I PROFITTI AZIENDALI VANNO ALLE STELLE MA WALL STREET TENTENNA

Quest’anno le 500 società che compongono l’indice Standard & Poor della borsa americana ci si attende che dichiareranno mediamente quasi il 20% di crescita degli utili aziendali rispetto al 2017. Si tratterebbe del maggior incremento dal 2010 rispetto al 2009 (l’anno in cui vennero contabilizzati i disastri della crisi dell’esercizio 2008) e, in assoluto, di uno degli anni migliori della storia economica americana.

 

Qui in basso un grafico di Reuters che riporta le stime degli analisti, normalmente un po’ più prudenti di quanto viene poi effettivamente pubblicato (è per questo che le attese vere sono al 19,7%, e non al 17,2% ufficiale):

Ma quello che più conta è che negli stessi prossimi giorni in cui verranno resi noti I dati definitivi dell’esercizio 2017, verranno anche comunicate le prime notizie circa l’andamento prospettico del primo trimestre 2018 e, anche in questo caso, gli analisti si aspettano ulteriori formidabili incrementi rispetto allo stesso trimestre del 2017. Qui sotto uno spaccato delle aspettative per ciascun macrosettore economico:

Fino qui le buone notizie, con l’aggiunta che oggi ci si aspetta forti miglioramenti dei conti non soltanto nei settori che se la passavano peggio l’anno prima (come le energie, che hanno pagato caro il petrolio basso prima e poi la crescita tumultuosa del suo prezzo, oppure le banche, che pagavano il prezzo di tassi troppo bassi fino all’anno prima), bensì anche da quelli per cui il mercato si attendeva già un’ottima performance, come ad esempio l’ “information technology” o le cure mediche, che già andavano benissimo l’anno precedente.

DUE POSIZIONI CONTRASTANTI

Il punto però è che il mercato azionario nel corso del 2017 è appunto cresciuto in media del 20% e che, dunque, quel risultato lo aveva già scontato l’anno prima. Come dire che l’ufficialità della conferma degli utili attesi potrebbe non commuovere affatto Wall Street ma anzi, al contrario, farle dubitare fortemente che le medesime brillanti performances del 2017 (registrate nell’Aprile 2018) potranno risultare ancora migliori nel corso del 2018 (quelle che saranno registrate nella primavera 2019).

E qui -com’è ovvio- gli analisti si dividono in due scuole di pensiero: da una parte quelli che tenendo conto delle buone notizie concernenti l’andamento globale dell’economia reale (da tanto tempo le notizie non erano così positive) ritengono che il super-ciclo economico sia tutt’altro che esaurito (e dunque le borse continueranno a correre anche nel 2018) e dall’altra parte coloro che ritengono che le borse guardino uno-due anni avanti e che le attuali quotazioni azionarie già incorporino le straordinarie attese di profitti in corso (e che pertanto nel resto dell’anno le borse non brilleranno).

LE DIVERSE MOTIVAZIONI

A dare manforte a questa seconda scuola di pensiero peraltro sono i più, e con ottime argomentazioni, quale ad esempio lo scostamento tra i due grafici (utili e quotazioni) che si è accumulato nell’ultimo anno e mezzo:

A dare conforto alla prima tesi (gli ottimisti) peraltro ci sono soggetti molto autorevoli come ad esempio le maggiori banche d’affari del mondo e con un ragionamento che, anch’esso, sembra non fare una piega:

Se infatti le aspettative per l’indice SP500 sono quelle proiettate “dal basso” dagli analisti sulla base degli utili attesi, non si può non tenere conto del fatto che la medesima proiezione con il medesimo approccio “dal basso” per i periodi precedenti ha funzionato benissimo, come mostra il grafico seguente:

D’altra parte i moltiplicatori degli utili attesi, dopo l’ultimo pesante storno di Wall Street e con le prospettive di profitto per I 12 mesi successivi che oggi si vedono, sembrano essere divenuti molto convenienti, come mostra il grafico qui sotto riportato:

Dunque basterebbe una piccola variazione in senso positivo al contesto generale ( che prevede contemporaneamente: prospettive di guerre commerciali, disordini geopolitici, aumento dei tassi di interesse e dei deficit pubblici) perché gli investitori possano tornare ad un relativo ottimismo.

