IL RALLY DELL’ORSO

Il recente e un po’ improvvisato ottimismo delle borse valori ha riaperto più che mai il dibattito sugli scenari economici che si profilano per l’anno a venire, iniziando a mettere in discussione la narrativa prevalente secondo la quale il mondo andrebbe diritto incontro alla recessione. Anzi: proprio a proposito dei cicli economici si sono scomodati i più illuminati pensatori dell’Occidente per cercare di comprendere quale futuro ci attende, pur senza concludere su nulla di sicuro, se non nel prendere atto del fatto che l’economia globale non si limita mai soltanto ad oscillare tra riprese e recessioni, bensì ad ogni ciclo intervengono numerosi fattori di novità che stravolgono le previsioni più scontate per dare spazio a nuove e inconsuete prospettive. E questa fine d’anno difficilmente farà eccezione.

(nel grafico l’andamento nell’ultimo anno del più diffuso indice azionario a Wall Street)


NESSUNA CERTEZZA

Dunque il dibattito tra gli osservatori è acceso, e di certezze ce ne sono sempre meno: da un lato si scommette sul fatto che il rialzo dei listini azionari cui stiamo assistendo oramai da più di un mese potrebbe non essere altre che un “bear market rally” ovvero un rimbalzo nell’ambito di un mercato “orso” cioè ancora in discesa. A suggerire questa sensazione sono soprattutto i dati macroeconomici che sembrano proprio indicare una recessione in arrivo, con la conseguenza più ovvia che, in caso di recessione, i profitti aziendali dovrebbero necessariamente ridursi, e con essi anche le valutazioni delle società quotate.

Però, al di là delle oscillazioni giornaliere, nessuno può esibire certezze al riguardo, dal momento che ancora una volta al momento l’economia americana sembra reggere benissimo ai venti di crisi. E a certificarlo interviene il dato sulle vendite al dettaglio realizzate durante il cosiddetto “Black Friday” (cioè le promozioni di fine novembre): ben 9,1 miliardi di Dollari: un vero e proprio record! D’altra parte la disoccupazione americana stenta ad aumentare e la situazione politica sembra essersi stabilizzata. Dunque può davvero succedere di tutto nel 2023.

L’economia europea dal canto suo sembra essere meno in forma ma al tempo stesso le borse europee (che erano cadute di più) a partire da Ottobre sono rimbalzate di più, come si può vedere nel grafico qui sotto riportato, sulla scia della ripresa di un qual certo ottimismo sul prezzo dell’energia, che incombe come una mannaia sull’economia del vecchio continente.


Il prezzo dell’energia infatti, insieme alle quotazioni di petrolio e gas, continua a scendere nonostante tutto, portandosi dietro la speranza di una cospicua riduzione dell’inflazione, che per ora però si è vista soltanto negli Stati Uniti d’America. Ora ci si aspetta che possa propagarsi presto anche all’Europa, e ciò accade proprio quando poteva invece arrivare il peggio: cioè quando potevano avviarsi meccanismi perversi di inseguimento da parte dei salari, dei servizi e dei prezzi al consumo ai rialzi nella prima parte dell’anno delle materie prime e dei semilavorati.

GLI INDICATORI ECONOMICI NON AIUTANO L’OTTIMISMO

Fattori che in passato hanno propagato indiscriminatamente il fenomeno inflattivo e che invece -almeno in Europa- negli ultimi mesi non si sono quasi mossi al rialzo. Anche perché il rallentamento complessivo della crescita dell’economia reale c’è comunque stato (in tutto il mondo, sinanco nell’estremo oriente) e il rischio di chiusure aziendali e fallimenti incombe ancora più che mai.


L’INCOGNITA DEL DOLLARO FORTE

Un altro fattore che ha aiutato -sino ad oggi- ad evitare il peggio nel rialzo dei prezzi al consumo è stato sicuramente il rallentamento della corsa del Dollaro americano, sebbene non si possa parlare di una vera e propria inversione di tendenza. Questo (così come il ribasso di petrolio e gas) ha contribuito a calmierare il rialzo dei prezzi alla produzione per il resto del mondo, fornendo prospettive migliori per scongiurare l’aggressività futura delle banche centrali, alle prese con uno spiazzamento che non si ricordava dagli anni ‘70 (sono cioè rimaste così indietro rispetto al rialzo dei tassi che hanno iniziato a scatenarsi con rialzi repentini senza precedenti sino ad oggi, che però il mercato finanziario oggi stima non potranno continuare indiscriminatamente).

L’AGGRESSIVITÀ DELLA FED

E se le banche centrali alla fine ridurranno la pressione al rialzo dei tassi d’interesse le quotazioni azionarie ne potranno ricevere ulteriore impulso. E’ stata in particolare quella americana a mostrare la peggiore aggressività, con una serie di bruschi rialzi (e l’annuncio di voler proseguire senza meno anche nel prossimo anno) che non hanno precedenti nella storia. Anche per questo motivo la tendenza di fondo del biglietto verde resta al rialzo.

