INVESTIRE IN TITOLI“ESG”CONVIENE?

La Compagnia Holding
Si fa un gran parlare dell’eccesso di valutazioni che stanno raggiungendo i cosiddetti titoli “ESG” (l’acronimo sta per Environmental, Social, Governance: si utilizza in ambito economico/finanziario per indicare investimenti che tengono in considerazione aspetti di natura ambientale, sociale e di gestione responsabile), e del fatto che, di conseguenza, la bolla speculativa che li ha spinti alle stelle possa essere sul punto di scoppiare. Nei giorni scorsi in cui le borse di tutto il mondo hanno perduto circa il 5% molti sono intervenuti a commentare le forti oscillazioni. A favore e contro dell’investimento ESG tuttavia intervengono diverse considerazioni. Proviamo a vedere quali.

 

La Compagnia Holdin

Dopo avere registrato un breve arresto con la pandemia, negli ultimi 12 mesi il mercato degli investimenti verdi è letteralmente esploso: solo nei primi 6 mesi del 2021 sono stati emessi dal settore privato e dai governi oltre 800 miliardi di $ di debito “sostenibile” (o altrimenti definito ESG); la stessa quantità collocata nell’intero 2020, che si era già concluso con una fortissima crescita (+39% annuo). Per il 2021 le stime più aggiornate puntano ad un controvalore di emissioni a livello globale di circa 1.200 miliardi di dollari (si veda il grafico qui sotto). Per capire l’accelerazione in corso, si consideri che a maggio scorso le grandi banche di investimento avevano stimato un livello di circa 860 miliardi per il 2021.

Il gruppo Enel, uno dei pionieri nel mondo per l’emissione di titoli “sostenibili” ha concluso lo scorso Giugno un’emissione di bond per il controvalore di €3.25 billion (US$3.83 billion).

Ma cos’è il Rating ESG (o Rating di sostenibilità)? La definizione data dalla CERVED è quella di ”un giudizio sintetico che certifica la solidità di un emittente, di un titolo o di un fondo dal punto di vista degli aspetti ambientali, sociali e di governance”.

ATTENZIONE A TRE FATTORI

Come possiamo allora individuare le imprese che possono godere di un buon rating ESG? CERVED sostiene che: le imprese devono mostrare attenzione a tre fattori:

  • quello ambientale (Enviromental): che considera i rischi legati ai cambiamenti climatici e quindi attenta alla riduzione delle emissioni di CO2, all’efficienza energetica, all’efficienza nell’utilizzo delle risorse naturali (es. acqua), che adotta politiche contrastanti all’inquinamento dell’aria e dell’acqua e allo spreco delle risorse naturali e alla deforestazione;
  • quello sociale (Social): che include politiche qualitative per l’ambiente di lavoro, per le relazioni sindacali, per il controllo della catena di fornitura, oltre che attenta alle diversità di sesso, abilità ed età, agli standard lavorativi, alle condizioni di sicurezza sul posto di lavoro, al rispetto dei diritti umani e ad una assunzione di responsabilità sociale a tutto tondo;
  • quello di governo societario (Governance): che riguarda l’etica e la trasparenza del governo societario e che riguarda la presenza di consiglieri indipendenti o non esecutivi, le politiche di diversità nella composizione dei CdA, la presenza di piani ed obiettivi di sostenibilità legati alla remunerazione del board, oltre che, le procedure di controllo, le policy e più in generale i comportamenti dei vertici e dell’azienda in termini di etica e compliance.

L’INDAGINE TRA 277 INVESTITORI PROFESSIONALI

Vediamo innanzitutto quanto è ampio il fenomeno dell’investimento in titoli marchiati ESG: da una recente indagine svolta da Campden Wealth (una società di ricerca basata a Londra) insieme con Global Impact Solutions Today (una società di consulenza) e la Banca Privata di Barclays, su un campione di 277 investitori professionali e istituzionali, l’86% degli stessi dichiarava che “l’allocazione di capitali su titoli che mostrano un buon rating ESG è essenziale per fare qualcosa per l’ambiente, dal momento che i governi non stanno facendo abbastanza”.

Secondo la suddetta indagine (Campden/GIST/Barclays) la percentuale dei titoli cosiddetti “impact” (cioè con un buon livello di rating ESG) acquisiti dai gestori di portafogli è passata quest’anno al 41% del totale contro il 36% del 2020 e il 18% del 2019. Dunque è arrivata a quasi la metà del totale più che raddoppiando rispetto a due anni fa. Il fenomeno è perciò particolarmente macroscopico perché lo si possa trascurare.