LA CONCORRENZA DEI FONDI MONETARI

Ma un’altra variabile rischi di rovinare loro la festa: la maggior convenienza a tenere in portafoglio strumenti di mercato monetario che non azioni o obbligazioni, come dimostrano i grafici qui sotto comparati:

Se si tiene conto del fatto che i rendimenti di questi ultimi appaiono completamente privi di rischio (tranne ovviamente quello delle quotazioni del Dollaro in cui sono denominati), si capisce perfettamente che, qualora le banche centrali si spingeranno troppo oltre nel rialzare i tassi d’interesse a breve termine, potrebbe aumentare la convenienza per chi investe ad abbandonare i mercati borsistici (che sono quelli che portano risorse fresche alle imprese) per concentrarsi su depositi a brevissimo termine. Il vero nemico dell’investimento azionario non sono dunque le obbligazioni (i cui corsi hanno un’elevata correlazione con quelli dei titoli azionari), bensì i depositi di liquidità a breve durata.

IL DISCRIMINE LO FANNO L’INFLAZIONE E LE BANCHE CENTRALI

È ovvio che, in assenza o quasi di fiammate inflazionistiche la cosa non avrebbe molto senso poiché aumenterebbero i rendimenti reali e dunque il costo netto del capitale, ponendo un freno all’economia. Il rischio è quantomai reale e, anzi, è noto che parecchie delle ultime recessioni sono proprio state scatenate da politiche troppo restrittive delle banche centrali!

La morale è perciò solo una : le borse potrebbero performare ancora bene ma solo se gli aumenti dei tassi programmati dai banchieri centrali troveranno riscontri nell’incremento corrispondente dell’inflazione effettiva, oppure se verranno posticipati.

Altrimenti con quei rialzi non proteggeranno da un’inflazione ampiamente già sotto controllo bensì faranno da freno alla crescita economica, e sarebbe un vero peccato visti i risultati positivi ottenuti fino ad oggi dai medesimi banchieri centrali nella lotta alla disoccupazione!

Stefano di Tommaso




QUEL CHE RESTA DEL CICLO ECONOMICO

Dopo anni di stimoli monetari di ogni sorta e addirittura dopo nuovi stimoli fiscali di grande impatto, le previsioni di un’ulteriore forte crescita economica globale per il 2018 (dopo quella già ottima del 2017) sembrano finalmente avverarsi, ma ecco che invece di colpo esse non sembrano più interessare a nessuno. Le borse, gli investitori e persino le banche centrali appaiono di punto in bianco invece seriamente preoccupati per le prospettive di inflazione (da molti attesa in crescita oltre il livello fisiologico che sino a ieri veniva auspicato per scongiurare il pericolo di deflazione) tanto da chiedersi se il surriscaldamento della crescita economica attuale, arrivata al (presunto) termine di un lungo ciclo economico espansivo, non sia addirittura una cosa pericolosa.

Così esordisce l’Economist in copertina con un articolo di fondo denominato “Crescita Truccata”. Il riferimento a me appare principalmente politico (così come anche in molti altri casi fanno le grandi testate giornalistiche globalizzate) e in particolare esso segnala la presunta inopportunità del taglio fiscale voluto da Donald Trump in America data la già tesa dinamica salariale (cioè in rialzo), manovra alla quale c’è una certa probabilità che farà seguito anche la Gran Bretagna con qualcosa di simile non appena avrà concluso il negoziato sull’uscita dall’Unione Europea. Ci sono molte ragioni per cui questa svolta (che potrebbe a quel punto estendersi a buona parte del mondo) può non piacere, poiché andrebbe a intaccare forti interessi precostituiti.

È noto poi che Trump non intende limitarsi alle misure di politica fiscale che riguardano le tasse, ma vuole realizzare appieno tutto quanto aveva promesso nel suo programma elettorale che prevedeva un altrettanto forte stimolo alla crescita economica attraverso la ripresa degli investimenti infrastrutturali (altra cosa giudicata con forte riserbo dagli economisti “liberal” a causa dell’ulteriore spinta che potrebbe dare alla crescita dell’indebitamento federale).

 

Ma è così vero che il mondo rischia un “eccesso di crescita”? La questione è più che leggittima dal momento che per molti versi l’economia reale non ancora nemmeno recuperato i livelli di benessere cui si era giunti ante 2008 e se questo vale per l’America è tuttavia ancor più valido per parecchi altri Paesi meno sviluppati del mondo (come l’Italia), dove la ripresa è arrivata molto di recente che non hanno nemmeno lontanamente recuperato il terreno perduto in precedenza con la grande crisi finanziaria.