Nel grafico che segue si può vedere chiaramente non soltanto la proiezione a breve termine verso la soglia psicologica del 5% per i tassi federali di rifinanziamento delle banche americane, ma anche la possibilità che arrivino a toccare il precedente picco del 7% un quarto di secolo addietro! Non tutti quindi concordano con l’ottimismo mostrato nelle settimane dagli investitori sui listini azionari.


I RISCHI LEGATI ALLA GUERRA

Per esempio secondo l’ufficio studi del Crédit Suisse i mercati non stanno tenendo conto delle incognite legate alla guerra, per ora assai fredda da parte dell’America nei confronti della Cina (con la quale evita uno scontro diretto ma continua a impedire all’intero Occidente di esportarvi tecnologia). Guerra invece assolutamente calda dell’intero Occidente nei confronti della Federazione Russa, attraverso i numerosi supporti forniti all’esercito ucraino e attraverso le innumerevoli sanzioni che continuano a venire deliberate, soprattutto alla Commissione Europea, nonostante gli inviti ufficiali di Biden a Zelenski a sedersi presto al tavolo della pace.

E se la guerra dovesse continuare oltre la fine del presente anno diverrebbe chiaro che l’ottimismo di queste settimane risulterebbe mal riposto, con il rischio di tramutarsi in fretta in un nuovo pessimismo, e la conseguenza ulteriore che anche i ribassi nelle quotazioni di petrolio e gas potrebbero terminare (e l’inflazione riprendere la sua corsa).

QUANTO SALIRANNO I TASSI D’INTERESSE?

L’altra grande incognita sono -come già scritto- saranno i tassi d’interesse: se l’economia globale non entrerà in recessione sarà più probabile che le banche centrali proseguano nel rialzo dei tassi, anche ben oltre quel 5% che al momento appare l’obiettivo più probabile. E le banche centrali -se dovessero eccedere nell’ austerità- avrebbero da sole il potere di spedire l’economia dell’intero pianeta in recessione e questo senza dubbio farebbe ancora più male al mercato azionario.

Se ciò accadesse tra l’altro, sarebbe la prima volta che ci troveremmo di fronte ad una recessione con ben pochi strumenti di politica economica ancora utilizzabili per venirne fuori, dato il livello già elevatissimo di indebitamento pubblico e la grande quantità di titoli ancora in portafoglio delle banche centrali. E come se non bastasse bisogna tenere conto del fatto che tassi d’interesse troppo elevati danneggerebbero inevitabilmente la fiducia nella sostenibilità dei debiti pubblici dell’intero Occidente e prima di tutto metterebbero a rischio la tenuta della divisa unica europea, stante la situazione critica di paesi come l’Italia, la Grecia e il Portogallo.

QUANTO DIPENDE L’INFLAZIONE DAI CONSUMI?

Non solo: il capo economista di Moody’s Analytics Mark Zandi ha calcolato che quasi il 60% dell’attuale inflazione americana è imputabile a strozzature dell’offerta di beni più che all’eccesso di domanda, la quale a suo avviso non supera il 28% delle cause dell’inflazione. Se ciò corrispondesse a verità ci sarebbe il serio rischio che gli aumenti del costo del denaro andrebbero a limare soltanto quel 28% di fattori che determinano il rialzo dei prezzi, mentre rischierebbero di risultare quale ulteriore causa dell’aumento dei prezzi a causa del rialzo conseguente del costo del denaro che andrebbe ad aggiungersi ai costi di produzione. Insomma un vero e proprio autogol! E se questo vale per gli USA figuriamoci per l’Europa, dove i consumi sono storicamente molto più deboli.


Nessuno dunque può affermare alcuna previsione al momento senza rischiare di cadere presto nel ridicolo: non c’è chiarezza tra gli accademici circa le manovre più opportune per combattere l’inflazione così come non c’è nemmeno chiarezza circa l’andamento effettivo del ciclo economico: siamo sulla china di una brutta recessione o alla vigilia di una sorprendente ripresa? Se si guarda alla spettacolare inversione della curva dei tassi in Germania (che da sola conta per quasi un quarto dell’eurozona), la risposta appare purtroppo quasi scontata:

L’OCCIDENTE RISCHIA, L’ESTREMO ORIENTE CORRE

E soprattutto quella sincronizzazione dell’andamento economico che aveva caratterizzato il periodo precedente all’arrivo della pandemia oggi sembra essere perduta: c’è chi si arrischia a prevedere che quest’anno in arrivo l’economia della Cina crescerà addirittura del 5,5%, contro una previsione di crescita economica europea poco sopra lo zero assoluto e di crescita per l’intero pianeta, paesi emergenti compresi, di un mero 2,7%. Potremmo assistere dunque a cicli economici quasi inversi da una parte all’altra del pianeta.