Se poi prendiamo il totale degli investitori “tradizionali” (quelli che in teoria sarebbero i più restii ad abbracciare politiche di investimento fortemente orientate) il addirittura il 48% dei medesimi afferma che i fattori ESG hanno giocato un ruolo nella selezione degli investimenti. Se invece prendiamo a riferimento i soggetti che investono “primariamente” in titoli ESG la loro quota sul totale degli investitori è cresciuta in due anni dal 13% del 2019 al 19% del 2021: quasi un quinto del totale!

Ma è soprattutto sui rendimenti da investimenti di tipo “responsabile” (dai quali perciò non ci si aspetta soltanto la performance) che arriva la vera sorpresa: il 60% dei gestori intervistati afferma di avere ottenuto ritorni in linea con le loro aspettative e addirittura un ulteriore 19% del totale afferma di aver fatto un miglior affare con quei titoli, dal momento che hanno sovraperformato rispetto alle aspettative.

UN BUON AFFARE

L’industria degli investimenti “verdi” pertanto sembra cogliere i classici due piccioni con una fava: se da un lato supporta la lodevole intenzione di avere un effetto positivo sull’ambiente, dall’altro lato sembra proprio che quattro quinti degli investitori afferma di essere soddisfatto dei risultati ottenuti in termini di guadagno. Cioè sarebbero anche un buon affare.

La cosa viene confermata da un’altra indagine relativa alla strategia di dividendi perseguita da Matrix, New York, che gestisce una massa di circa un miliardo di dollari e che ha separato tutti i titoli detenuti storicamente in portafoglio in due gruppi: uno relativo a quelli con buon rating ESG e un’altro relativo a tutti gli altri. Il risultato mostra come in media, negli undici anni dal 2010 allo scorso 30 giugno, il rendimento annuo in termini di dividendi dei titoli ESG ha superato il 12,5%, contro circa lo zero (in media) per i titoli non-ESG.

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S&p global

Ovviamente il risultato è sicuramente stato “deviato” dal fatto che prima di questo periodo non c’erano quasi titoli con rating ESG e che quindi si è prodotto nel tempo un effetto-sostituzione (con l’arrivo di una maggior consapevolezza ambientale) che non è così scontato possa ripetersi anche in futuro.

Ci sono poi (come sempre) le trappole per investitori non esperti: i titoli (soprattutto azionari, dove il rating ESG non è abituale) che si “tingono” di verde con qualche accrocchio e che in realtà poco hanno a che fare con la sostenibilità ambientale. Da quei titoli bisogna stare alla larga soprattutto per il fatto che nel tempo le analisi di sostenibilità si fanno più precise e i “bluff” vengono puntualmente scoperti, con immancabili tonfi nelle quotazioni.

LA TENDENZA PROSEGUIRÀ

Quale conclusione trarre da questa indagine? Nessuna, a livello di solide indicazioni per il futuro. Ma come sempre d’altronde. A livello intuitivo possiamo soltanto notare che il momento è particolarmente favorevole e che l’esigenza di attuare un serio contrasto al cambiamento climatico è appena arrivata agli onori della cronaca.

Dunque è molto probabile che la tendenza a privilegiare titoli ESG tra gli investitori proseguirà ancora a lungo e inoltre, in questo momento di (probabile) metà ciclo, i titoli colorati di verde possono spesso essere considerati come più “resilienti” ad eventuali correzioni dei corsi…

Stefano di Tommaso




L’ITALIA ALLA PROVA DEL RATING

Il prodotto interno lordo (PIL) nazionale nel 2018 aumenterà “soltanto” dell’1,3%, ma soprattutto saranno i consumi a mostrare la crescita più lenta: +1%, la più bassa dal 2014. In soldoni scenderanno di 5 miliardi di Euro rispetto a quanto previsto, in controtendenza rispetto al resto d’Europa, dove la ripresa è più solida. A fine 2017 infatti i consumi segnavano aal’incirca +11% in Germania, +9% in Francia, +5% in Gran Bretagna rispetto al 2007, mentre in Italia erano sotto di quasi il 3% (€26 miliardi). E questo in assenza degli ancora possibili rincari dell’IVA (previsti dalle clausole di salvaguardia) che abbatterebbero in modo molto più deciso le prospettive per gli anni futuri incrementando il divario con il resto del continente.