Anzi: molti Paesi Emergenti hanno potuto rivedere la luce grazie al combinato disposto di un rialzo tanto della domanda quanto dei corsi delle principali materie prime e grazie alla debolezza del Dollaro. E l’hanno rivista molto di recente, evitando tanto il default sul loro debito quanto il blocco degli investimenti infrastrutturali (estremamente necessari nei luoghi più arretrati del pianeta).

Ebbene il rischio reale che può derivare dal “surriscaldamento dell’economia “ è esclusivamente quello dell’inflazione, che sicuramente ha ripreso quota rispetto al valore negativo che essa ha avuto a lungo negli anni precedenti ma non è certo ancora ricresciuta a livelli allarmanti. Anzi: ci sono diversi motivi per i quali essa potrebbe tornare sì a crescere, ma forse molto meno di quanto si potrebbe presumere seguendo le teorie della curva di Phillips (che descrive la relazione inversa tra disoccupazione e inflazione) o il dato storico del NAIRU (quel tasso di disoccupazione che non incrementa l’inflazione, al secolo: Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment).

I motivi per cui possiamo ritenere che l’inflazione non “morderà”? Negli ultimi mesi gli economisti ne hanno pronunciati diversi (per spiegare perché l’inflazione non cresceva come avrebbe dovuto): dalla digitalizzazione dell’economia che fa scendere i costi di produzione, all’incremento del commercio elettronico e degli scambi internazionali (con l’arrivo sui mercati occidentali di molti prodotti dei Paesi Emergenti), fino all’incremento di efficienza (e di capitalizzazione) di molte tra le imprese di maggiori dimensioni che sono più moderne di quelle che le hanno precedute e molto più in grado di fare di volta in volta efficienza evitando così di ribaltare completamente gli incrementi dei costi dei fattori di produzione sui prezzi dei loro prodotti finiti. Difficile pensare oggi invece che sia stato un abbaglio collettivo!

In realtà il calo delle borse è possibile che prosegua perché dipende sì dalle attese di inflazione ma anche da altri due potentissimi fattori (l’incremento dei tassi di interesse e le vendite di titoli che le banche centrali inizieranno presto ad attuare) che saranno per certi versi ineludibili. E se le borse continueranno a scendere anche la crescita economica ne risentirà (negativamente).

Se però torniamo alla presunzione iniziale (che il ciclo economico espansivo, già straordinariamente longevo, sia oramai maturo per imboccare un‘inversione), essa resta tutta da dimostrare. Non solo per quanto abbiamo già espresso (in realtà la crescita è arrivata tardi e incompleta nel resto del mondo e dunque solo da pochissimo tempo essa si è sincronizzata), ma anche per gli stessi motivi per i quali l’inflazione potrebbe tornare a crescere molto meno: le nuove tecnologie. In particolare ce n’è una che da sola potrebbe permettere un vero e proprio salto “quantico” ai sistemi economici più sviluppati: la diffusione dei sistemi di produzione esperti (altrimenti noti come “industria 4.0”) e in definitiva la diffusione dell’intelligenza artificiale (A.I.). Probabilmente il mondo dell’industria è molto più pronto di quanto possa sembrare all’ ulteriore efficientamento produttivo che deriverà dalla diffusione della nuova ondata tecnologica dell’A.I., in confronto alla quale quella della digitalizzazione ci sembrerà un’inezia, sia perché ne ha bisogno, che perché oggi ha più capitali per farlo. E questo significa che l’inflazione -se arrivasse davvero- potrebbe riguardare solo le materie prime.

Dal mio personale punto di vista perciò ecco spiegato perché Trump fa bene a spingere sull’accelerazione della crescita economica con la pretesa di rilanciare gli investimenti infrastrutturali: difficilmente quel che ne risulta sarà un focolaio di inflazione fuori controllo e, viceversa, la crescita economica sarà il solo modo per tenere a bada il deficit del budget federale che si creerà con il taglio fiscale (cioè facendo crescere la base imponibile). Non solo: una decisa politica fiscale espansiva è forse anche l’unico modo per cui i consumi (quantomeno quelli americani) potranno continuare a crescere e a trainare lo sviluppo della produzione industriale dei Paesi meno sviluppati (tra i quali il nostro), alimentando a sua volta la crescita globale in una sorta di circolo virtuoso che potrebbe (alla lunga) anche contrastare le tendenze ribassiste dei mercati finanziari attraverso l’incremento dei profitti aziendali.

