banca d’Inghilterra, e a proseguire con le banche centrali di Cina, Brasile, Russia, Nuova Zelanda, Turchia, eccetera. Tanto per il rischio di deriva sfavorevole nel cambio della propria valuta (ad esempio la Turchia) quanto per la necessità cercare di frenare per tempo la deriva inflazionistica.

IL DILEMMA

Potremmo dedurne che sia soltanto questione di tempo: la stretta monetaria si estenderà anche alle aree più forti, e in parte avremmo ragione. Il dilemma tuttavia resta: se la crescita economica si è ridotta quasi a zero (tanto l’America quanto la Cina hanno visto nell’ultimo trimestre un PIL cresciuto soltanto dello 0,2% sul secondo trimestre dell’anno) quale banca centrale vorrà prendersi la responsabilità di portare il proprio paese in recessione (alzando i tassi) pur di combattere l’inflazione?

Morale: fino ad oggi sono intervenute al rialzo dei tassi soltanto le banche centrali che temevano di più una svalutazione della propria moneta. Le altre stanno ancora aspettando di studiare meglio la situazione, consce del fatto che gli strumenti a loro disposizione sono assai limitati. Siamo infatti quasi giunti alla cosiddetta “trappola della liquidità”, nell’ambito della quale gli strumenti di politica monetaria risultano per definizione poco efficaci. Anche perché di liquidità abbiamo affogato il mondo.

Ovviamente dipenderà molto da quel che succede in seguito: se l’economia continuerà a rallentare magari l’inflazione frenerà la sua corsa e non ci sarà bisogno di rialzare i tassi d’interesse. Ma è d’altro canto relativamente improbabile che l’inflazione si fermi ai livelli attuali (a prescindere dalla crescita economica ) vista la strozzatura nella produzione industriale e il disallineamento tra domanda e offerta di beni e servizi. È in atto infatti un travaso dell’aumento dei prezzi alla produzione verso quelli al consumo, che hanno goduto sino ad oggi di parecchia vischiosità.

COSA SUCCEDERÀ

Dunque si può soltanto sperare che il rallentamento della crescita economica possa essere temporaneo, e che la crescita economica globale prevista dal FMI venga confermata. Se succederà questo spingerà gli investimenti produttivi e riaprirà i rubinetti della produzione, sebbene al tempo stesso ciò rilancerà il prezzo dell’energia e tornerà ad amplificare i timori sulle emissioni dannose per il clima. Ecco perché sono prevedibili ulteriori apprezzamenti dei titoli industriali, finanziari e tecnologici. Così come sono prevedibili aumenti generalizzati dei tassi d’interesse e del costo dell’energia.

La Compagnia Holding
Per il nostro paese la situazione potrebbe rimanere sotto controllo sotto il profilo dello spread, soprattutto se l’ export italiano continuerà a correre più di quello d’oltralpe. La presenza di una governo molto autorevole può aiutare non poco in questo senso ed è anche il motivo per il quale appare improbabile che Draghi possa passare velocemente al Quirinale. Ma sappiamo bene che la politica italiana è intrinsecamente instabile e quel che possiamo pensare oggi non è così scontato che si manterrà valido anche nei prossimi mesi.

Certo un lungo periodo di “normalizzazione” economica targata Mario Draghi potrebbe ristabilire un equilibrio tra l’Italia e il resto d’Europa e potrebbe anche gemmare nuovi risultati in termini di riduzione della tassazione e degli sprechi, di moralizzazione della macchina pubblica e di riforma generale della pubblica amministrazione. Uno scenario idilliaco, in cui lo spread dovrebbe restare basso e il debito pubblico sotto controllo.

L’Italia però dipende fortemente dal proprio costo dell’energia ed è un grande importatore di materie prime e semilavorati. L’inflazione dunque non tarderà a mordere anche l’industria e i consumi discrezionali, facendo tornare a salire il prezzo degli immobili e rilanciando le tensioni sindacali. Solo una migliore armonizzazione dell’Unione Europea potrà dunque sortire effetti di lungo termine da una maggior autorevolezza dei nostri governanti. Se invece i “paesi frugali” continueranno a fare capricci e la Commissione Europea continuerà a obbedire soltanto alla politica degli egemoni, allora le tensioni centrifughe riprenderanno, le manifestazioni di scontento si moltiplicheranno e l’attuale maggioranza di governo si spaccherà. E in tal caso lo spread tornerà alle stelle e probabilmente il debito pubblico andrà in tensione.