 

L’INDAGINE DEL C.E.R. PER CONFESERCENTI

Il grido d’allarme proviene da Patrizia De Luise, Presidente di Confesercenti, per la quale il centro di ricerche CER ha pubblicato un’indagine macroeconomica impietosa. Senza una ripresa del mercato interno -prosegue la De Luise- le piccole e medie imprese italiane resteranno al palo, oberate da una tassazione media al 60% dei redditi e da un eccesso di burocrazia che pesa 22 inutili miliardi l’anno. Poi c’è la diminuzione del credito alle imprese, che solo l’anno scorso si è ristretto di 12 miliardi, mentre i tassi che salgono (a casa nostra piu che altrove per effetto del rialzo dello spread, arrivato a ridosso del +3% rispetto ai titoli tedeschi) contribuiscono ad annegare la competitività nazionale.

 

SERVIREBBE UN FORTE STIMOLO PER L’ECONOMIA

Dunque servirebbe un forte stimolo all’economia italiana, una riduzione della spesa improduttiva e un incentivo agli investimenti, ma per farlo lì per lì ci vogliono risorse pubbliche e invece le pressioni della Commissione Europea sul nuovo governo vanno esattamente nella direzione opposta: ridurre il deficit anziché incrementarlo (l’anno scorso quello di Gentiloni si era limitato allo 0,9% sul PIL). La negoziazione in corso tra il ministro Tria e il commissario europeo Moscovici (guarda caso un altro francese) verte perciò su un deficit dell’1,5% (circa 10 miliardi in più di spesa rispetto allo 0,9%) ma che è lontano dal 3% indicato come tetto massimo dal Patto di Stabilità sul bilancio europeo.

 


Ma per evitare lo scatto delle clausole di salvaguardia legate all’aumento dell’Iva sono necessari 12,4 miliardi, uno sforzo che vale 0,7 punti percentuali di deficit. I provvedimenti cardine del contratto di governo dovranno essere coperti con tagli alla spesa o con aumenti di entrata che, evidentemente, avrebbero un effetto depressivo sull’economia italiana.

Il ricatto morale è evidente: la Francia è rientrata sotto il tetto del 3% di disavanzo pubblico sul PIL soltanto l’anno scorso, ma il vero problema dell’Italia sono indubbiamente le prospettive: se l’economia non cresce il problema si avvita su sè stesso e il debito pubblico risulta insostenibile (come si può vedere dalle tabelle e grafici qui sotto riportati) e la Commissione Europea ne approfitta per mettere in difficoltà un governo che da altri punti di vista (immigrazione, BCE, eccetera) non ha perso occasione per fare polemiche.

IL CONFRONTO CON IL RESTO D’EUROPA

1) La storia recente dei deficit pubblici

2) Le previsioni delle principali voci macro-economiche per il 2018

 


3) La crescita del PIL in Europa nel 2017(primo grafico) e negli ultimi 10 anni(secondo)

 

 

IL RICATTO DEL RATING

Il vero punto di caduta però ancora una volta potrebbero determinarlo le Agenzie di Rating (quelle società “indipendenti” che valutano il merito di credito della nazione). Pochi giorni fa la prima di queste, in scadenza di revisione del nostro punteggio, la Fitch, non ha tagliato il suo giudizio sul debito sovrano dell’Italia (l’Italia merita ancora un punteggio BBB) sebbene abbia rivisto l’outlook (la prospettiva) facendo sapere che d’ora in poi le azioni del governo saranno sotto stretta osservazione.

Ora si dovranno attendere i pareri di S&P’s e Moody’s. Ed è chiaro che la differenza la farà il Documento programmatico di Economia e Finanza (DEF), in febbrile lavorazione in questi giorni. Se sarà innovativo, pragmatico, costruttivo e prudente forseagmatico, costruttivo e prudente forse riuscirà a convincerle della bontà dei programmi del nuovo esecutivo. Ma molti vedono nel potere discrezionale delle agenzie di rating la “pistola puntata” dei poteri forti nei confronti di un esecutivo che ne denuncia le nefandezze. Dunque certi risultati potrebbero giungere “a prescindere” dall’effettiva capacità di chi governa il Paese.