E se Trump dovesse riuscire a proseguire con le sue riforme quali conseguenze ciò avrebbe sul Dollaro, sul petrolio, sui tassi e sulle borse? Sempre difficile dirlo ma ci si potrebbe attendere un rialzo del biglietto verde, soprattutto a causa del possibile maggior innalzarsi dei tassi di interesse, mentre Wall Street potrebbe continuare ad attraversare acque agitate ancora per un po’, per poi scoprire ulteriori motivi di ottimismo per gli utili delle grandi imprese quotate e, di conseguenza, nuovi rialzi. Lo stesso potrebbe dirsi per le borse europee, mentre quelle asiatiche dovrebbero prima riuscire a superare qualche ostacolo ulteriore, dal momento che comunque la liquidità complessiva in circolazione dovrebbe iniziare a ridursi, lasciando qualche disastro soprattutto nell’economia cinese e in quella indiana, che sino ad oggi hanno beneficiato al contrario della sua crescita. Il petrolio invece con ogni probabilità salirà ancora: limitatamente a causa dell’incremento del ricorso alle energie da fonti rinnovabili e dell’incremento di offerta che -man mano che sale il prezzo- si materializzerà, tuttavia se la crescita economica globale prosegue la sua domanda non potrà che restare forte.

Sono solo supposizioni, ma della stessa natura di quelle che quasi due anni fa mi facevano presumere che Trump avrebbe potuto vincere le elezioni. Non è dunque così scontato che il ciclo economico sia sul punto di fare un’inversione, perché stanno cambiando i tempi e i fattori in gioco. In precedenza sono state spesso le stesse banche centrali a determinare periodi più o meno brevi di recessione. Oggi la loro attenzione è massima e hanno dimostrato fino ad oggi una grande prudenza nel rialzare gradualmente i tassi, cosa che fa ben sperare, mentre finalmente c’è una leadership politica che vuole usare ogni strumento a sua disposizione per stimolare ulteriormente la ripresa. Se guardiamo a un periodo non troppo breve non fasciamoci la testa con un’inflazione che deve ancora arrivare! È possibile che non ne arrivi che qualche piccola avvisaglia, cosa che in economia viene salutata positivamente.

Chissà se -almeno per una volta- l’analisi economica potesse riuscire a sottrarsi a un antico adagio: quello che “l’economia è una scienza triste”?

Stefano di Tommaso




ORSI O TORI ? IN BORSA QUALCOSA E’ CAMBIATO

Un anno eccezionale. Questo è sicuramente stato il 2017 e potrebbe risultare anche il 2018. Da quando infatti la Gran Bretagna ha vota per la Brexit e Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America (in media un anno e mezzo fa) i mercati finanziari hanno regalato grandi e insperate soddisfazioni a investitori e risparmiatori e la crescita economica globale si è magicamente sincronizzata, registrando i migliori risultati da molti anni a questa parte. Parallelamente i grandi timori derivanti dalle tensioni geopolitiche e dalle minacce di conflitti nucleari si sono progressivamente sopiti, anche grazie al nuovo corso politico anglo-americano.

 

Ovviamente non tutti i meriti di questa meravigliosa performance vanno ascritti alla leadership politica! La rivalutazione delle borse e di tutti gli altri valori finanziari (ivi compresi i Bitcoin e le altre criptovalute) parte infatti da molto lontano, essenzialmente da subito dopo la grande crisi del 2008, con il varo del Quantitative Easing (QE: allentamento della politica monetaria) in Giappone e in America. E ancora nel 2017 le banche centrali hanno aggiunto oltre mille miliardi di liquidità a quella messa in circolazione dal 2009 in poi, superando nel totale i 15mila miliardi di dollari negli otto anni. Impossibile non tenerne conto quando si vuol comprendere le ragioni delle recenti performance delle borse.