Dunque il 2023 rischia di passare agli annali come l’anno della riscossa del continente asiatico, nonostante i boicottaggi americani e nonostante le tensioni geopolitiche alle stelle. Se però il continente asiatico dovesse assicurare all’economia globale un valido supporto sinanco le previsioni nere che riguardano l’Europa potrebbero essere riviste, non solo a causa di probabili maggiori esportazioni da parte del vecchio continente ma anche perché la liquidità in eccesso che si genererà in Asia andrà inevitabilmente a corroborare quella che mancherà invece in Occidente (favorendo indubbiamente i mercati finanziari). La banca centrale cinese insomma potrebbe arrivare a prendere il posto di quella americana quale punto di riferimento nel mondo!


E in un mondo che sembra correre a due diverse velocità, il blocco occidentale rischia di seppellirsi da solo dietro ad una retorica oltranzista anti-russa. Mentre quello asiatico potrebbe trarne il massimo profitto. Il che non appare esattamente come un buon presagio per le borse occidentali.

Stefano di Tommaso




UN MONDO SEMPRE PIÙ DIVISO

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Le agenzie di rating stanno sottolineando oggi ciò che su queste colonne scriviamo da mesi: il mondo occidentale sembra avviarsi verso una recessione feroce, provocata da inflazione e guerra e acuita dall’approccio da falco delle banche centrali che hanno provocato a loro volta anche un terremoto valutario. Le speranze di una ripresa dei mercati si assottigliano di conseguenza e una serie di fratture si evidenziano non soltanto fra Oriente e Occidente, ma anche tra le singole economie.

 

Lo scenario al momento si fa decisamente grigio, tanto per l’industria quanto per la finanza, oltre che profondamente diviso: da una parte dell’Occidente ci sono gli Stati Uniti d’America, non soltanto protagonisti tanto dell’oltranzismo in guerra quanto delle sanzioni alla Russia ma anche speculatori sui mercati energetici e degli armamenti, e dall’altra parte ci sono in ordine sparso gli stati europei, oramai frammentati sino quasi a dimenticare che dovrebbe esistere una Commissione Europea a coordinarli.

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Oltre “cortina” ci sono Russia, Cina e India, le quali -forti di tendenze demografiche positive- stanno approfittando della stasi europea per guadagnare posizioni e spazi economici nel rapporto con numerosi paesi emergenti i quali non possono che fare le spese di un dollaro troppo forte e tassi d’interesse che rendono insostenibili i debiti contratti per le infrastrutture. L’India prevede di chiudere il 2022 con una crescita del 6,8% del P.I.L. mentre per il 2023 prevede una crescita del 6,1%. La Cina passerà dal 3,2% del 2022 al 4,4% l’anno prossimo. Il confronto con l’Occidente è feroce: gli USA passeranno dall’1,6% del 2022 all’1% nel 2023, l’Unione Europea dal 3,1% del 2022 allo 0,5% del 2023. (qui sotto il grafico dell’indice composito MSCI dell’andamento borse appartenenti alle economie emergenti, sceso vistosamente nell’ultimo anno e mezzo)

LA COMPAGNIA HOLDINGMa nemmeno i Paesi Emergenti fanno blocco unico, anzi! Al vertice di Samarcanda della SCO (Shangai Cooperation Organization) c’erano rappresentanti di Cina, Russia, India, Iran, Pakistan, Kazakistan, Kirghizistan e molti altri. Vorrebbe entrare a farne parte anche la Turchia, ma sarebbe il primo paese NATO a farlo. Oltre 3 miliardi di persone sono rappresentate in quella sede, ma le economie emergenti oggi restano ancora sostanzialmente ognuna per sé, con il rischio che non arrivino a fare fronte comune per creare valide alternative alle istituzioni occidentali e per supportare lo sviluppo economico. Ognuna sembra avere ottime ragioni andare soltanto per la sua strada, senza alcuna strategia di lungo termine. E quando succede questo lo sviluppo economico non avanza.

Il risultato di questo bel coagulo di veleni è una previsione decisamente negativa per l’anno a venire, innanzitutto per l’economia europea, gravata dal doppio problema dell’assenza improvvisa delle forniture energetiche della Federazione Russa e dell’incremento formidabile nei costi delle materie prime, dovuto tanto all’inflazione quanto al cambio sfavorevole con il Dollaro.

LA COMPAGNIA HOLDINGSe ci aggiungiamo che, con uno scenario siffatto non sarebbe da stupirsi più di tanto se a questo punto arrivassero ulteriori problemi anche dai mercati finanziari, in lenta ma costante disfatta, e ci aggiungiamo anche che l’Europa è in prima linea negli aiuti all’Ucraina (e dunque nel confronto militare quasi diretto oramai con la Russia) ecco che le condizioni appaiono tutte sul tavolo per avviarsi a scatenare un bel putiferio.

