LA GUERRA DI NERVI E DEL PETROLIO

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Il confronto tra Russia e Occidente è a un punto di svolta: ulteriori iniziative belliche rischiano di trascinare il mondo verso una nuova guerra mondiale e i mercati finanziari verso il baratro. E il rischio più prossimo che può derivare dalla strategia di tensione geopolitica attuale è quello che il prezzo dell’energia vada alle stelle e, con esso, anche l’inflazione, alla quale non potrebbe che seguire una profonda recessione economica. E’ questa l’analisi pubblicata recentemente da JP Morgan Chase. I mercati finanziari ovviamente stanno alla finestra, pronti a scendere ulteriormente qualora se ne vedano le avvisaglie. Ma sono anche pronti a riprendersi, qualora tornino a spirare nuovi venti di pace.

 

L’INFLAZIONE ATTUALE È IL RISULTATO DEI RINCARI DEI MESI SCORSI

Gli operatori economici sono spaventati dai dati sull’inflazione dei prezzi al dettaglio, che continua ad aumentare sia in America che in Europa, ma in realtà non ci sono per il momento grandi novità sulle determinanti dell’inflazione dei prezzi che stiamo registrando oggi: se i costi di produzione erano cresciuti intorno a inizio anno mediamente dal 10% al 20% o più, era ovvio che quei rincari si sarebbero prima o poi trasferiti -lentamente ma inesorabilmente- ai prezzi al consumo. Ci voleva soltanto del tempo e questo sta succedendo ora. In realtà negli ultimi giorni i prezzi delle materie prime hanno leggermente ritracciato e ciò farebbe ben sperare.

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Non ci sarebbe dunque da spaventarsi nel veder registrare ancora per qualche mese nuovi rincari alla cassa del supermercato o nei servizi perché le cause a monte dei rincari si erano sviluppate tempo fa e, apparentemente, adesso stanno tornando indietro. Ovviamente non è tutto così semplice: poiché il potere d’acquisto dei salari si è ridotto almeno della misura dell’inflazione, non ci sarà da stupirsi se anche il costo della manodopera nei prossimi mesi salirà inevitabilmente, alimentando una pericolosa spirale dei prezzi che rischia di procedere ancora per diversi mesi, fino a toccare la soglia -non soltanto psicologica- del 10% rispetto a inizio anno. Quando un meccanismo come quello dell’inflazione si mette in moto, non lo si ferma dall’oggi al domani.

LO SHOCK DA OFFERTA SI È SOMMATO AL Q.E.

L’inflazione che stiamo vivendo da molti mesi a questa parte però ha una matrice simile a quella che ha caratterizzato gli anni di iper inflazione di mezzo secolo fa, ai tempi della ”guerra del Kippur”: è originata dall’aumento dei prezzi di quasi tutti i fattori di produzione, causata principalmente da uno shock da offerta. Cioè dalla scarsa disponibilità di materie prime, semilavorati, idrocarburi ed energia. Questa è calata strutturalmente (anche per problemi legati alla pandemia) e, -diciamo la verità- anche opportunisticamente, proprio quando l’economia globale provava a riprendere fiato all’uscita da due lunghi anni di “lockdown”. Molti grandi gruppi hanno indubbiamente fatto grandi profitti con i rincari che ne sono conseguiti.

E’ poi altrettanto vero che allo shock da offerta di beni e servizi si è aggiunta anche -come concausa dell’inflazione- la grande liquidità in circolazione pompata per anni dalle banche centrali di tutto il mondo. Ma questa affluiva già da anni e fino all’arrivo della pandemia globale, per una serie di motivi non era successo nulla di simile. Quando invece le due cause si sono sommate la fiammata dei prezzi è stata molto simile a quella del 1973. Ma le similitudini con quel periodo storico rischiano di non finire qui.

Anche allora il mondo viveva una serie di tensioni geopolitiche e anche allora le principali divise valutarie erano state inflazionate dalla perdita del riferimento del valore del Dollaro americano al valore dell’oro. E anche allora l’inflazione dei prezzi generò molta volatilità sui mercati finanziari e rialzi a raffica dei tassi di interesse, i quali a loro volta alimentarono una spirale che produsse diverse ondate di aumento dei prezzi, non soltanto una. Ecco dunque qual è il rischio che corre oggi l’America (e con essa quantomeno tutto l’Occidente): la possibilità che alla prima ondata inflattiva ne seguano altre.

LA TENSIONE INTERNAZIONALE FRENA I MERCATI FINANZIARI

Il problema è che la guerra in Ucraina non accenna a fermarsi e anzi la Russia ha quasi concluso il suo piano militare di porre sotto l’egida della Federazione le due repubbliche ucraine orientali, ove la quota di popolazione russofona era molto elevata e che erano teatro della guerra civile da anni. Ovviamente per consolidare questo risultato -costato molti morti- la Russia deve impedire che l’Ucraina torni alla carica, e per questo continua a prendere di mira le installazioni militari nel resto del paese e i depositi di armi che arrivano copiose dalla NATO. Una situazione che non piace alla NATO, la quale intende pertanto proseguire a fornire armi e consulenza militare al governo di Kiev, con il forte rischio che il conflitto si allarghi ai paesi che confinano con la Russia (ad esempio la Bielorussia). La NATO ha inoltre spinto i governi dei paesi aderenti a imporre numerose e pesantissime sanzioni economiche alla Federazione Russa, elevando la tensione nei rapporti internazionali a livelli mai visti dopo la seconda guerra mondiale.

E’ perciò molto probabile che la strategia di tensione che l’Occidente sta orchestrando nei confronti della Russia (e, meno platealmente, anche nei confronti di tutte le nazioni che non vi si sono pedissequamente allineate, a partire da Cina e India) rischi di fare altri danni, soprattutto all’Eurozona, tra le grandi economie del mondo quella più dipendente dagli approvvigionamenti esterni di risorse naturali. Non soltanto infatti le sanzioni hanno creato ovvi e pesanti ”ritorni di fiamma” azzoppando le economie dei paesi europei che le hanno applicate, ma c’è il rischio che la loro estensione in tutte le direzioni possa provocare una pesantissima rappresaglia russa: quella di ridurre o azzerare le forniture di gas e petrolio ai paesi NATO, cosa che rischia di creare dei disastri epocali ben più efficaci delle sanzioni.