Oggi però che le loro quotazioni sono arrivate davvero molto in alto e il QE sta per essere trasformato in “Quantitative Tightening” (QT: restrizione della politica monetaria) persino nelle aree del mondo dove è arrivato più di recente e dunque la liquidità in circolazione nel mondo sarà progressivamente ridotta. Inoltre con l’aspettativa di ripresa dell’inflazione in conseguenza della ripresa economica l’epoca dei tassi a zero sembra volgere definitivamente al termine e -poiché viene stimata una correlazione vicina al 90% tra gli andamenti delle varie “asset class”- la minor domanda di titoli non potrà non impattare anche nelle quotazioni degli stessi, provocando un loro ribasso e l’attesa di maggior rendimento.

UN CICLO ECONOMICO PROLUNGATO OLTRE OGNI ASPETTATIVA

Ma, per comprendere la strana situazione attuale dei mercati finanziari, occorre tenere presente che i ragionamenti sopra descritti sono validi da almeno un anno e mezzo, dato che già nel 2016 il ciclo economico espansivo era classificabile come uno dei più longevi della storia (e dunque era già allora ragionevole aspettarsi che arrivasse prima o poi una seppur lieve recessione). Ancora all’inizio del 2015 la Federal Reserve Bank of America aveva preannunciato il cosiddetto “tapering” (cioè una riduzione del programma di QE e conseguentemente la prospettiva di ridurre la liquidità immessa in passato, cosa che prelude al QT), sebbene altre banche centrali come quella Europea, avessero iniziato in ritardo con gli stimoli monetari e pertanto non avessero in programma di ridurli a breve.

È in queste nuove condizioni ambientali che nel 2016, mentre la Gran Bretagna votava il divorzio dall’Unione Europea e oltre oceano eleggevano il presidente americano più “populista” che la storia ricordi, sembrava ovvio a tutti che le borse si sarebbero ridimensionate e i titoli a reddito fisso di sarebbero svalutati, riflettendo la volontà delle banche centrali di far risalire i tassi di interesse per prevenire la ripresa dell’inflazione.

E invece no. Forti della straordinaria crescita dei profitti delle aziende quotate nelle borse e della preannunciata (e poi dopo un anno finalmente votata) riforma fiscale americana, i mercati finanziari hanno continuato a correre in avanti, raggiungendo vette stratosferiche e provocando negli investitori incertezza, ma anche al tempo stesso euforia, e la necessità di seguire il flusso dei listini assecondandolo, seppure con sempre maggior scetticismo. Forse è stato proprio questo diffuso scetticismo che ha impedito nell’ultimo anno e mezzo grandi fiammate delle borse ma anche grandi crolli, generando quei livelli minimi di volatilità dei mercati cui ci siamo abituati. Volatilità che da qualche tempo sembra invece risalita (vedi grafico).

LE RAGIONI DEL PESSIMISMO

Dunque sino ad oggi le economie di ogni area del mondo hanno continuato a crescere -anzi si sono sincronizzate tra di loro- senza quasi generare inflazione, provocando una decisa rimonta dei profitti aziendali e impedendo ai mercati finanziari di perdere fiducia in ulteriori accelerazioni economiche e incrementi dei profitti.

Ma evidentemente più i mercati progrediscono più a chi vi investe vengono le vertigini da altitudine. E al primo scricchiolio delle quotazioni tutti si chiedono se non sia arrivato l’inizio della fine.


Anche perché non si può non prendere atto del fatto che, nonostante l’inaspettato progredire della crescita economica globale ben oltre le durate fisiologiche dei cicli economici e nonostante la bassissima inflazione sino ad oggi registrata, il super ciclo economico volga inevitabilmente alla sua conclusione e il contesto generale tenda a una congiuntura meno favorevole per le attività finanziarie.

Tanto per citarne una, la variabile più banale che può aiutare la ripresa dell’inflazione (e dunque provocare interventi restrittivi delle banche centrali) è l’incremento dei salari, conseguenza quasi ovvia della ripresa economica. Esso fa crescere i consumi e, in assenza di forti correttivi (quali l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della produttività del lavoro) fa lievitare anche i prezzi di beni e servizi.

Se vogliamo citarne un’altra eccola: l’aggressiva politica fiscale americana (che mi aspetto venga imitata quantomeno dal Regno Unito) può portare a un maggior debito pubblico da finanziare e alla necessità di collocare un maggior volume di titoli di stato, creando le premesse perché i rendimenti (cioè i tassi a lungo termine) crescano. E data la citata forte correlazione fra gli andamenti delle diverse “asset class”, se i corsi dei titoli a reddito fisso scendono, è probabile che anche quelli dei titoli azionari facciano lo stesso.