Non si può poi considerare a quali danni va incontro anche il resto del mondo con il perdurare dell’inflazione dei prezzi e della scarsità di numerosi fattori di produzione: l’industria è costretta a ridurre le proprie produzioni e a rialzare i prezzi di vendita pur senza riuscire a mantenere i margini di guadagno ai livelli precedenti, mentre i consumatori frenano in tutte le direzioni perché impoveriti improvvisamente e preoccupati dalla forte riduzione delle risorse a favore della previdenza sociale. L’eccesso di debiti pubblici infatti sconsiglia di proseguire sulla strada dei sussidi ai consumi e riducono la capacità di fornire adeguato welfare alle classi più deboli della popolazione. Il risultato è pertanto anche quello di una prospettiva di profonde spaccature sociali.

Anche questo fatto sta provocando uno spostamento verso destra nelle preferenze degli elettori europei (e non solo) e, soprattutto, sta facendo più danni al processo di convergenza europeo di quanti ne abbia fatti il successo dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Cosa che fa prevedere ulteriori problemi tanto nel governo della medesima quanto nelle manovre della Banca Centrale Europea, paralizzata dalle divergenze.

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Senza contare il fatto che anche l’atlantismo sfegatato di politici e governanti cui abbiamo assistito sino ad oggi in tutta Europa non potrà non subire una pausa di riflessione dal momento che è sotto gli occhi di tutti chi guadagna e chi perde da questa situazione. Guadagnano gli americani a scapito degli europei, ma guadagnano anche le banche (prima di contare le ulteriori perdite sugli attivi in portafoglio, però) a scapito di chi deve pagare più cari i propri debiti. Guadagnano le grandi industrie a scapito di quelle piccole e medie.

LA COMPAGNIA HOLDINGCi guadagnano i grandi esportatori di petrolio, gas e altre risorse naturali a scapito di quelli che devono importarli, guadagnano i paesi più attivi con l‘energia prodotta dalle centrali elettriche nucleari e da quelle a carbone, guadagnano i produttori di armi e quelli di prodotti chimici e farmaceutici. Guadagnano gli speculatori al ribasso sulle borse, sui preziosi e sulle valute e guadagnano le imprese più innovative, capaci di cavalcare l’accelerazione nel cambiamento del paradigma industriale pregresso, mentre perdono margini di profitto l’industria tradizionale, quella alimentare e quasi tutte le “public utilities”.

Resta ovviamente sullo sfondo la possibilità che ai margini del prossimo G-20 si delineino le condizioni per anche soltanto una tregua nel conflitto in Ucraina. Cosa che potrebbe far flettere tanto le aspettative di persistenza dell’inflazione quanto il prezzo dell’energia. Anche il cambio del Dollaro potrebbe invertire la rotta se ciò avvenisse e le borse potrebbero riprendere vigore, prima che si materializzino altri importanti smottamenti nella fiducia degli investitori. Anzi, paradossalmente, le chances di uno scenario del genere sono oggi più elevate anche a causa dell’evidenza della drammaticità dell’alternativa.

Una profonda frattura però si è prodotta tra Oriente e Occidente, tra paesi più sviluppati ed economie emergenti, tra i paesi membri dell’Unione Europea, tra la stessa America e il Regno Unito e, nell’ambito di quest’ultimo, tra la Gran Bretagna e il resto dei paesi del Commonwealth, sempre più desiderosi di svincolarsi. Persino nell’ambito del medio oriente ritornano prepotentemente le divisioni tra i paesi arabi nonché tra i musulmani sunniti e quelli sciiti.

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Ma non finisce qui: altrettante fratture è possibile osservare tra le classi sociali e tra le fazioni politiche del mondo occidentale. Così come sempre meno fiducia tendono a nutrire gli investitori nei confronti dell’industria e delle innovazioni tecnologiche, riducendo l’importo degli investimenti proiettati al lontano futuro e riducendo lo spazio di crescita delle vere innovazioni. Cosa che non lascia molto spazio all’ottimismo persino nello scenario più positivo dell’avvio di solide trattative per una pace duratura in Est Europa.

Un bel passo indietro nel progresso dell’umanità si potrebbe dire sintetizzando al massimo. Se anche le prospettive di pace con un graduale ritorno alla cooperazione e agli scambi internazionali riusciranno a sventare il pericolo di una nuova profonda recessione globale (sulle certezze dell’avvento della quale nessuno è in grado di affermare previsioni affidabili), il mondo resterà profondamente ferito dalla tragicità degli eventi che stanno accadendo in queste settimane. E le conseguenze di ciò non potranno che farsi sentire a lungo nel prossimo futuro. Le borse difficilmente torneranno presto a toccare nuovi massimi, i tassi d’interesse difficilmente scenderanno in fretta, i prestiti bancari difficilmente saranno di nuovo elargiti a mani basse per chissà quanto tempo ancora.