LA POSSIBILE “MOSSA DEL CAVALLO” DI PUTIN

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In una situazione come quella attuale in cui la domanda di gas e petrolio supera la relativa offerta infatti, se la Russia dovesse decidere di ridurre ancora le proprie esportazioni verso l’Occidente si creerebbe un ulteriore shock da offerta sul costo dell’energia che potrebbe avere immediate ripercussioni sull’inflazione dei prezzi che ne conseguirebbe e sui tassi di interesse. E’ questo il senso dell’allarme, lanciato lo scorso Venerdì, dalla grande banca d’affari JP Morgan, alla quale tutto si può imputare tranne che possa muoversi nell’interesse di Putin.

In uno studio infatti della medesima viene stimato con una certa precisione l’effetto che una riduzione di offerta di 5 milioni di barili di petrolio al giorno -che la Russia potrebbe tranquillamente permettersi senza intaccare troppo la sua salute economica- potrebbe far più che triplicare le attuali quotazioni del greggio, con tanti saluti per le speranze di ripresa economica e riduzione dell’inflazione. Un’ipotesi tanto disastrosa quanto realistica, soprattutto se la NATO proseguirà nel suo intento di cercare di danneggiare la Federazione Russa con altre iniziative belligeranti.

Per ironia della sorte ciò accade proprio quando Joe Biden, conscio del fatto che l’inflazione (già vicina al 9% in America) non aiuterà il suo partito nelle elezioni americane di medio termine, ha deciso (con buona pace per la transizione ecologica e la sostenibilità ambientale precedentemente sbandierate come grandi urgenze) di far pressione su tutti gli altri paesi grandi estrattori di petrolio perché portassero ai massimi la loro capacità di immetterlo sul mercato e farne sgonfiare così i relativi prezzi. Da fonti bene informate infatti la presidenza americana non si era affatto risparmiata in tali sforzi, ad esempio con l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo, pur di spingerli ad incrementare fino ai massimi possibili le quantità estratte.

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E in effetti prezzo del petrolio negli ultimi giorni è arretrato, ma non di molto, dati i rischi elevati che il conflitto bellico possa addirittura estendersi a Moldavia, Polonia e Paesi Baltici. C’è infatti una componente speculativa che punta in direzione esattamente opposta forte del fatto che la fornitura alle forze armate ucraine di missili a lungo raggio effettuata dagli Inglesi rischia di generare altre tensioni, dal momento che per lungo raggio si può intendere soltanto il raggiungimento di obiettivi militari all’interno del territorio russo. Con il rischio a quel punto di rappresaglie di Mosca rivolte non più soltanto all’Ucraina, ma anche ai suoi “mandanti”.

Ecco perché non è così probabile, in una situazione surriscaldata come quella attuale, che il prezzo del petrolio scenda davvero, pur in presenza di un incremento della sua offerta sul mercato spot. Così come non è possibile limitare artificialmente o segmentare geograficamente le sue quotazioni: quando il prezzo del petrolio sale, lo fa in tutto il mondo e istantaneamente. Dunque anche in America.

I MERCATI SONO A UN BIVIO

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Questo rischio, ben più che quello dei rialzi di alcuni ulteriori quarti di punto percentuale nei tassi di interesse, paventati dalle banche centrali, è il medesimo che spinge oggi gli investitori ad avere molta cautela nel tornare ad investire in Borsa, i risparmiatori ad aumentare la quota di liquidità, e gli industriali a rialzare i prezzi di vendita. Il rischio di un allargamento del conflitto bellico e quello di possibili rappresaglie da parte della Russia o sinanco dei paesi “non allineati”, vittime anch’essi di pressioni e minacce americane.

E se la tensione internazionale tornerà a salire, allora probabilmente partirà una nuova ondata di rincari nei prezzi delle materie prime e dell’energia e si ripeterà pedissequamente ciò che era successo a partire dai primi anni ‘70: che l’inflazione era montata “a ondate successive”, non una sola volta cioè, bensì in più riprese. Potrebbe succedere cioè che ulteriori rincari del costo dell’energia possano contribuire a nuovi rialzi dei prezzi al consumo, alimentando però in tal caso una più potente spirale inflazionistica dalla quale non sarebbe facile uscire indenni, nemmeno per le più poderose economie di mercato.

Nemmeno a dirlo, questo sì che alimenterebbe ulteriori aspettative di una recessione economica globalizzata e più profonda, generando tagli e rinvii ai programmi di investimento industriali e infrastrutturali, la quale recessione a sua volta dovrebbe necessariamente convivere con i rialzi dei prezzi di qualsiasi cosa. Una situazione potenzialmente disastrosa che, va da se, danneggerebbe molto di più i paesi le cui economie sono più aperte al mercato libero di quelle con pianificazione più centralizzata, e genererebbe il taglio di numerosi posti di lavoro!

Persino l’America diverrebbe ingovernabile in una tale situazione, posto che alle elezioni autunnali il partito di Biden porterebbe a casa una sonora sconfitta. Ma soprattutto la vicenda porterebbe allo scoperto le tensioni tra gli stati membri della nostra “unione europea incompiuta”, con il rischio di un ritorno indietro nel tempo che non gioverebbe a nessuno, salvo forse ai paesi asiatici, per guadagnare sull’Occidente ulteriori vantaggi strategici.

LO SCENARIO BELLICO ORIENTERÀ I MERCATI

D’altra parte è il destino che consegue a tutte le guerre della storia: è impossibile portarle avanti senza che facciano danni persino a chi le muove a distanza. Solo che stavolta rischiamo il paradosso di portare indietro le lancette dell’orologio all’epoca della guerra fredda e rischiamo la minaccia dell’inverno nucleare. Quello che conseguirebbe allo scambio di testate atomiche tra superpotenze militari. I russi utilizzano questa minaccia -così come quella del petrolio- con intento dissuasivo: si sono detti pronti al conflitto globale, qualora il loro territorio venisse attaccato, e non si illudono troppo sulla possibilità di riprendere trattative di pace con l’Occidente, ragione per cui potrebbero indurlo a più miti consigli attraverso ritorsioni come quella del petrolio.

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Le borse ovviamente staranno a guardare, atterrite (ma lo sono già, a questi livelli di prezzo) o forse anche euforiche, perché se qualche spiraglio di luce si potrà intravvedere sarebbero pronte a tornare a crescere. Certo con una volatilità che sarà difficile da veder scendere nel resto di quest’anno ogni buona notizia rischierebbe di vedere effetti molto limitati nel tempo. Anzi: c’è il rischio che persino l’auspicato rialzo dei titoli a reddito fisso possa venire rimandato sine die, ucciso dall’eccesso di volatilità. Basterebbe invece che la tensione internazionale tornasse leggermente indietro, che probabilmente i mercati finanziari tornerebbero a ravvivarsi non poco.