Tra l’altro sul mercato finanziario americano da tempo i rendimenti dei titoli obbligazionari hanno oramai superato quelli dei titoli azionari, rendendo ingiustificata la scelta di acquisire attività più rischiose se non ci si può attendere da queste ultime un miglior rendimento. Si veda in proposito il grafico che segue (che tuttavia si ferma al 31.12.2017 mentre oggi il Treasury Bond decennale è tornato al 2,85%):


Ma fino ad oggi altre variabili fondamentali hanno prevenuto un generale “sell-off” (svendita) delle azioni, nonostante le quotazioni stellari e la tentazione di realizzare i profitti accumulati. Quelle ragioni sono state il forte differenziale tra i loro fantastici rendimenti (anche a causa dei crescenti profitti aziendali) e quelli a zero dei titoli a reddito fisso e la grande liquidità in circolazione. Due fattori che, come abbiamo visto, in prospettiva dovrebbero venire meno.

È questo dunque il motivo per il quale ci si aspetta che prima o poi una correzione delle borse faccia breccia sull’eccesso di ottimismo dei mercati riportandoli a un maggior equilibrio e, sebbene sia difficile che essa si trasformi in un crollo generalizzato, bisogna ricordarsi che oltre i due terzi di tutti gli scambi in borsa sono provocati dai “trading systems”, cioè dalle transazioni computerizzate. Queste ultime potrebbero portare ad automatismi che rischiano di autoalimentarsi.

LE RAGIONI DELL’OTTIMISMO

Ma bisogna fare i conti con almeno un altro paio di fattori: la psicologia umana e l’espansione globale dell’economia (vale a dire: l’emersione verso gli standard occidentali dei numerosi paesi emergenti rimasti fino a ieri ai margini della vita civile).

Partiamo da quest’ultimo: la congiuntura favorevole di dollaro basso e materie prime in ripresa sta aiutando non poco gli investimenti infrastrutturali in quei paesi. Non dimentichiamo che appartengono a tale categoria buona parte delle nazioni del mondo e che persino larghe porzioni di popolazioni di Cina e India (la prima è la nuova superpotenza economica mondiale, la seconda si avvia ad esserlo) vivono sotto la ”soglia della povertà”, mentre molti paesi africani e una parte del resto dell’Asia restano a tutti gli effetti “in via di sviluppo” per usare un eufemismo caro ai burocrati delle organizzazioni sovranazionali.


Ebbene la crescita economica sta tirando soprattutto in quei luoghi, sebbene arrivino a beneficiarne anche e soprattutto i paesi più industrializzati che vi esportano macchinari, tecnologie, costruzioni e beni di consumo.

In assenza di nuovi conflitti bellici, di nuove sanzioni indiscriminate, di nuove svalutazioni selvagge, questo fenomeno è destinato a durare, e a portare benefici anche alle grandi corporation quotate alle principali borse mondiali, favorendo la crescita dei loro profitti, attesi per il 2018 in espansione del 12%, cioè tre volte la crescita economica globale.


Ma anche la psicologia può giocare un ruolo importante, sebbene più effimero: oggi i media di tutto il mondo continuano a celebrare una nuova era tecnologica digitale, l’espansione dell’e-commerce, la diffusione della conoscenza e delle scienze, il trionfo delle energie da fonti rinnovabili e in definitiva la maggior sostenibilità ambientale dello sviluppo industriale. Non hanno torto ma sicuramente hanno contribuito alla narrazione di un mondo migliore che sta favoriscegli investimenti e, con essi, la vera crescita economica. Le aspettative -si sa- giocano comunque un ruolo fondamentale in economia. Anche questo fattore porta a pensare che le borse non crolleranno d’un tratto, che l’attuale sistema economico non imploderà tanto facilmente e che l’istinto irrefrenabile degli economisti di ogni epoca di predicare prossimi disastri questa volta non avrà la meglio.

CONCLUSIONI

Difficile perciò che la crisi del 2008 possa ripetersi nel 2018, soprattutto sintantoché il mondo intero continuerà ad arricchirsi. Ma l’investitore medio qualche pausa di riflessione potrebbe anche prendersela, a maggior ragione sintantoché non arriveranno maggiori conferme alle rosee aspettative che supportano le attuali quotazioni stellari.

Stefano di Tommaso




LE BORSE SONO SOPRAVVALUTATE?