Stefano di Tommaso




GRANDI MINACCE E GRANDI OPPORTUNITÀ

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Le ultime caotiche settimane hanno fornito nuovi segnali e sintomi di un malessere generale dell’economia globale confermando quello che da tempo quasi tutto gli osservatori stanno dicendo: è in arrivo un’ importante recessione globale. Ragione per cui gli investitori restano ammutoliti e privi di entusiasmo, gli operatori economici rinviano molte decisioni di investimento e i consumatori -già impoveriti dalla riduzione del potere d’acquisto- riducono la domanda di beni e servizi, in attesa di tempi migliori.

 

LA MINACCIA DELLA RECESSIONE HA FATTO SCENDERE I MERCATI

Sarebbe difficile usare parole più nere di quelle appena scritte eppure i mercati finanziari hanno già perduto circa un terzo del valore annuo del prodotto globale lordo e le prospettive rischiano di essere ancora peggiori.

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Sembra insomma in arrivo la tempesta perfetta, mentre i venti di guerra soffiano più impetuosi che mai e il rischio di nuovi disastri ambientali incombe più di prima dal momento che quasi ogni precedente iniziativa rivolta a moderare l’impatto dell’emergenza climatica e dell’inquinamento planetario appare rinviata a tempi migliori, data la crisi energetica che avvolge buona parte delle economie industriali.

Tra l’altro a riprova del fatto che una contrazione del prodotto lordo è già in corso, è sufficiente osservare nel grafico qui riportato quanto si siano ridotti i costi dei trasporti marittimi, evidente anche a causa della riduzione della domanda:

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Cosa succede dunque? Davvero il mondo è rivolto ad un disastro economico epocale? Ovviamente molto dipenderà dall’esito delle fortissime tensioni politiche internazionali oggi in corso, mentre si sta creando una delle maggiori “spaccature” della storia dell’umanità tra il blocco occidentale delle nazioni (maggioritario in termini di ricchezza economica e tecnologica) e quello orientale e dei paesi emergenti (maggioritario invece in termini di popolazione mondiale e di risorse naturali).

I CONFLITTI ARMATI SI MOLTIPLICANO

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Generalizzare è quasi impossibile e molte grandi nazioni cercano di articolare le loro posizioni politiche sforzandosi di non prendere troppo parte alle attuali contrapposizioni tra i due blocchi (a partire dall’India, che avrebbe tutto da perdere nello schierarsi molto apertamente), ma ciò nonostante la sostanza dei fatti non cambia granché: il mondo sta correndo verso una nuova recessione economica globale e aumenta a dismisura il rischio di nuovi conflitti bellici epocali.

L’Europa (e in particolare Germania e Italia, le due principali strutture industriali del vecchio continente) in questa congiuntura -pur essendo schierata sin troppo lealmente con l’alleato americano- è stato senza dubbio il vaso di coccio tra i due d’acciaio, tanto per la sua forte dipendenza dalle forniture energetiche russe che sono venute meno in modo repentino, quanto per i maggiori costi dovuti ai rincari del Dollaro, delle materie prime e dell’energia, che l’hanno resa assai poco competitiva.

Per quali motivazioni tutto ciò avvenga è difficile per chiunque oggi spiegarlo e forse nel prossimo futuro ci vorranno decenni per farlo nel modo più corretto (senza cioè cadere in fuorvianti semplificazioni). Ma certo oggi la vera domanda -una volta metabolizzata la situazione- è divenuta per quasi tutti i cittadini del mondo un’altra: come comportarsi (razionalmente) di conseguenza?

COSA FARE?

Difficile è infatti accettare la dura realtà: il mondo è sulla china di grandi passi indietro nell’evoluzione dell’umanità, la libertà di opinione e di azione di buona parte della popolazione mondiale è fortemente a rischio e persino i grandi avanzamenti sociali, culturali e scientifici del genere umano rischiano di venire in tal modo cancellati. Ma -una volta inquadrati correttamente i rischi che corriamo- ancor più difficile è valutare quale comportamento assumere.

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Purtroppo non soltanto la domanda risuona forte per chiunque osservi i mercati finanziari, scossi da un’inflazione dei prezzi che sembra stabilmente tornata ai livelli visti l’ultima volta più di quarant’anni addietro e gettati nel panico altresì dal comportamento -apparentemente poco comprensibile- delle banche centrali occidentali (nell’immagine il governatore della FED: Powell), che stanno rialzando bruscamente i tassi di interesse. Questo comportamento è andato sino ad oggi a vantaggio del Dollaro ma rischia di alimentare la crisi economica che già oggi consegue all’inflazione.