Invece oggi, sino a che durerà il rischio che il conflitto bellico venga esteso al resto del mondo, i grandi decisori sono costretti a restare liquidi e a fare ulteriori “voli verso la qualità” tornando a selezionare selvaggiamente i loro investimenti tra le sole imprese che promettono migliori risultati o che mostrano tecnologie capaci di fare la differenza, gettando alle ortiche le altre, senza troppi complimenti. Pronti peraltro a fare esattamente l’opposto qualora la situazione geopolitica migliori. E come dargli torto?

Stefano di Tommaso




LE BORSE SCENDERANNO ANCORA?

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I mercati finanziari sono noti per precedere vistosamente gli eventi attesi nell’economia reale, fino addirittura ad andare quasi in direzione opposta per via del gioco delle aspettative. E anche stavolta rischia di andare così: dopo una lunga discesa delle borse mondiali abbiamo assistito finalmente, la settimana scorsa, ad una piccola risalita del listini, dopo che dall’inizio dell’anno le borse erano scese quasi del 20% in totale (si veda il grafico relativo all’indice globale MSCI), anticipando una possibile recessione che si materializzerà forse soltanto nella seconda parte dell’anno. Ma proprio per questo non è detto che, all’arrivo effettivo della recessione, le borse scenderanno ancora.

 

UN CALO DEL 22%, POI UN RIMBALZO DEL 4%

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Come si può leggere dal grafico non soltanto le borse di tutto il mondo sono scese parecchio dall’inizio dello scorso Aprile, ma peraltro ci sono stati anche diversi tentativi di risalita delle borse, tutti terminati con altre discese. Come dobbiamo interpretare allora l’ennesimo rimbalzo delle borse dell’ultima settimana? E cosa succederà dopo?

IL RIMBALZO DEL GATTO MORTO

Un vecchio detto a Wall Street recita che persino un gatto morto, dopo essere precipitato dal piano superiore, rimbalza quando tocca terra. Il rimbalzo delle borse degli ultimi giorni dobbiamo dunque paragonarlo a un gatto morto (e dunque avrà brevi effetti) oppure potrebbe anticipare qualcosa di diverso?

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Sebbene non sia quasi mai possibile predire con certezza ciò che avverrà sui mercati nel futuro, possiamo ugualmente provare a prendere atto di alcuni fatti e talune convinzioni collettive, i quali potrebbero influire non poco sui corsi delle borse valori.

-20% : UNA NUOVA NORMALITÀ?

Innanzitutto alcune certezze:

  • il rialzo dei tassi d’interesse deciso dalle banche centrali per combattere l’inflazione influisce negativamente sulle valutazioni azionarie delle imprese, abbassando il valore attuale netto dei flussi di cassa futuri attesi che esse si presuppone potranno generare. Fino all’inizio di Aprile la volatilità delle borse era stata alta ma i livelli delle borse da inizio anno erano scesi solo marginalmente (-2,5%). Poi il quadro è molto peggiorato e la discesa dei corsi azionari è divenuta una voragine che ha superato il 20% (sempre da inizio anno).
  • un’altra quasi-certezza è che la recessione in arrivo (piuttosto probabile) ridurrà i profitti delle imprese quotate, con pochissime eccezioni, come ad esempio per le società che operano sui mercati di petrolio, gas, energie in generale e rinnovabili in particolare che, pur essendo più che raddoppiate di valore in media da inizio anno per aver beneficiato dei maggiori prezzi dell’energia, nell’ultima settimana hanno invece subìto un ribasso (qui sotto il grafico).

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Le suddette certezze (rialzo dei tassi, riduzione dei profitti) rendono estremamente plausibile il fatto che i ribassi accumulati dai listini azionari rispetto a fine d’anno (circa il 20%), abbiano portato i corsi delle borse ad una “nuova normalità” basata sui livelli attuali del listino, derivante dalle mutate condizioni economiche generali. Ma è altrettanto vero che, se questo è il quadro, allora i mercati finanziari potrebbero aver già “fattorizzato” tutti gli elementi negativi che dovranno manifestarsi nei prossimi mesi. E in tal caso da adesso in avanti potrebbero guardare al futuro con nuovo ottimismo.

LE BORSE SONO IN “IPERVENDUTO”

Non per niente possiamo notare che l’umore degli investitori è ai livelli peggiori da un paio d’anni a questa parte. Dunque le aspettative appaiono sì ancora così negative da far pensare che esse in parte si autorealizzeranno lasciando spazio ad ulteriori ribassi, ma è altrettanto vero che, se le aspettative generali appaiono (come anche questa volta)eccessivamente negative, allora i mercati borsistici potrebbero aver maturato una fase di iper-venduto dalla quale potrebbero riemergere, come si può peraltro vedere dal grafico qui riportato (relativo al Nasdaq):

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Dunque anche quest’ultima considerazione porterebbe a pensare che le cose, per il futuro, potrebbero forse andare meglio di quello che tutti oggi stanno pensando.

NON È DETTO CHE I TECNOLOGICI ABBIANO FINITO DI SCENDERE

Il ragionamento però non può essere fatto troppo in generale, anche perché quasi tutte le borse valori del mondo hanno i loro listini affollati di titoli “tecnologici” (cioè azioni di imprese in media estremamente sopravvalutate rispetto alle loro performances reddituali attuali, in funzione della promessa di risultati futuri ben superiori alla media). La sensazione pertanto è che quelle iper-valutazioni non potranno essere mantenute a lungo e che i prezzi di questi titoli dovranno sgonfiarsi ancora un po’.

A Wall Street ad esempio il peso dei soli titoli FAANG (Facebook, Apple, Amazon Netflix e Google) è pari a circa 1/5 del totale dell’intero listino. Pur essendo scesi di valore più che proporzionalmente rispetto all’indice generale americano SP500 (mediamente del 30% da inizio anno, come si può vedere dal grafico qui sotto riportato), esprimono ancora una valutazione d’azienda pari a circa 23 volte gli utili, cioè di oltre il 40% superiore alla valutazione media (di 16 volte gli utili) dell’indice generale SP500.

