VERSO LA RECESSIONE?

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La guerra in Ucraina non accenna a fermarsi. La Cina prosegue il lockdown delle sue principali città. Le statistiche iniziano a divenire “pesanti” riguardo alla frenata degli scambi internazionali e alla riduzione della crescita economica. Le borse di tutto il mondo continuano a scendere da piu di tre settimane e, soprattutto: le banche centrali, la banca mondiale e il fondo monetario internazionale lanciano un vero e proprio allarme riguardo un’inflazione oramai palesemente fuori controllo. È divenuto allora sempre più legittimo porsi questa scomoda questione: il mondo sta entrando in recessione? Ci sono molti elementi che lo possono far ritenere. La risposta però non è affatto scontata.

 

L‘ECONOMIA ITALIANA DIPENDE MOLTO DA QUELLA GLOBALE

L’Italia -per iniziare- nel primo trimestre del 2022 ha già innestato la retromarcia e probabilmente farà ancora peggio nel secondo “quarter”: accumuleremo cioè l’1% di decrescita nella prima metà dell’anno, poi si vedrà. Lo stesso vale per altri paesi dell’Eurozona. Ma quel che conta davvero sapere non è se l’Italia non cresce, bensì se le maggiori economie del mondo stanno rischiando una brusca frenata. La nostra economia in fondo è una variabile fortemente dipendente da ciò che accade altrove. Tanto per il turismo, il lusso e gli accessori che produciamo quanto per le esportazioni di componenti e impianti siderurgici, elettromeccanici e tecnologici che trainano buona parte del resto del Paese. Insomma se il mondo frena allora l’economia italiana può forse andare a rotoli, ma se l’economia globale “tira” difficilmente da noi andrà così male.

COSA PUÒ PORTARE IL MONDO IN RECESSIONE

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Ma perché l’economia globale è a rischio di recessione? Le cause non risiedono soltanto nei timori dell’inflazione e di allargamento del conflitto ucraino, (che peraltro non demordono e mantengono elevati i prezzi dell’energia) ma anche e soprattutto in quelli di un eccesso di zelo da parte delle banche centrali, e nell’ulteriore restrizione della disponibilità di semiconduttori e altri componenti che vengono prodotti in Asia, dove la pandemia continua a colpire, l’attività dei porti rallenta e i noli aumentano. In fondo l’inflazione nasce l’anno passato proprio da uno shock derivante dalla scarsità di offerta.

E questa volta le variabili appena citate potrebbero congiurare per un letale incremento del medesimo shock. La sola Russia infatti è esportatrice di moltissime risorse naturali, che adesso potrebbero scarseggiare.

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L’inflazione è dunque probabile che continuerà a erodere il potere d’acquisto delle classi sociali più deboli, anche per l’effetto-trascinamento: se soltanto taluni prezzi sono saliti presto (nei primi mesi dell’anno), si può ragionevolmente presumere che nel prosieguo anche altri prezzi si adegueranno ai rialzi, semplicemente perché lo fanno più lentamente. L’inflazione dei prezzi al consumo quindi (quella registrata dalla maggioranza delle statistiche) potrebbe continuare a crescere per qualche mese anche soltanto per effetto di quel trascinamento, anche se la frenata dell’economia mondiale inizia a portare al ribasso i prezzi delle materie prime.

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Al gracchiare delle cornacchie, che temono che la revisione di circa un punto delle previsioni di crescita economica del Fondo Monetario Internazionale sia un mero esercizio di eufemismo, si sono aggiunte le banche centrali occidentali, in particolare FED & ECB stanno facendo sapere di voler accrescere la stretta monetaria già pianificata in precedenza. Spesso in passato le recessioni economiche sono state provocate dalle banche centrali, con manovre maldestre, tardive o inopportune. E stavolta tardive lo sarebbero di sicuro, inopportune forse anche.

LE BANCHE CENTRALI POTREBBERO DARE IL “COLPO DI GRAZIA”

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In passato avevo accarezzato l’idea che le borse valori avrebbero potuto sì imbarcarsi un po’ (a causa della guerra e dell’inflazione galoppante) ma che dopo qualche tempo si sarebbero riprese brillantemente così come era successo un paio di anni fa, dopo la prima ondata Covid. Anche questa volta potrebbe accadere: se tra maggio e giugno la guerra trovasse una tregua e l’inflazione iniziasse a moderarsi, le borse potrebbero teoricamente riprendere la loro corsa, quantomeno nei comparti delle nuove tecnologie e della finanza (le prime perché ce n’è sempre più bisogno, la seconda perché il rialzo dei tassi d’interesse porta maggiori profitti).