Negli ultimi otto anni e in particolare nel corso del 2017 le borse di ogni paese hanno toccato continuamente nuovi massimi, allarmando gli investitori di ogni genere circa la possibilità che il mondo si trovi oggi nel bel mezzo di una gigantesca e ingiustificata bolla speculativa.

 

LA RICERCA DI BENI RIFUGIO NON HA SORTITO EFFETTI CALMIERATORI

L’eventualità che la bolla scoppi è più che concreta, dal momento che, da qualunque angolazione si provi a guardare il fenomeno della corsa dei valori mobiliari, esso appare aver sconfinato nell’eccesso, e da tempo provoca reazioni di ogni genere: dalla ricerca di coperture del rischio di crollo dei mercati attraverso strumenti derivativi di ogni genere, fino alla spasmodica ricerca di diversificare i risparmi in beni rifugio, quali immobili di pregio, beni artistici, metalli preziosi e cripto-valute.

Peró la ricerca di alternative da parte di investitori e risparmiatori avrebbe dovuto limare gli eccessi dei mercati finanziari e invece non ha ancora sortito alcun effetto calmieratorio, né relativamente ai corsi di titoli azionari e obbligazionari (e nonostante anche il programmato rialzo dei tassi di interesse da parte delle banche centrali, da tempo dichiarato e in parte già attuato), né sui volumi di scambio quotidiani delle borse valori e nemmeno sugli investimenti alternativi sopra citati, visti come riserva di valore da un lato, ma sicuramente dall’altro lato “pesati” dagli operatori professionali tanto quanto più o meno tutte le principali categorie di investimento (“asset class”): cioè comunque fortemente correlati agli andamenti di azioni e obbligazioni (quindi con una limitata capacità di sortire una vera diversificazione).

MA L‘ASSET CLASS PIÙ A RISCHIO È QUELLA DEI TITOLI AZIONARI

Ovviamente la categoria percepita più a rischio da chiunque è quella dei titoli azionari quotati alle borse valori, che sono continuamente “prezzati” sulla base dei rendimenti attesi, dei rischi potenziali e, altrettanto ovviamente, sull’appetibilitá degli investimenti alternativi. Molti analisti di mercato si interrogano sull’irragionevolezza delle quotazioni raggiunte ma, come dimostra la storia recente, nessuno al mondo può vantare alcuna certezza al riguardo.

Molti sistemi di calcolo sono stati escogitati per tenere conto non soltanto del rendimento attuale, ma soprattutto di quello prospettico, di quello storico e dei rendimenti alternativi più o meno rischiosi sulla base dei quali costruire delle ipotesi razionali.

Purtroppo occorre anticipare che sembrano non esistere ipotesi razionali di alcuna sorta capaci di “spiegare” il presupposto razionale delle attuali quotazioni, e ciò sebbene siano da tempo al lavoro fior di matematici, premi Nobel e interi dipartimenti universitari per riuscire a comprendere quanto il mondo possa essersi avvicinato alla possibilità di una decisa correzione della crescita in atto delle quotazioni borsistiche, apparentemente infinita.

NON ESISTONO TEORIE ECONOMICHE QUANTITATIVE PER INDICARE VALIDE PREVISIONI

Comunque si giri la frittata il risultato che viene fuori in termini di giustificazione delle valutazioni esistenti è apparentemente privo di senso, più rischioso di quanto non lo fosse ai tempi dello scoppio delle peggiori bolle speculative degli ultimi secoli, e per di più in un contesto di eccesso di indebitamento globale e di prefigurata riduzione della liquidità esistente per effetto di lungamente preannunciate politiche monetarie tendenzialmente restrittive !

Eppure gli operatori non sembrano accorgersene e anzi, con il senno di poi affermano che gli stessi avvertimenti da analisti ed economisti sono giunti loro già un anno e mezzo fa e che, se li avessero ascoltati, oggi avrebbero mancato mostruose opportunità di guadagno. Difficile peraltro smentire il “furor di popolo” e la saggezza collettiva con sofisticate inferenze statistiche e altre diavolerie matematiche che i più non leggerebbero nemmeno.

Qualcuno afferma (probabilmente a ragione) che l’ossatura teorica sottostante ai modelli economici utilizzati è oramai obsoleta, qualcun altro fa notare che essa, quantomeno nel breve e medio periodo è stata smentita dai fatti, mentre “nel lungo periodo”… torna alla mente il memorabile aforisma di John Maynard Keynes: “…saremo tutti morti”!