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Con l’arrivo delle aspettative di inflazione, recessione e crescita dei tassi d’interesse reali questi titoli “tech” sono stati pesantemente penalizzati dagli investitori che li hanno scaricati, in funzione di una decisa riduzione di quelle aspettative di crescita che ancora oggi contribuiscono a lasciarli decisamente sopravvalutati rispetto alla media del listino. A nessuno è però dato conoscere l’esatta misura di queste aspettative e dunque nessuno è in grado di formulare previsioni corrette circa il fatto che la loro svalutazione proseguirà e quanto essa influirà sui listini azionari complessivamente

I MOTIVI DI UN CAUTO OTTIMISMO

I mercati borsistici, dopo la doccia fredda che hanno vissuto dall’inizio dell’anno, abbiamo visto che nell’ultima settimana hanno provato a sviluppare ancora una volta un rimbalzo. Cioè stanno interrogandosi, dopo aver preso atto del fatto che è arrivata l’inflazione e che questa sta generando una nuova recessione, su quanto durerà e cosa potrà succedere dopo la recessione.

Se infatti l’arrivo della recessione arrivasse a spingere le banche centrali a invertire la rotta dei rialzi dei tassi e tornare a intervenire sulla liquidità disponibile, allora i tassi potrebbero smettere anticipatamente di salire e l’allarme relativo al possibile default per i paesi più indebitati potrebbe rientrare. È altresì possibile che il concretizzarsi della recessione (quantomeno per l’Occidente, che mostra una crescita demografica meno consistente di Asia e Africa) aiuti a far ridiscendere ancora il prezzo del petrolio (e quelli di tutte le materie prime ad esso collegate) e, con esso, l’inflazione attesa.

Tutti fattori che gioverebbero non poco all’umore dei listini azionari, scesi ad esempio in America ben più di quanto sia accaduto in Cina, come si può leggere dal grafico qui riportato (aggiornato alla settimana precedente). Dunque non in tutto il mondo le borse sono andate nello stesso modo!

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IL POSSIBILE RITORNO ALL’INVESTIMENTO OBBLIGAZIONARIO

Ma soprattutto potrebbe verificarsi un ritorno degli investitori dal listino azionario a quello obbligazionario, cosa che allenterebbe le tensioni (e la volatilità) delle borse ma che contribuirebbe a far terminare la lunga fase vissuta sino ad oggi di “bondification” degli investimenti, attraverso la sostituzione delle cedole del reddito fisso (che erano arrivate a zero) con titoli azionari capaci di generare i migliori dividendi. Se dunque gli investitori torneranno a comperare reddito fisso allora compreranno un po’ meno azioni, attenuando le speranze di risalita dei listini azionari.

Insomma se si segue questo ragionamento è piuttosto probabile che la fase che si apre a partire dall’estate 2022 potrà vedere una leggera ripresa delle borse valori che però non sarà necessariamente corroborata dal ritorno alle stelle dei maggiori titoli tecnologici e che sarà anche moderata da un ritorno alla diversificazione dei portafogli verso una maggior quota di titoli a reddito fisso. Se così fosse probabilmente dunque la forte volatilità media, vissuta dalle borse sino ad oggi, potrebbe finalmente scendere e, forse, una maggior liquidità potrebbe tornare a circolare sui mercati azionari a causa della progressiva ripresa di fiducia degli investitori professionali e istituzionali.

È chiaro infine che un allentamento della stretta attualmente promessa dalle banche centrali potrebbe ulteriormente corroborare le aspettative degli investitori, ma è anche piuttosto probabile che l’eventuale ritorno all’intervento da parte delle banche centrali potrà risultare più moderato che in passato, stemperando le aspettative al rialzo delle borse ma anche contribuendo a stabilizzarle.

MA GUERRA E PANDEMIA POSSONO ANCORA GUASTARE LA FESTA

C’è però all’orizzonte dell’altra nuvolaglia che potrebbe guastare le feste a chi si aspetta un rialzo delle borse: quella relativa al diffondersi delle nuove varianti dei virus che hanno provocato le precedenti cinque ondate pandemiche (e che recentemente hanno spinto la Cina ad un deciso nuovo “lockdown” della popolazione interessata), e quella relativa alle incerte sorti della guerra in Ucraina, dove tutti i contendenti sembrano fortemente propensi a proseguire o intensificare gli scontri.

Una nuova pandemia e/o un eventuale accanimento del conflitto ucraino (o una sua estensione a zone europee limitrofe) potrebbe infatti gettare nuova incertezza sui mercati, riducendone le possibilità di ripresa. Bisogna però ricordare che i mercati “prezzano” già l’incertezza bellica nelle attuali quotazioni e che tendono a limitare le loro aspettative di rialzo anche in funzione del fatto che il conflitto non accenna a risolversi. Dunque non solo guerra e pandemia potrebbero generare nuove sorprese negative, ma la loro “endemicità” introduce sicuramente un fattore di attenzione che spinge gli investitori a mantenere una maggior quota di liquidità tra i propri asset anche qualora l’inflazione facesse un po’ di marcia indietro e la recessione fosse soltanto parziale o avesse effetti molto limitati sulla riduzione dei profitti aziendali.

DUE “DRIVER” CONTRAPPOSTI

Ricapitolando perciò possiamo individuare per il prossimo futuro due possibili tendenze contrapposte:

  • da un lato infatti l’arrivo della recessione non appare destinato a generare nuovi importanti cadute dei listini azionari bensì addirittura forse a presagire un loro lieve rafforzamento. In contropartita eventuali interventi delle banche centrali a favore dei mercati potrebbero risultare in rialzi dei corsi molto moderati, a favore invece di una discesa probabilmente generalizzata del livello di volatilità dei mercati, sino ad oggi restata molto vicina ai massimi storici. Si tratta dunque di fattori moderatamente positivi che porterebbero maggior serenità all’investimento azionario e in definitiva ad una sua lenta ripresa;
  • dall’altro lato però lo scenario sopra descritto tende a ignorare i rischi di nuove ondate pandemiche e della possibile acutizzazione dei conflitti bellici in corso. Due fattori che potrebbero tranquillamente riportare indietro di un paio d’anni le lancette dell’orologio dei mercati. Con l’aggravante che oggi l’economia occidentale è sicuramente più provata di un paio d’anni fa a causa delle crisi già vissute e dell’accresciuto debito complessivo globale. In tal caso le borse non potrebbero che scendere ancora, fattorizzando non soltanto la recessione in arrivo ma anche un nuovo possibile picco dei prezzi delle materie prime.