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Non soltanto. Il timore fare di errate valutazioni passa ora infatti dalle banche centrali anche all’economia reale, dal momento che qualsiasi operatore economico dovrà confrontarsi con crescenti costi energetici e con la lunghissima filiera di rincari che ne consegue per: materie prime, manufatti e servizi. Qualsiasi operatore economico inizia perciò a chiedersi di quanto si restringeranno i consumi e di conseguenza i suoi mercati di sbocco.

IL CAMBIAMENTO ACCELERA CON LA CRISI

Come dire cioè che, ammesso che nonostante i rincari gli imprenditori riescano a restare in piedi riuscendo cioè a limitare i danni e/o a ribaltare i maggiori costi sui prezzi di vendita, le imprese dovranno anche confrontarsi con l’arrivo della recessione e con i possibili cali dei consumi. Se una grande recessione economica globale si farà sentire sarà perciò giocoforza limitare gli investimenti programmati, tanto per ragioni di opportunità quanto per gli incrementi dei costi e le riduzioni delle disponibilità finanziarie che ne conseguiranno.

La riduzione degli investimenti innalzerà poi inevitabilmente la disoccupazione, nonché i gettiti fiscali che -in buona parte del mondo occidentale- sostengono i pagamenti degli interessi da versare a remunerazione dei debiti pubblici. Al tempo stesso tutti chiederanno interventi pubblici in deficit di bilancio, alimentando la crescita dei debiti pubblici oltre ogni ragionevolezza.

Ciò crea inevitabilmente nuove tensioni e nuove pressioni politiche, soprattutto a danno delle nazioni più deboli e a relativo vantaggio di quelle più forti. Nei grafici che seguono: il rialzo dei rendimenti che il mercato ha imposto ai nostri titoli di stato e, di conseguenza, l’incremento della divaricazione (lo “spread”) con i rendimenti dei titoli di stato tedeschi.

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Ma lo stesso varrà anche per le imprese, tra le quali le più piccole subiranno maggiormente e saranno probabilmente fagocitate dalle maggiori. Sarà quindi doveroso tornare ad affermare quanto già ampiamente chiarito in occasione della recente crisi conseguita alla pandemia globale che il mondo ha appena subìto: questi eventi traumatici generano una forte accelerazione verso il cambiamento, in ogni direzione. Un cambiamento in molti casi traumatico ma anche foriero di importanti novità, e circa il quale occorre fare molta attenzione. Gli imprenditori e gli operatori culturali più attenti riusciranno probabilmente a cavalcarlo, altri potranno invece quasi soltanto subirlo.

EFFICIENTARE, COLLABORARE, CAPITALIZZARE…

Ma il cambiamento non riguarderà soltanto i mercati, le tecnologie e le tendenze dei consumi. Riguarderà inevitabilmente anche la struttura sociale e quella delle imprese. Il livello di capitalizzazione e di efficienza, i quali dovranno inevitabilmente incrementarsi a dismisura. Difficile dire cosa succederà a tutti coloro che resteranno indietro in tale processo, ma è più facile prevedere cosa dovrebbero fare tutti coloro che riusciranno a porsi tali questioni per tempo: riflettere ma poi agire presto, efficientare, collaborare e creare alleanze, assicurarsi capitali e intelligenze. E il tutto prima che sia troppo tardi.

Che arrivi o meno una nuova grande crisi economica dell’economia reale (oggi siamo ancora soltanto ad una stagnazione” delle economie del blocco occidentale) dipenderà ovviamente moltissimo dal livello di conflitto che si svilupperà a livello geopolitico. Ma -qualunque cosa succederà- sono sufficienti le attuali tensioni, le attuali aspettative e le attuali problematiche per poter affermare che -ancora una volta- il ritmo evolutivo dell’economia planetaria, così come dell’industria e delle abitudini della gente, è irrimediabilmente destinata ad accelerare. E questo per molti versi acccadrà indipendentemente dell’intensità della crisi. La centrifuga insomma sta accelerando e qualcuno ne rimarrà travolto. Però qualcun altro ne uscirà vincitore, anche a motivo del vuoto che viene creato. Come sempre peraltro…

Stefano di Tommaso




CI VORREBBE UN MIRACOLO

I contorni di una recessione diventano sempre più nitidi in tutto l’Occidente, nonostante il fatto che l’Europa debba fronteggiare crisi energetiche senza precedenti e l’America no. La Banca Centrale Europea (BCE) stima una decrescita vicina all’1% del prodotto interno lordo per l’anno in corso nel caso di blocco delle importazioni di gas russo, che però è già una realtà, dal momento che la turbina che manca al North Stream 1 il Canada se la tiene stretta e nessuno preme il pulsante per l’utilizzo del North Stream 2, che anzi i media di tutto il mondo fingono di dimenticare.