Stefano di Tommaso




TESLA DIVIDE GLI ANALISTI FINANZIARI

Tra le “singolarità” più importanti che si riscontrano sul mercato azionario americano vi è sicuramente Tesla, la società di Elon Musk che produce veicoli e altri sistemi elettrici basati sulle batterie al litio. Tesla è vista dai più (e a ragione) come una sorta di buco nero che brucia cassa e vive essenzialmente di continue richieste al mercato di finanziamenti e nuovi aumenti di capitale, in nome della rivoluzione tecnologica e delle più svariate iniziative che porta avanti, ma al tempo stesso mostra un approccio così innovativo e radicale che viene indicata da altri come il nuovo paradigma industriale del secolo, generando entusiasmo e fidelizzazione tra analisti ed utenti per le aspettative che continua a generare sino ad essere definita la nuova Apple dei veicoli elettrici. Probabilmente sono vere entrambe le interpretazioni ma è per questo che non è facile capire se le azioni Tesla risulteranno l’affare o il buco del secolo.

 

Eppure per effetto della combinazione della normativa che limita le emissioni dei veicoli a combustione interna e dei progressi fatti nell’efficienza dei veicoli elettrici, questi ultimi stanno registrando una crescita delle vendite che è stata del 45% nel 2016 e che può addirittura accelerare nei prossimi anni. Ovviamente Tesla sarebbe in prima fila nel beneficiare di questa tendenza di mercato e nel riuscire a ottenere un lauto profitto dalle sue “supercars”, se non fosse per i suoi (grossi) problemi nel riuscire ad ampliare la capacità produttiva e rispettare i tempi di consegna.

Chi ha ragione: quelli che la danno per morta tempo un anno o due o coloro che ci vedono il paradigma futuro dell’industria moderna? Proviamo insieme ad esaminare le motivazioni dell’una e dell’altra parte per farcene un’idea.

I DETRATTORI

A vantaggio di quelli che la danno per morta a breve termine c’è sicuramente la forte dipendenza della Società di Elon Musk dalla salute dei mercati finanziari globali. Tesla continua ad aver bisogno di nuove iniezioni di liquidità per finanziare i propri progetti. Per un’azienda già arrivata quasi alla soglia dei 400 dollari per azione e oggi rimbalzata a poco più di 300 (dunque comunque molto cara rispetto ad una redditività inesistente ancora per i prossimi anni) e dove l’azionista medio si è visto diluito del 43% dal 2013 ad oggi a causa del frequente ricorso al debito e dei continui aumenti di capitale, le prospettive possono risultare molto dire se i mercati finanziari non continueranno a vedere tassi molto bassi e a inanellare nuovi record!

Difficile infatti pensare che i dividendi di Tesla potranno divenire presto il punto di riferimento di chi oggi acquista il titolo, mentre la prospettiva di venire ulteriormente diluiti è reale e quella di dover emettere nuovi bond per rifinanziare quelli esistenti più che mai concreta.


Nel terzo trimestre del 2017 la prima casa automobilistica della storia che è nata nella Silicon Valley ha evidenziato una perdita di 619 milioni di dollari, contro l’utile da 22 milioni del corrispondente periodo del 2016. Gli analisti hanno però sottolineato il fatto che nel medesimo trimestre sono stati bruciati 1,42 miliardi di dollari di cassa: una cifra sconvolgente ! Forse è per questo che il suo fondatore, nonostante abbia raccolto oltre 3 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi, sta di nuovo facendo il giro del mondo per trovare i finanziamenti per costruire nuovi stabilimenti e andare avanti (vedi:

http://www.auto.it/news/news/2017/11/11-1191657/caslo_tesla_musk_cerca_risorse_da_erdogan/

e

http://punto-informatico.it/4408251/PI/News/tesla-nuovo-stabilimento-shangai.aspx