LA STAGIONALITÀ DELLE BORSE

Nessuno conosce l’entità delle probabilità collegate all’uno o all’altro scenario e, in questi casi, la moderazione è d’obbligo. Ma la possibilità di una lieve ripresa dei listini azionari -almeno durante l’estate- potrebbe tutto sommato non essere del tutto da escludere, come ben indicato da questo grafico, che mostra con la linea rossa il tipico andamento borsistico (sintetizzato con l’indice Dow Jones) in ragione della stagionalità degli ultimi 30 anni: nella prima metà dell’anno le borse tendono a scendere, mentre dall’estate in poi tendono a a tornare a salire. Ci auguriamo che il buon auspicio possa valere anche per quest’anno.

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Stefano di Tommaso




THE CONUNDRUM

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Il mondo si interroga sulla direzione che sta prendendo l’economia globale dopo i ripetuti shock dovuti al virus, all’inflazione e alla guerra, con la speranza di vedere un futuro migliore. Ma molti hanno la sensazione che i problemi non siano ancora terminati. Non soltanto perché l’inflazione sta durando a lungo e perché la guerra (tanto quella “calda” con la Russia in Ucraina, quanto quella “fredda” con la Cina) ha indotto ulteriori problemi di approvvigionamento di energia, materie prime e componenti, ma anche e soprattutto perché adesso è la fiducia degli operatori economici che sta venendo meno. È un guazzabuglio temporaneo? O genererà a sua volta altri problemi, scatenando una recessione globale? Vediamo qual è lo scenario:

 

L’EUROPA

L’Europa sta già oggi affrontando la sua prima vera recessione strutturale dopo quella -durata assai poco- dovuta al lockdown. La piega negativa presa dall’economia nella prima parte dell’anno infatti rischia permanere e gli imprenditori stanno facendo i conti per rivedere di conseguenza le proprie strategie.

La questione fondamentale è se le esportazioni europee potranno riuscire a trainare la ripresa nella seconda parte dell’anno oppure verranno anch’esse travolte dallo “slowdown” globale dell’economia, mentre l’Unione Europea progetta nuove sanzioni alla Russia che di fatto peggiorano la situazione innanzitutto nei paesi più industrializzati e più rigorosamente filo-americani: la Germania e l’Italia. I Francesi invece le sanzioni le hanno di fatto applicate solo a metà mentre gli Spagnoli hanno addirittura appena riaperto tutti i collegamenti con la Federazione Russa semplificandone addirittura le procedure d’ingresso, per favorire la stagione turistica.

Appartenente solo geograficamente all’Europa è poi il Regno Unito, che sta innanzitutto beneficiando del fatto che è un esportatore netto di gas e petrolio, ma che è anche tranquillizzato dal fatto che buona parte del proprio interscambio commerciale proviene dalle ex colonie del Commonwealth, ed è per definizione al momento non a rischio. Non per niente, mentre l’Euro si svaluta la Sterlina si sta rivalutando.

LA CINA

La Cina sta seriamene rallentando la sua crescita economica (parzialmente spinta dalla demografia) anche a causa del severissimo nuovo lockdown imposto ai propri territori meridionali, che però sono i più industrializzati. Le prospettive però sono molto meno grigie di quelle del vecchio continente: la crescita economica sembra innanzitutto trainata dalla domanda interna al Paese e da quella dell’intero continente asiatico e pertanto le prospettive non sono così negative.

La banca centrale cinese sta inoltre continuando ad immettere liquidità nel sistema finanziario, anche per evitare che manchi ossigeno alle imprese e agli investimenti infrastrutturali, contando sul fatto che l’eventuale prosecuzione della svalutazione dello Yuan non è poi così svantaggiosa a casa propria. Ma soprattutto le tensioni della Russia con l’Occidente stanno portando un cospicuo dividendo per la Cina, con le forniture di gas e petrolio a condizioni vantaggiose da Mosca. Lo scenario economico potrebbe essere dunque quantomeno neutrale per la seconda parte dell’anno, se non addirittura positivo.

L’AMERICA

L’America sino ad oggi è riuscita a mantenersi in relativo equilibrio nonostante l’inflazione l’abbia colpita per prima e forse più duramente degli altri Paesi nel mondo: la crescita economica, seppur ridotta, non si è azzerata e la disoccupazione è rimasta molto bassa. La guerra in Ucraina è lontana e, a parte il salasso per il budget nazionale per finanziare armi e munizioni, anzi addirittura ha promosso l’industria bellica che sta facendo affari d’oro in questi mesi. La Borsa però ha accusato il colpo della mannaia della banca centrale che cerca di domare l’inflazione è sono state soprattutto le grandi imprese “tecnologiche” che hanno ridotto drasticamente le previsioni di crescita.

Ma sono i consumi a ridursi decisamente negli Stati Uniti d’America: se c’è un indicatore che normalmente funziona meglio di tutti gli altri per segnalare la salute dell’economia reale questo è l’andamento del settore delle costruzioni residenziali. Quando si contrae è segno che l’economia sta rallentando, anche laddove le statistiche provino ad affermare il contrario. E stavolta il segno meno c’è davvero. Si guardi a questi grafici, tanto relativamente alle vendite di case:

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quanto al riguardo delle previsioni per le costruzioni residenziali dell’anno intero :

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L’America arranca a causa del rallentamento nei consumi: l’inflazione ha addentato largo circa un decimo della capacità di spesa dei consumatori che appartengono alle classi sociali inferiori e questi hanno potuto fare poco per compensare il calo, dal momento che la quota di reddito destinata ai risparmi è notoriamente molto limitata oltreoceano.

Ovviamente la riduzione della domanda di beni è servizi è stata sino ad oggi molto meno che proporzionale al maggior costo della vita, per una moltitudine di fattori, ivi compreso un seppur timido riallineamento verso l’alto (tutt’ora in corso) del livello dei salari. Tuttavia non si può proprio dire che l’economia reale americana non abbia subìto il colpo. Ecco un grafico che lo evidenzia:

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L’ECONOMIA AMERICANA STA UGUALMENTE SOFFRENDO

Il punto non è tuttavia quello che è già successo, bensì ciò che deve ancora accadere: il tasso d’inflazione americano ha raggiunto il suo picco e sta iniziando a volgere verso il basso oppure c’è il rischio che possa incrementarsi ancora? È ovviamente molto difficile rispondere a questa domanda, ma ha anche a che fare con il comportamento futuro di uno dei maggiori poteri economici al mondo: quello della Federal Reserve Bank of America (la banca centrale USA, detta anche FED). Per tre formidabili motivi:

  • perché evidentemente le indicazioni restrittive sin’ora fornite dalla FED per la propria politica monetaria dei prossimi due anni hanno rafforzato fino ad oggi il Dollaro americano, consentendogli di esportare più inflazione di quanta ne importasse,
  • perché se l’inflazione dovesse continuare a crescere la reazione della FED potrebbe generare una nuova importante caduta di Wall Street e infine
  • perché se l’inflazione dovesse proseguire il partito al potere (i Democratici) probabilmente perderebbe le elezioni di medio termine.