Fitch, che ipotizza nuove elezioni politiche nel corso del 2019, vede una tendenza dell’Italia a concedersi ulteriori politiche di spesa “che renderà il già elevato debito più esposto rispetto a potenziali shock” arrivando a prefigurare l’uscita del nostro Paese dall’Unione Europea . Fitch stima perciò nel 2018 un deficit che arriva all’1,8% del Pil (più alto di 0,3 punti rispetto alle stime) e al 2,2% del Pil nel 2019.

L’APPETIBILITÀ DEI TITOLI DI STATO

Dunque il vero sorvegliato speciale è il rapporto del deficit di bilancio con il prodotto interno lordo. L’aspettativa di vedere in crescita di quest’ultimo e, di conseguenza, la qualità della spesa pubblica (se essa sarà rivolta ad investimenti produttivi, per esempio a stimolare quelli infrastrutturali piuttosto che a mero assistenzialismo, cioè vecchia maniera) è essenziale per giudicare la sostenibilità del debito pubblico italiano, cioè l’appetibilità delle nuove emissioni di titoli di stato.

 

E LA BORSA NE RISENTE

Dopo che in primavera è stato pubblicato il programma di governo, tra i detentori di Bot e Btp è aumentato il peso delle banche italiane (da 345 a 373 miliardi nel mese di maggio) e delle istituzioni finanziare italiane (da 422 a 445 miliardi), mentre è diminuita l’esposizione di investitori esteri (da 722 a 699 miliardi) e di altri residenti italiani (da 95 a 80 miliardi). È chiaro tuttavia che se la tendenza dovesse proseguire sarebbero i rating di queste ultime a rischio. E poiché molte di esse sono quotate in borsa, non è un caso che le loro quotazioni scendano e, con esse, l’intero listino.

 

Una buona occasione per comperare titoli mediamente sottovalutati a causa della disaffezione verso il listino di Milano, oppure un primo segnale d’attenzione per ciò che può succedere a breve all’Italia se un’altra bufera finanziaria si abbatterà sulla credibilità del nostro fragile bilancio pubblico.

 

Stefano di Tommaso




COSA SUCCEDE AL SISTEMA BANCARIO ITALIANO?

Il discorso di insediamento del nuovo presidente del consiglio dei ministri non è piaciuto ai mercati finanziari. Lo spread tra i titoli decennali tedeschi e quelli italiani si è avvicinato a quota 240 punti e la borsa ne ha sofferto, ma soprattutto sono finite sugli scudi le banche italiane, detentrici di una buona quota dei titoli del debito pubblico in circolazione.

Stavamo subendo ancora L’onda lunga del panico creato dallo stop del presidente della repubblica ad un nuovo governo giudicato troppo in contrasto con i diktat dell’Unione Europea, che aveva mosso le agenzie di rating sui timori che la situazione generale potesse evolvere negativamente sulle orme di quanto successo in Grecia in precedenza.


IL DISCORSO DI CONTE

 

Ma fino all’altro ieri si poteva biasimare quasi solo Mattarella per aver instillato quei timori, alimentando il circolo vizioso della svendita dei titoli di stato da parte degli investitori esteri che alimenta lo spread e fa calare le quotazioni delle banche italiane le quali a loro volta diventano le prime venditrici nette di titoli onde evitare di essere considerate a rischio. Ieri pomeriggio invece, dopo l’autocelebrazione del nuovo Governo in Parlamento, ecco riemergere sui mercati finanziari forti dubbi sulla possibilità che la maggior spesa pubblica ipotizzata da Conte nel suo discorso possa davvero instaurare un processo di crescita economica tale da controbilanciare il maggior deficit che ne può discendere.

Purtroppo il discorso di Conte non ha tenuto in debita considerazione le esigenze di chiarezza dei mercati finanziari, di precisazione degli orizzonti temporali e delle concrete previsioni che possono discendere dalle manovre un po’ vagamente annunciate. Un errore di inesperienza che però rischia di costare caro al sistema-paese. Se da una parte c’è la volontà di non subire i ricatti dei mercati finanziari, dall’altra non si possono commettere simili ingenuità: se Conte invece che presidente del Consiglio dei Ministri fosse divenuto presidente di una società quotata, con quell’allocuzione forse i suoi azionisti ne avrebbero già chiesto le dimissioni !