 


UN DISASTRO ANNUNCIATO

Dunque si tratta di un disastro annunciato, e forse procurato inutilmente. Si calcola che soltanto in Italia nei prossimi 2 trimestri solari mancheranno all’appello ben 11 milioni di metri cubi di gas, con il rischio quindi che molte industrie si fermeranno e che, nell’ inutile tentativo di prolungarne le scorte, si arrivi a razionarlo, con molte famiglie che evidentemente resteranno in casa col cappotto.

C’è poi l’altra faccia della medaglia, e cioè il caro-bolletta, che porterà ugualmente molte imprese (soprattutto quelle artigiane) a fermarsi oppure ad imporre un forte rincaro. Il centro studi di confindustria ha stimato che la sua incidenza sui costi di produzione sia passata dal 4-5% degli anni precedenti al 9-10% di quest’anno (cioè il doppio) e possa arrivare al 14% nel 2023 (cioè a circa il triplo) se il gas russo continuerà a mancare. E questo con un prezzo di 235 euro quest’anno e 298 nel 2023: se dovesse crescere ancora sarebbe ancora peggio.


I guai però non sono confinati all’Europa cui manca il gas perché l’inflazione continua a incombere e, che abbia raggiunto o meno il suo picco, volteggia ben al di sopra dei tassi d’interesse nominali oggi in vigore (intorno al 9% per entrambe le sponde dell’Atlantico), ragion per cui tanto la Federal Reserve Bank of America (FED) quanto la BCE saranno costrette a continuare ancora a lungo ad alzare i tassi d’interesse, oggi ancora al di sotto del 2%, e saranno puntualmente seguite tanto dalla Banca d’Inghilterra quanto da quelle centrali del Canada e dell’Australia.

ASPETTANDO RI RIALZI DEI TASSI

Addirittura si parla di un incremento che potrebbe oscillare tra i tre quarti di punto percentuale e un punto intero per la FED che si riunirà il prossimo Giovedì, con l’ovvia conseguenza che anche le altre banche centrali seguiranno. Già così infatti il Dollaro continua a mostrare i muscoli sfondando tetti che non vedeva da vent’anni e più, figuriamoci se le altre banche centrali non dovessero alzare i tassi anche loro. Ovviamente il caro-gas si riflette in un petrolio più caro, e non soltanto per coloro che devono pagarlo in Dollari ma addirittura anche indipendentemente, visto che c’è il bando delle importazioni anche sul petrolio, se proviene dalla Russia (che però annovera una porzione consistente delle forniture mondiali di greggio). In pratica, scarseggiando anche questo, non è improbabile che le sue quotazioni (già risalite oltre i 90 dollari per barile) superino con l’arrivo dell’autunno di nuovo quota 100.


In pratica in tutta Europa si stima che la frenata indotta da costi e scarsità dell’energia nel prodotto interno lordo arrivi al 3% tra il 2022 e il 2023 con la perdita di ben oltre 1/2 milione di posti di lavoro. E sempre che il resto del mondo non si avviti di nuovo in una recessione feroce, perché sino ad oggi l’export continentale ha mostrato una decisa resilienza, la quale invece verrebbe meno nello scenario peggiore. Per l’America, il Regno Unito, il Canada, l’Australia e i paesi scandinavi la minaccia è meno feroce che per l’Europa continentale, dal momento che sono tutti estrattori in proprio di gas e petrolio e che quindi quantomeno le loro fabbriche più difficilmente si fermeranno. Come si può ben leggere nel grafico qui riportato, il peso dell’energia sul totale del prodotto interno lordo è cresciuto ben di più in Europa che in America.


VALE LA PENA DI INTESTARDIRSI?

  • Fin qui i fatti e i numeri, che risultano immancabilmente testardi anche quando si volesse provare a scompigliarli visto che quasi tutto l’occidente risulta in campagna elettorale. Anzi, questa coincidenza appare terribile, a ben guardarla, perché è la garanzia più forte del fatto che gli attuali governi faranno nel frattempo ben poco per contrastare l’orrenda deriva appena descritta, in attesa di essere sostituiti da quelli in arrivo.

E alla luce di questi fatti ben si comprende la gogna mediatica cui è stato sottoposto negli ultimi giorni il governo ungherese, reo di aver deciso che il carovita dei propri cittadini viene prima delle strategie di pressione internazionali sulla Russia. E scrivo di gogna mediatica perché, a quanto risulta, all’atto pratico la Commissione Europea ha partorito soltanto minacce nei confronti di Victor Orban e dei suoi ministri, che però il gas continuano a riceverlo a buon mercato dalla Russia. Mentre al resto d’Europa gli Stati Uniti (che il gas lo esportano con le navi in grande quantità) hanno fatto sapere che non interverranno con un maggior quantitativo di forniture. Dunque risulta anche piuttosto teorico il dibattito sui nuovi rigassificatori in Italia, dal momento che al momento rimarrebbero parzialmente inutilizzati.