Più esattamente:

  1. la FED sta valutando se incrementare ancora la stretta sulla liquidità in circolazione. Se lo farà potrà provocare un altro crollo a Wall Street e spingere la altre banche centrali occidentali a fare altrettanto, provocando problemi ai paesi emergenti e forse anche una recessione globale;
  2. è possibile che -in tal caso- gli operatori giudichino ancora una volta la FED “indietro rispetto alla curva dei rendimenti”, cioè in ritardo nel contrastare gli eventi, dunque con il rischio che le misure adottate non risultino comunque sufficienti e che si verifichi una svalutazione del Dollaro americano (come sta accadendo negli ultimi giorni) dal momento che in tal caso l’incremento dei tassi nominali non basterebbe a contrastare l’inflazione e i rendimenti “reali” resterebbero ugualmente negativi;
  3. l’eventuale ripresa dell’inflazione possa mandare K.O. il partito democratico al Congresso e al tempo stesso quel che resta della credibilità dell’attuale presidente americano, con la possibilità dunque che gli U.S.A. possano cadere nell’ingovernabilità più totale che la storia ricordi.

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Insomma se l’inflazione dovesse continuare la sua corsa al rialzo è possibile che l’economia degli Stati Uniti d’America subisca un duro colpo, e che l’onda lunga di tale disfatta possa devastare di conseguenza le aspettative di ripresa di tutto l’Occidente.

MA QUALE GENESI HA L’INFLAZIONE IN CORSO?

Ma quante probabilità ci sono che l’inflazione continui la sua corsa verso l’alto? Posto che nessuno può davvero sentirsi in grado di rispondere a questa domanda, resta il fatto che possiamo indagare sulle vere determinanti dell’inflazione, per tentare di farcene un’idea. I commentatori si sono sino ad oggi equamente divisi tra coloro che hanno gridato allo shock da offerta di beni e servizi (e il sottoscritto è tra costoro) e coloro che hanno additato principalmente l’eccesso di facilitazioni monetarie e di immissioni di liquidità delle banche centrali, come causa dominante della fiammata inflazionistica.

Ogni ipotesi è buona: la situazione dei prossimi mesi potrebbe risultare molto diversa a seconda che risulti prevalente l’una o l’altra causa del rincaro dei prezzi, oppure entrambe le determinanti potrebbero coesistere e risultare altrettanto “efficaci” nel tenere elevata l’inflazione. Nel primo caso (se lo shock da offerta dovesse risultare prevalente) allora la “stretta” monetaria della FED, arrivando per definizione in ritardo, genererà al massimo una frenata dei prezzi solo “di seconda intenzione”, cioè frenando la crescita dell’economia sino quasi a strangolarla. Nel secondo caso (quello in cui fosse stato l’eccesso di liquidità in circolazione a prevalere come causa determinante nell’ascesa dei prezzi) allora una stretta monetaria potrebbe avere maggiori speranze di risultare efficace nella lotta all’inflazione e senza necessariamente generare una caduta troppo brusca del prodotto interno lordo e magari scongiurando uno scenario di recessione profonda che molti iniziano oggi a pronosticare per l’anno a venire.

SI PROSPETTA UN “AUTUNNO CALDO”

Inutile aggiungere che, qualunque cosa succederà, le prospettive per l’autunno del 2022 sembrano al momento piuttosto grigie. Questo perché -sino a quando l’inflazione dei prezzi non dovesse ritornare a livelli compatibili (2-3% al massimo) con una vigorosa crescita economica globale- difficilmente gli operatori torneranno ad investire a mani basse, è improbabile che le imprese più tecnologiche torneranno al centro dell’attenzione e che gli investimenti per la sostenibilità ambientale torneranno a riprendersi la tribuna d’onore. Di seguito due grafici che ne segnalano il recente andamento (il primo negli USA e il secondo per i principali paesi europei):

LA COMPAGNIA HOLDING

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Ma quanto è realistico che l’inflazione si riduca nell’arco di pochi mesi? Per rispondere a questa domanda dovremmo innanzitutto chiederci se le tensioni internazionali potranno consentire un ridimensionamento del costo dell’energia (carbone petrolio e gas, in primis). Al momento è difficile vedere una schiarita nei rapporti tra i maggiori rivali a livello globale (America, UK ed Europa da un lato, Russia Cina e India dall’altro lato). Essi potranno tornare a dialogare, ma è improbabile che lo faranno senza la “pistola sul tavolo”cioè senza alcun allentamento delle tensioni geopolitiche in corso. Il prezzo dell’energia però tende a influenzare buona parte di tutti gli eletti prezzi dei fattori di produzione e se resterà alto allora l’inflazione proseguirà la sua corsa.

L’altro grande tema riguarda la possibilità di espandere la capacità produttiva globale, che sembra oggi limitata a causa dell’estrema vulnerabilità delle filiere di approvvigionamento globale, destinate sì ad essere nel tempo rimpiazzate dal “re-shoring” di molte manifatture, ma non certo nel brevissimo termine. E sintanto che l’offerta di energia, materie prime e commodities non tornerà a correre, è lecito attendersi una relativa stagnazione globale, che comporterà una riduzione del credito disponibile e la riduzione conseguente degli investimenti tecnologici e infrastrutturali nel mondo, i quali a loro volta restano tra le determinanti fondamentali per la creazione di nuovi posti di lavoro.

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E qui viene il bello: la possibile ripresa della disoccupazione potrebbe uccidere la dinamica salariale perché risulterebbe ridotta la capacità negoziale dei lavoratori nei confronti dei loro datori di lavoro. Ma se si prospetta una recessione globale o quantomeno una mancata crescita e se gli investimenti risulteranno ridotti nei prossimi trimestri è plausibile che si distruggeranno più posti di lavoro di quanti se ne creeranno ex-novo. Dunque se il rischio è quello di perdere il proprio impiego sarà difficile se non impossibile per le classi sociali più deboli agguantare la medesima capacità di spesa che avevano prima dell’inflazione.