LE CONSIDERAZIONI “QUALITATIVE”

Ma se gli attuali metodi quantitativi di valutazione delle azioni non sembrano lasciare alcun barlume di speranza nel fornire valide indicazioni per il prossimo futuro sui mercati, proviamo allora ad elencare quelli qualitativi, giusto per non lasciare alcunché di intentato.

Ecco allora che ci si interroga sugli effetti (non sappiamo se solo apparentemente virtuosi) della digitalizzazione di produzione, distribuzione e finanza dell’economia globale, come pure sugli effetti dell’eradicazione di talune pandemie nei paesi emergenti o infine sul semplice loro (vistoso) miglioramento in termini di tenore di vita medio dell’umanità, che sta innalzando il prodotto globale lordo tanto quanto lo sta innalzando la crescita demografica, imputabile anch’essa per lo più ai medesimi paesi emergenti. È evidente infatti che se l’economia globale cresce più rapidamente anche i profitti aziendali accelerano. O infine ci si interroga sugli effetti moltiplicativi della progressiva riduzione della tassazione dei profitti, della liberalizzazione dei mercati, della progressiva globalizzazione e delle nuove flessibilità nel mondo del lavoro.

Tali effetti, unitamente ad un regime globale di tassi bassi come non se ne vedevano da quasi un secolo, inciderebbero non poco sulla stima della corretta capitalizzazione dei profitti aziendali di molte delle società quotate e sulle aspettative della loro ulteriore crescita, riflettendosi indirettamente su un nuovo approccio alla valutazione dei titoli azionari delle medesime. Una prova indiretta di ciò la si può trovare nell’incremento senza precedenti dell’attivitá globale di fusioni e acquisizioni tra imprese, con valutazioni che rispecchiano quelle borsistiche.

L’EFFETTO SULLE VALUTAZIONI DELLA PREVALENZA DI TITOLI TECNOLOGICI

Quanto ai primi fattori sopra elencati (digitalizzazione e globalizzazione) si può riscontrare una progressiva prevalenza sui listini e sugli indici di borsa dei titoli collegati alle nuove tecnologie digitali, molti dei quali sono accreditati di sempre più rapida capacità di crescita e pertanto per questi ultimi i profitti attesi collegati ai titoli azionari andrebbero capitalizzati con fattori di sconto decisamente più contenuti, a causa del correttivo legato alla maggior crescita attesa dei profitti.

Dunque il combinato disposto della crescita attesa dei profitti e della maggior incidenza dei titoli tecnologici sul totale dei listini azionari rende oggettivamente poco paragonabili le quotazioni degli attuali indici di borsa a quelle di anche soltanto dieci o vent’anni fa, e dunque chi si limitasse ad accostare “sic et simpliciter” i moltiplicatori degli utili di ieri e quelli di oggi sbaglierebbe di diverse lunghezze, dati:

  • il minor livello dei tassi di interesse, atteso tale anche per il prossimo futuro,
  • la crescita degli utili derivante dall’impennata dell’attività economica globale
  • l’elevata incidenza dei titoli tecnologici (che scontano attese di forti accelerazioni negli utili previsti) sul totale del listino.

Quanto ai fattori generali (demografia in aumento, riduzione della tassazione e bassi tassi di interesse) non possiamo non notare che la vera differenza sui profitti aziendali attesi (e sulle aspettative di ulteriori crescite degli stessi) arriva dal cospicuo incremento della capacità di spesa e di investimento dei paesi emergenti, la quale attiva le esportazioni dai paesi più ricchi verso quelli più poveri e dunque una crescita indotta anche laddove la demografia resta statica, con ovvia e più forte accelerazione polarizzata nei paesi più avanzati (perché attirano più risorse finanziarie) e in quelli più retrogradi (perché demograficamente e come capacità di spesa crescono più velocemente).

Basteranno questi fattori qualitativi a individuare valide ragioni per giustificare gli attuali livelli ultra-speculativi dei titoli azionari oppure alla fine qualcuno premerà il grilletto e, come o peggio che nel 2008, una parte consistente della ricchezza globale sarà risucchiata da una nuova crisi finanziaria?

Nessuna risposta è breve né certa. Proverò a fornire la mia nel prossimo articolo.

Stefano di Tommaso