Uno studio di Morgan Stanley in proposito mette in triste evidenza i possibili danni al nostro Paese in caso di innalzamento dei tassi di interesse (ad oggi tenuti artificialmente bassi grazie al Quantitative Easing della Banca Centrale Europea):


IL SISTEMA BANCARIO NAZIONALE È A RISCHIO

Chi tuttavia sino ad oggi ne ha pagato di più le conseguenze sono state le banche italiane. Principalmente perché l’ammontare dei titoli di stato detenuti spesso supera il loro patrimonio netto, ma anche per altri motivi, dal momento che le perdite in conto capitale su quei titoli potrebbero spingerle a rimandare il completamento della pulizia di bilancio sui “crediti non performing” che ancora contano per circa il 10% del totale in portafoglio (pulizia che comporta -ogni volta che la si fa- la registrazione di una perdita in conto capitale).




ALLA RICERCA DELL’EFFICIENZA

Il fenomeno è divenuto nel suo complesso così vistoso che c’è da chiedersi se, a sua volta, non determinerà altri effetti a catena, e accade proprio nel momento in cui le prime 14 banche italiane stavano iniziando a sperimentare la possibilità di affidare la sicurezza delle proprie transazioni alla tecnologia del Blockchain, il cui principale vantaggio risiede nel “non dipendere da un unico soggetto centrale” (leggi: le banche centrali). Quasi una prova tecnica di negoziazione dei famigerati Minibot! Ufficialmente le sperimentazioni spaziano dalla digital identity, alla gestione dei bandi di gara, alle piattaforme di donazioni e ai pagamenti internazionali.

Del resto più in generale il fintech (la tecnologia digitale applicata agli intermediari finanziari) sta erodendo quote di mercato agli operatori tradizionali, e spinge il mondo bancario ad autoimporsi una vera e propria rivoluzione, alla ricerca di una maggior efficienza nei costi e di nuove frontiere dove ottenere quei margini che altrove vengono erosi. Ma la strada è molto lunga e al momento è stata appena imboccata, e riguarda l’intero comparto europeo, quasi senza esclusioni.


Bank of America-Merrill Lynch, con un report intitolato “Bye bye Euro? Downgrading the banks”, taglia i target price sulle quattro principali banche italiane, mentre Mediobanca, resta l’unica con giudizio buy. Banco Bpm è stato ridotto da neutral a underperform con prezzo obiettivo da 3,5 a 2,2 euro, Intesa Sanpaolo da buy a neutral (da 3,6 a 3 euro),Ubi Banca da neutral a underperform (da 4,5 a 2,9 euro), Unicreditda buy a neutral (da 21 a 16 euro).

Tutto questo sebbene il medesimo studio faccia notare quanto negli ultimi sette anni sia cresciuta la loro capitalizzazione e anche la loro efficienza operativa.

Probabilmente questo percorso virtuoso andava imboccato con largo anticipo, invece di pensarci adesso che rischia di essere troppo tardi. Ma se il Governo del paese non rispolvera presto quel sanissimo quanto desueto concetto di “concertazione” tra le parti economiche e sociali, allora è possibile che il grilletto della nuova recessione verrà tirato proprio dal sistema bancario!

 

Stefano di Tommaso




AAA OTTIMISMO CERCASI

Sui mercati finanziari europei aleggia il fantasma di una nuova ondata di pessimismo. Non dipende da un fattore in particolare, bensì da una “sfortunata serie di eventi” come titolava Lemony Snickets (pseudonimo di Daniel Handler) in una fortunatissima serie di romanzi dark per ragazzi. Se però numerosi indizi fanno almeno una prova ecco che si fa avanti l’idea che per il vecchio continente il clima di generale ottimismo possa essere repentinamente cambiato.

 

LE BANCHE RISENTONO DELLA SFIDUCIA

Se vogliamo cominciare dal settore bancario, forse di incidenti ne scorgiamo più di uno, a partire dal fallimento del Banco Popular, salvato in Giugno dal Santander (che ha permesso di risparmiare i depositanti) ma dove il buco per azionisti e obbligazionisti “junior” è risultato pari a 37 miliardi di euro, il doppio delle popolari venete.

Ed esattamente come nel caso di queste ultime, se la normativa europea può adattarsi alle circostanze (in funzione degli interessi commerciali e strategici di questo o quel paese che la domina) invece di risultare un baluardo di certezza, ecco che il resto del mondo torna a guardare i nostri mercati finanziari come noi normalmente apostrofiamo quelli del sud-America !