Se ciò si avvererà si prospetta allora anche un autunno “caldo” dal punto di vista sociale e sindacale in tutto l’Occidente, che andrà a complicare le cose e a incrementare la spesa per il “welfare” (l’assistenza e previdenza sociale), impedendo ai debiti pubblici di fare quel passo indietro che oggi ancora i mercati si aspettano.

IL ROMPICAPO

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Un bel “conundrum” (rompicapo) come direbbe Barak Obama, insomma! Tanto per l’America e il suo zoppicante presidente, quanto per l’intero Occidente .

Con il rischio che qualche conseguenza negativa si potrebbe riscontrare anche per le borse valori, che non potranno non tenerne conto nei multipli che andranno a sostenere i criteri di valorizzazione delle imprese inserite nei loro listini.

E con la quasi-certezza che nessun banchiere centrale potrà avere forza e chiarezza di idee per venirne (presto) a capo perché gran parte dei “ferri del mestiere” (come il Quantitative Easing) li hanno già adoperati. Forse ci vorrebbe una sorta di nuovo Piano Marshall, sostenuto da appositi finanziamenti da parte degli organismi sovranazionali. Ma anche per fare questo ci vorrebbe un periodo di serenità, pace, coesione e collaborazione internazionale. Tutto il contrario della situazione attuale!

Stefano di Tommaso




NEL MONDO PREVALGONO I TIMORI

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La congiuntura internazionale non promette bene. Non sono soltanto i timori relativi all’inflazione e al conseguente rialzo dei tassi d’interesse a spaventare gli operatori. È soprattutto la prospettiva di recessione globale a generare aspettative riflessive e a frenare le borse. E il gioco delle aspettative spesso conta più di ogni altra cosa. Proviamo a osservare i fenomeni inizialmente a livello internazionale, per poi scendere in maggior dettaglio relativamente al nostro paese e alle conseguenze sui mercati finanziari.

 

A livello internazionale la prima cosa che possiamo notare è il rallentamento generalizzato dell’attività economica: una serie di fattori stanno infatti congiurando per una brusca frenata della crescita. La guerra in Ucraina, nonostante il forte impegno finanziario per molti paesi che la sostengono, è soltanto uno dei fattori che portano nella direzione della recessione: ce ne sono ancora molti altri! Così come la pandemia, pur avendo costretto mezzo mondo a stare a casa per mesi non è stata da sola capace di generare una grande recessione globale, oggi invece il quadro è più complesso per l’effetto congiunto di molti elementi negativi e tale possibilità si fa più concreta.

I MEGATRENDS CHE FRENANO

La società di consulenza di Washington Mehlman Castagnetti Rosen & Thomas per esprimere questo concetto ha elaborato il seguente grafico, dove si possono leggere i principali che oggi stanno rallentando la crescita economica:

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Come si può leggere nell’immagine, uno dei fattori che più hanno inciso sui “venti a favore” della crescita fino a un paio d’anni fa e che oggi generano invece “venti frontali” che ostacolano la crescita è quello della geopolitica. Siamo passati dalla cooperazione alla competizione tra America e Cina. Dalla globalizzazione selvaggia al confronto tra crescenti nazionalismi, dalla ricerca dell’efficienza globale delle filiere produttive alla ri-nazionalizzazione delle fabbriche in ottica di “resilienza” strategica.

DALL’INCREMENTO DEI COSTI INDUSTRIALI…

Dalla prevalenza di meccanismi deflattivi quali l’investimento in nuove tecnologie e la diversificazione delle fonti energetiche, siamo arrivati oggi alla restrizione della capacità produttiva delle filiere di approvvigionamento di minerali, materie prime e derrate alimentari, proprio mentre la ripresa post-pandemica ne incrementava la domanda.

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Ovviamente tutto ciò ha provocato un deciso incremento dei costi dei fattori produttivi, a partire da quelli dell’energia e dei trasporti, ostacolando il commercio internazionale. Quelle sopra citate sono inoltre delle tendenze generali di lungo termine che sono state innescate nel corso di diversi anni e che di conseguenza potranno andare avanti ancora molto a lungo. La cosa che più impressiona però è il fatto che nel complesso il mondo è passato da uno scenario di crescita economica e bassa inflazione (o addirittura di de-flazione) ad uno completamente inverso: di stagnazione e inflazione al tempo stesso!

…AL RIALZO DEI TASSI D’INTERESSE

Contestualmente al radicale cambio di scenario si inseriscono poi gli interventi (o sarebbe meglio dire: le tirate di freni) delle banche centrali. Correttamente ma tardivamente preoccupate per l’inflazione galoppante, esse rischiano, nella loro miopia, di fare ora altri danni, generando un rialzo dei tassi e riducendo la liquidità disponibile con la cancellazione delle facilitazioni monetarie. E questo avviene proprio quando i debiti pubblici dei paesi occidentali sono arrivati ad eccessi pericolosi e quando sarebbero potuti finalmente decollare importanti investimenti infrastrutturali (di cui ora si è smesso di parlare).

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Si tratta di politiche monetarie che comportano indubbie tensioni sulla tenuta dei giganteschi debiti accumulati negli anni “facili” della crescita economica (non a caso in Italia lo spread con la Germania sale), e che riducono le risorse disponibili anche per il settore privato, limitando di fatto l’incentivo a proseguire gli investimenti tecnologici e produttivi. Il maggior rialzo dei tassi è stato operato inoltre negli Stati Uniti d’ America, generando grande forza del Dollaro americano e un conseguente enorme danno per i paesi emergenti e le fasce più povere della popolazione mondiale, che pagano in Dollari tanto gli interessi sul debito con il resto del mondo quanto gli approvvigionamenti alimentari.

GLI EFFETTI NEGATIVI DELLE SANZIONI SULL’U.E.

A livello europeo poi c’è un problema in più: la spesa di diverse decine di miliardi di euro per il sostegno della resistenza ucraina e per l’accoglienza dei relativi profughi e, soprattutto, le sanzioni economiche imposte alla Russia, stanno comportando una brusca frenata per le esportazioni di moltissime imprese europee, nonché un calo dei flussi turistici. La guerra ha inoltre generato un problema che per sua natura è globale ma è molto più tangibile in Europa che altrove: esso riguarda il prezzo e la disponibilità di energia, balzato alle stelle il primo, scesa ai minimi storici la seconda. Anche grazie alle sanzioni alla Federazione Russa e ai suoi alleati, il rischio è concreto che l’Europa possa vedere fortemente compromessa la propria capacità di approvvigionamento di gas e petrolio.