 

Se vogliamo tradurre tutto ciò in un solo concetto: bruciando cassa e continuando a posporre le date di consegna delle proprie vetture sulle quali ottiene un margine sino ad oggi piuttosto risicato Tesla continua invece a investire in mille direzioni diverse per ciascuna delle quali (qui sotto l’elenco) essa richiede al mercato cospicui contributi. Se almeno rispettasse le promesse recenti relative alla capacità produttiva e alla tempistica di completamento dei nuovi modelli gli analisti potrebbero indulgere maggiormente sulle iniziative più estemporanee. Secondo i suoi detrattori così facendo Tesla non sembra invece produrre alcun valore per i suoi azionisti.

I PROGETTI “NON-CORE”

La società ancora oggi origina quasi il 90% dei propri ricavi dalla vendita di tre tipologie di veicoli elettrici, due delle quali sono già disponibili sul mercato (la Model S e la Model X) mentre la terza (la Model 3) è in arrivo ma ha già ottenuto dai futuri utenti un cospicuo contributo di “prenotazione”. Una quarta tipologia (la Model Y, nell’immagine) relativa a un nuovo concetto di SUV leggero, sembra invece che non vedrà la luce prima del 2020.


Ciò nonostante il suo fondatore è stato bravissimo nell’affascinare il mercato finanziario anche con un numero elevato di “altri progetti“ che sono solo parzialmente o non sono affatto interconnessi con la produzione di veicoli elettrici: dalla “Gigafactory” di batterie al litio (che anche per le sue elevatissime dimensioni non è ancora entrata in funzione e dovrebbe rappresentare il nuovo standard di produzione nel settore degli accumulatori), alla creazione di “Autopilot”, un sistema proprietario di guida automatica delle proprie vetture, fino a ciò che il mercato finanziario ha spesso definito vere e proprie “distrazioni” rispetto al core business.

Progetti a ciascuno dei quali Elon Musk ha voluto associare concetti innovativi e visioni futuristiche, insieme a denominazioni particolarmente stimolanti e dove sta spendendo cifre iperboliche in progettazione e investimenti senza alcuna certezza di ritorni economici a breve termine. Vale a dire la costruzione di:

-pannelli solari (SolarTiles)
-batterie per uso domestico (PowerWall)
-sistemi integrati di alimentazione elettrica domestica (SolarCity)
-camion elettrici (Truck)
tunnel sotterranei di nuova concezione (Tunneling)
sistemi innovativi di diffusione della musica online (MusicStream)
circuiti di trasporto di persone e cose basati sul concetto di posta pneumatica (HyperLoop)
sistemi di trasporto aereo basati sul concetto di missile terra-aria (SpaceX)
Niente male nemmeno per un assiduo lettore di fumetti futuristici! Peccato che sino ad oggi nessuno di essi abbia portato un contributo tangibile alla creazione di valore del titolo quotato al Nasdaq e in alcuni casi vi siano seri dubbi sulla capacità di realizzarli davvero. Ciò nonostante il mercato sembra credere in Elon Musk più di quanto i fatti e i numeri suggeriscono. Difficile dunque dare torto ai detrattori di Tesla e del suo fantasmagorico leader sulla base di quanto qui riportato!

GLI ESTIMATORI

Chi invece vede il bicchiere mezzo pieno fa notare innanzitutto che la sfida di Tesla nei confronti dell’industria automobilistica si dispiega su tre fronti: quello dell’automazione produttiva, quello dell’autonomia su strada e quello della guida autonoma. Riuscire a combinare al meglio queste tre capacità può fornire a Tesla un importante vantaggio competitivo sulla concorrenza, che rimane soprattutto focalizzata sui veicoli a combustione interna.

Secondo i più favorevoli commentatori Tesla è di fatto una società di software, tanto per ciò che concerne la capacità di gestire il sistema di accumulo delle batterie (BSM: battery management system) e quello della trasmissione dell’energia alle ruote (PT: power train), quanto per i sistemi che consentono alla vettura la rilevazione delle situazioni esterne e la loro elaborazione ai fini del risultato della guida autonoma, quanto infine per ciò che concerne la gestione dell’automazione in fabbrica. La capacità di generare autonomamente il software di cui ha bisogno è insomma il punto di forza di Tesla e quello che le consentirà di vincere la sua sfida all’industria automobilistica tradizionale.