Per non parlare delle politiche di transizione energetiche, delle quali -appunto- non parla proprio più nessuno in questo momento, dopo i grandi sbandieramenti cui abbiamo assistito fino a tutto il 2021. L’incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili è sicuramente in corso, ma i suoi tempi non sono compatibili con il taglio repentino degli approvvigionamenti delle materie prime energetiche cui stiamo assistendo, ragione per cui il resto d’Europa continua a tenere accese le centrali nucleari e torna a bruciare il carbon fossile in grande quantità. In questa situazione chi rischia di pagare più salato il conto delle strategie geopolitiche messe in atto a livello atlantico è sicuramente il polo produttivo italiano della pianura padana e del circostante arco alpino, dove le temperature sono più rigide in inverno e dove si concentra la maggior parte delle produzioni industriali energivore.


CI VORREBBE UN MIRACOLO

Ci vorrebbe dunque un miracolo perché l’economia europea (e in particolare quella italiana) non prenda una nuova e più potente sbandata che la induca a subire ulteriori arretramenti nella classifica internazionale dei paesi più industrializzati. Qualcuno ha fatto notare che, in previsione di tutto ciò, è per questo motivo che le elezioni politiche sono state indotte così in fretta. Perché gli attuali governanti non debbano rispondere dei danni all’economia che si manifesteranno in autunno come conseguenza dell’aver accettato supinamente ogni richiesta atlantica, ivi compresi i 12-13 miliardi di euro di debito aggiuntivo per fornire nuove armi al governo di Zelenski.

La nostra borsa però non è destinata a riflettere il dramma che l’economia reale si accinge a subìre nei prossimi mesi. Innanzitutto perché i rialzi dei tassi d’interesse fanno bene ai conti delle banche, il cui peso sul totale del listino italiano non è affatto basso. E poi perché ha già forse subìto più delle altre borse internazionali il problema del caro-energia mentre il numero delle società quotate continua a diminuire per effetto delle migrazioni delle grandi imprese verso le borse più importanti del pianeta. Dunque a parità di domanda mancherà l’offerta.

Per cui è probabile che Piazza Affari si ridimensioni sì ancora un po’ ma non crolli affatto. Casomai il problema dei mercati finanziari al di quà delle alpi sarà quello dell’eccesso di debito pubblico pubblico, che con il rialzo dei tassi tornerà di grande attualità, e condizionerà non poco gli eventuali provvedimenti che il nuovo governo potrà adottare per stimolare la ripresa. Una situazione che non potrà non condizionare il risiko delle compravendite bancarie, desertificando ulteriormente il panorama delle alternative a disposizione delle piccole imprese per reperire credito. E spingendole ancora una volta a chiudere o ad aggregarsi oppure a reperire capitali di rischio.

MA QUEL MIRACOLO, FORSE, STA ARRIVANDO

Ma quel miracolo forse sta arrivando. Ci sono tuttavia dei segnali di distensione tra gli speculatori sui prezzi a termine (i “futures”) del gas i quali potrebbero indicare un’anticipazione di ciò che Russia e Cina potrebbero aver concordato nel vertice di Samarcanda: la riapertura del gasdotto North Stream 1 da parte della Russia. I motivi, politici, strategici o altro non è dato di conoscerli dal momento che non è nemmeno sicuro che succederà, ma il segnale fa il paio con la proposta di Putin di riaprire i negoziati di pace per l’Ucraina, segnale di fatto snobbata tanto da Zelenski quanto dai media nostrani ma che, se portato avanti con insistenza, non potrebbe essere ignorato. Se la Russia mostrasse infatti una forte volontà di ridurre la tensione in corso è piuttosto probabile che lo potrebbe fare accompagnando la strategia diplomatica con un gesto di “amicizia” verso l’Europa, e in particolare verso la Germania, che ha indubbiamente subìto il diktat americano e che rischia di stracciare il proprio tessuto manifatturiero.

Ora è evidente che, qualora la Russia mostrasse di voler fare sul serio, non solo non ci sarebbero i famigerati razionamenti, ma i prezzi dell’energia scenderebbero decisamente così pure come il cambio del Dollaro, che ha sino ad oggi indubbiamente beneficiato dei rischi di guerra. E chi ci guadagnerebbe di più potrebbe essere l’Europa, dal momento che è quella che ha più da perdere nello scenario opposto. Una mossa che indubbiamente scompiglierebbe gli alleati occidentali, alle prese con un’America che vuole vincere sempre e a prescindere e un’Europa continentale che, in preda alla crisi che sta arrivando, rischierebbe soltanto di accelerare le sue divisioni!

Stefano di Tommaso