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In Italia ad esempio il Centro Studi Confindustria (CSC) fa notare che il prezzo medio del gas naturale è salito di quasi 7 volte (+698%) in due anni (cioè da prima dello scoppio della pandemia). Il costo del petrolio in confronto è salito ben poco: ”soltanto” del 56%. Ora non si può ragionevolmente ritenere che questi aumenti potranno provocare per l’anno in corso un’inflazione limitata a quella oggi riportata dalle statistiche ufficiali (intorno al 7%).

E CHI CI RIMETTE DI PIÙ E’ L’EUROPA

Non a caso le principali economie europee nella prima parte del 2022 ristagnano, mentre Italia e Germania addirittura arretrano. Ha fatto scalpore nelle ultime ore la notizia che nello scorso mese di Marzo la produzione industriale in Germania (la principale economia europea e il principale paese esportatore nel resto del mondo) è discesa di quasi il 4% (del 4,6% se si escludono energia e edilizia). Sempre in Germania a Marzo si è registrato un incremento dei prezzi alla produzione di quasi il 31% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, con una prima rilevazione dell’inflazione dei prezzi sui beni di consumo giunta in Aprile quasi ai livelli americani: 7,4%!

Nel dettaglio, la produzione tedesca di beni strumentali è calata del 6,6%, quella dei beni intermedi del 3,8% e quella dei prodotti energetici dell’11,4% e addirittura la produzione delle auto è scesa del 14%. In Italia la produzione industriale sembra essere scesa a Marzo “solo” del 2,5%, ma molte altre delle dinamiche appena evidenziate per la Germania assomigliano parecchio a quelle nostrane, solo con qualche limitazione a causa della minor dipendenza dell’economia italiana dalla produzione automobilistica.

E IL RE-SHORING COSTA CARO!

Abbiamo già osservato come, dopo la fase delle delocalizzazioni produttive in Asia, il nuovo scenario geopolitico sta spingendo gran parte delle imprese che se lo possono permettere a investire sul “re-reshoring” delle produzioni industriali, spostandole a località e mercati con minore rischio geopolitico. Ma il “tornare indietro” per molte imprese europee sarà un processo costoso, difficile, doloroso e lento, con complicazioni che si aggiungeranno a quelle appena evidenziate!

Molti commentatori fanno poi notare che mentre oggi i principali fattori che rallentano l’economia sono le strozzature e i rialzi dei costi all’offerta di beni e servizi, a breve potrà intervenire a frenare ulteriormente l’economia un fattore che sino ad oggi era parso relativamente stabile: la domanda dei medesimi. L’inflazione dei prezzi ha infatti depauperato buona parte dei consumatori, privandoli sostanzialmente di una quota del loro reddito disponibile. E questo vale per buona parte della popolazione europea, sottoposta a contratti di lavoro più rigidi di quelli dei paesi anglosassoni e dunque meno capaci di reagire con un rialzo repentino delle retribuzioni.

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Ci sono paesi però come la Francia dove il 27% della produzione energetica arriva a costi bassissimi dalla fonte nucleare. Altri come molti paesi nordici che sono esportatori netti di petrolio e gas. Mentre in Italia e in Germania l’emergenza energetica ha spinto i governi a riattivare le centrali elettriche alimentate a carbone, ma con il rischio di un pesante incremento delle emissioni nocive!

LA FIDUCIA SCENDE IN ITALIA

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Tutto ciò non può non influire (negativamente) sul clima di fiducia che si respira nell’industria e che risulta essenziale per sostenere gli investimenti strumentali, a loro volta essenziali per sostenere l’occupazione. A casa nostra siamo inoltre più penalizzati di qualunque altro paese europeo dalla maggior tassazione rispetto a tutto il resto del mondo. Nel corso del 2021 l’Italia ha infatti battuto il record mondiale (nonché storico) di tassazione media dei redditi, arrivando al 43,5% del Prodotti Interno Lordo.

Non a caso l’indice delle attese sull’economia italiana ha registrato un crollo dal +0,6% a inizio anno fino a – 34,8% di aprile, valore comparabile a quello di dicembre 2020 (dopo la seconda ondata pandemica). Il peggioramento dell’indice di incertezza della politica economica che per l’Italia è salito a 139,1 punti a marzo per poi attestarsi su un valore poco inferiore in aprile (129,2 punti, +28,5% rispetto al 4° trimestre del 2021), accresce i rischi di un ulteriore indebolimento.

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I MERCATI FINANZIARI NE RIMANGONO DANNEGGIATI…

Ecco spiegati i contorsionismi delle Borse valori di tutto il mondo. Almeno sino a quando non arriverà qualche segnale positivo. Nonostante si potesse iniziare a sperare che il programma di rialzi dei tassi d’interesse fosse già stato assorbito dai mercati finanziari e che di conseguenza ogni futura flessione del picco inflazionistico attuale potesse tradursi in un rialzo delle Borse, assistiamo invece a un progressivo deterioramento del contesto economico globale, al perdurare di elementi inflattivi che non potranno essere disinnescati tanto presto, allo scemare delle speranze di fine della guerra con la Russia e alla conseguente caduta dell’ottimismo da parte degli operatori economici.

I mercati finanziari vorrebbero riuscire a vedere per primi la luce in fondo al tunnel, ma non la scorgono nemmeno con il più potente dei telescopi. È questo che dunque spinge gli investitori di tutto il mondo a cercare di liquidare buona parte dei propri asset per accumulare ciò che oramai sembra l’elemento che presto potrebbe scarseggiare: la liquidità.

Se le banche centrali non cambieranno presto la loro impostazione infatti l’unico modo di poter un giorno tornare a beneficiare della risalita delle quotazioni è quello di vendere oggi ogni genere di asset finanziario per tornare a disporre di quella liquidità che potrebbe consentire domani di comperare a prezzi più bassi.

…E GLI INVESTIMENTI IN INNOVAZIONE TECNOLOGICA RINVIATI

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Un meccanismo perverso che non può che rallentare gli investimenti di cui avremmo più bisogno: quelli in innovazione e tecnologia, penalizzando al tempo stesso tutte le attività economiche che non risultino strettamente legate all’energia, alla produzione alimentare e alle tecnologie per gli armamenti. E che rischia di provocare una recessione globale peggiore di quella post-pandemica!

Stefano di Tommaso