Questa visione della strategia di Elon Musk può aiutare a spiegare la volontà di diversificare le iniziative di Tesla nelle più disparate direzioni (quelle che più sopra abbiamo sopra definito “non-core”): il punto di contatto sono le possibili sinergie a livello di software.

LE POTENZIALITÀ DELL’AUTOPILOT

 

Il fatto inoltre che le vetture Tesla in commercio già incorporano il sistema di guida autonoma consente all’azienda di totalizzare un gigantesco numero di miglia percorse, nel corso delle quali il software aggiunge all’enorme database ogni genere di situazioni di rischio. Si veda il grafico qui riportato:

Nel grafico sono assunte le seguenti ipotesi di produzione: 5000 Model3 alla settimana a partire da Aprile 2018 e il doppio a partire da Aprile 2019. Per quanto potente sarà il software sviluppato dalle altre grandi industrie, a partire dal 2020 Tesla sarà l’unica ad aver collezionato oltre 11 miliardi di miglia terrestri percorsi con le telecamere e il software di rilevamento dati attivi e questa è esattamente la soglia stimata dalla Rand Corporation quale misura di un sufficiente numero di rilevazioni statistiche per poter assicurare un numero di incidenti accettabile (vedi: Princeton University e vedi: eBook RAND ). La velocità presumibile di miglioramento del software di guida autonoma Tesla è perciò molto più alta di quella che altre case automobilistiche potranno esibire.


Quanto vale in termini finanziari poter assumere la leadership delle automobili che guidano da sole? Moltissimo, si presume. Soprattutto per l’utilizzo di tali veicoli per scopi diversi da quello del “leisure”: taxi, furgoncini per le consegne e sistemi urbani compositi di gestione del traffico sono solo alcuni dei campi di applicazione di veicoli davvero capaci di autogestirsi.

LA FABBRICA AUTOMATICA

Un altro settore dove Tesla ha impiegato davvero ingenti risorse e dal quale si aspetta importanti futuri vantaggi competitivi è quello dell’automazione industriale. La capacità di sviluppo autonomo di robot di produzione gestiti da sistemi software proprietari Tesla è particolarmente cara a Elon Musk a causa della possibilità teorica di accelerare la loro velocità di esecuzione a livelli oggi mai visti a causa del fatto che il sistema-fabbrica deve risultare compatibile con le fasi della produzione non automatizzate. Nel momento in cui la fabbrica può risultare completamente automatica allora la velocità dei robot può accelerare moltissimo, giungendo a livelli di produttività oggi impensabili e ad una decisa compressione dei costi di produzione.

Ovviamente si tratta di un obiettivo finale decisamente in là nel tempo e difficile da raggiungere, che può inoltre cozzare con una non sufficiente integrazione del controllo della qualità dei componenti impiegati, così come con la difficoltà di armonizzare nell’ambito dell’automazione ogni genere di personalizzazione dell’output finale di produzione.

Obiettivi come quelli descritti tuttavia possono portare nel tempo a vantaggi competitivi molto forti, che aiuterebbero a ridefinire il concetto di “industria 4.0” fino a farcelo apparire come decisamente antiquato. Tesla ha dunque scelto di giocare d’anticipo una partita molto difficile le cui complicazioni lungo il percorso potrebbero decisamente minacciare la fiducia che il mercato finanziario vi ha riposto.

Ce la farà? Difficile dirlo oggi, alla vigilia di possibili manrovesci sui mercati finanziari, perché in questo momento è messa fortemente in discussione la capacità di Tesla di riuscire a completare i suoi programmi prima di esaurire le risorse finanziarie già raccolte nonché quella di conservare la fiducia del mercato per fornirgliene di ulteriori nei prossimi mesi.

Eppure quella di Tesla sembra una delle storie industriali più intelligenti, belle e romantiche dei nostri anni…

Stefano di Tommaso