LA NUOVA NORMATIVA SUI NON PERFORMING LOANS

Il recente “giro di vite” della Banca Centrale Europea sui crediti deteriorati infatti sicuramente non ha riempito di gioia chi aveva appena rotto gli indugi ed era tornato a investire sulle banche europee, perché esso obbliga queste ultime a coprire entro sette anni con nuove risorse di capitale le perdite sugli NPL (non performing loans), ma soprattutto le obbliga a coprire entro due anni i crediti deteriorati di più recente formazione. Di fatto la BCE sta comunicando alle banche europee che devono raccogliere più capitale e l’effetto silurico sulle quotazioni delle medesime risulta ovvio persino a un bambino.

Preoccupanti anche le nuove stime circa l’ammontare complessivo dei crediti deteriorati in Europa: si presume che essi superino i mille miliardi di euro nominali, by-passando dunque la speranza che la normativa potesse non affliggere più di tanto il mercato dei capitali.

I TASSI CRESCONO

Se non vogliamo proseguire con l’ovvia elencazione di sfortunate coincidenze che sono culminate nella quasi-guerriglia urbana di Barcellona, ecco che un altro fattore di “attenzione” torna alla ribalta: i tassi impliciti sul mercato dei bond (che non rendono più quasi nulla) stanno tornando a crescere, in particolare in Italia (vedi grafico), rovinando la festa alle quotazioni del mercato dei titoli a reddito fisso (bonds) che devono quindi riallinearsi verso il basso.


Paragoniamo per un attimo i nostri mercacon quello americano: l’indice curato da Merril Lynch sui bond europei ad alto rendimento ci segnala un tasso medio di ritorno del 2,3%. Esattamente il medesimo dei titoli di stato americani a dieci anni. Ora, cambi valute a parte, voi quale preferireste tra i due rischi?

Il punto è che la BCE ha incentivato l’acquisto di obbligazioni aziendali in Europa da parte degli investitori istituzionali, anche per lasciarle libero il mercato dei titoli di stato sul quale l’offerta iniziava a scarseggiare in presenza del programma di acquisti noto comunemente come Quantitative Easing, tutt’ora in corso. Ovviamente tutti si chiedono quando finirà cosa succede al mercato e, nel dubbio (che è quasi una certezza) arrivano le prese di beneficio.

LE BORSE EUROPEE SONO SATOLLE


Se vogliamo infine porre la ciliegina sulla torta l’indice di borsa EuroStoxxs è cresciuto, da un anno a questa parte, dell’80% lasciando spazio a più di una vendita per realizzare i profitti accumulati soprattutto da parte di quegli investitori asiatici che avevano puntato a guadagnarci ben due volte: con le borse e con il cambio delle valute. Anche quest’ultimo ha arrestato la sua corsa e adesso si parla di tornare a rivalutare l’Euro solo a partire dal nuovo anno (una boccata d’ossigeno per l’Italia).

Si è anche visto con le prese di beneficio occorse nel primo giorno di quotazione della Pirelli: il più grande collocamento di sempre della Borsa Italiana ha lasciato un po’ tutti con la bocca amara. Fosse passato qualche altro giorno magari sarebbe stato addirittura rinviato!

Sappiamo anche che le attese per un lieve recupero del prezzo del petrolio e dei “consumabili” energetici (gas, carbone, ecc…) non faranno piacere all’industria del vecchio continente e che il record di esportazioni europee (che aveva favorito soprattutto le imprese cisalpine) raggiunto nella prima parte del 2017 non è destinato a durare nel tempo, anche a causa del cambio contro dollaro, che a partir dall’inizio dell’estate ne ha peggiorato la competitività.

NUOVI RATING ALL’ORIZZONTE?

Manca solo il “colpetto” decisivo delle immancabili puntate autunnali delle agenzie di rating sui mercati europei (tutte rigorosamente americane) perché i medesimi tornino a ridimensionarsi in maniera più consistente, ancora una volta a favore di quelli d’oltreoceano. È la legge del più forte (lo Yankee), che alla fine vuole il bottino maggiore sui mercati.

Sarebbe lui il conte Olaf dell’arcinota serie di romanzi di Lemony Snickets? Come diceva sempre il Divo Giulio quando gli facevano domande cattivelle: “a pensar male si fa peccato, però…

Stefano di Tommaso