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Solo teoricamente però, perché in questi giorni il mio pessimismo aumenta. Il rischio infatti non è soltanto quello di una probabile frenata della crescita economica globale, con l’Europa già tecnicamente in recessione, l’Asia che riduce le sue aspettative di sviluppo e l’America che al massimo non cresce. Il vero rischio è piuttosto un altro: quello di un eccesso di reazione da parte delle banche centrali che potrebbero far venire a scarseggiare la droga che ha sorretto nell’ultimo decennio l’economia mondiale: la liquidità.

Le banche centrali sono infatti assillate dall’essere rimaste tecnicamente molto indietro rispetto alla “curva dei tassi” (la funzione di crescita degli interessi man mano che si allungano le scadenze dei titoli a reddito fisso) e vorrebbero recuperare terreno, innalzando i tassi d’interesse a breve in modo più repentino di quanto in precedenza pianificato. Le principali borse valori ne hanno profondamente risentito e rischiano di proseguire la loro discesa proprio in funzione dell’attesa di cospicui rialzi dei tassi.

LE BORSE SONO ANCORA SOPRAVVALUTATE

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Quel che è accaduto al valore di borsa di Netflix infatti dovrebbe far riflettere: se una leggera correzione delle vendite di abbonamenti ha provocato la riduzione della capitalizzazione di borsa del titolo di circa un terzo del valore era probabilmente perché buona parte dei titoli più “alla moda” (i cosiddetti “meme”stocks) scontavano nelle loro valutazioni ancora un lungo periodo di crescita degli utili e un altrettanto lungo periodo di tassi d’interesse bassi. Ora che i tassi rischiano di crescere bruscamente e il mondo di entrare nuovamente in recessione il rischio è quello di un brutto risveglio alla realtà per buona parte dei titoli che compongono i principali panieri di titoli che segnano gli indici di borsa! E ovviamente se le borse scendono anche la ricchezza disponibile per consumi e investimenti si riduce, con il rischio di un avvitamento dell’economia reale, così come era successo nel 2008-2009.

LA GUERRA NON È PIÙ SOLTANTO “FREDDA”!

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Altro motivo di grande apprensione è il rischio di estensione del conflitto ucraino ad una parte dell’Europa e a un confronto molto più serrato dell’Occidente con la Cina, il grande convitato di pietra dei tavoli negoziali di pace. La Cina fino ad oggi si è limitata a tenersi fuori dalla disputa, pur denunciando le indebite pressioni americane sull’Ucraina quali “moventi” del conflitto e pur declinando la propria adesione alle sanzioni nei confronti della Russia. Ma è possibile che l’attuale leader cinese XI Jin Ping, stia soltanto temporeggiando, in attesa della data del congresso del Partito che lo deve riconfermare, prima di prendere una posizione più decisa in politica estera.

La Russia dal canto suo in Ucraina ha sinora impiegato soltanto l’1% del proprio potenziale militare e l’avvicinarsi della scadenza che si è sempre data per l’ “operazione Ucraina” (il 9 maggio, giorno della vittoria nella seconda guerra mondiale, celebrata da allora come festa nazionale) potrebbe spingerla ad un inasprimento delle manovre militari. La NATO poi non ha facilitato in alcun modo i negoziati di pace, anzi! E’ stato provato che è partito da una sua base in Romania il missile che ha affondato la nave militare Moskva al largo dell’Ucraina: se volevamo la scintilla che può far deflagrare il conflitto adesso c’è l’abbiamo! D’altra parte la NATO non è un’organizzazione militare democratica: ciò che accade dalle sue basi è notorio che viene deciso soltanto a Washington. E quest’ultima non sembra molto interessata alla pace.

Non a caso l’esasperazione di questo conflitto ha portato non soltanto l’Ungheria, ma adesso anche Francia e Germania, a dissociarsi pubblicamente dalla “linea dura“ politico-militare espressa da Londra, Washington e Roma. Una linea di dura battaglia e di grande fornitura di armi “strategiche” (cioè a lunga gittata e che potrebbero colpire Mosca) alle armate che sono oramai soltanto nominalmente ucraine, ma che in realtà sono “guidate” da un notevole numero di consiglieri militari NATO. E al riguardo è un segnale inquietante il fatto che sia passata totalmente in sordina l’apertura di Putin della scorsa settimana ad un tavolo negoziale di pace: nessuno gli ha nemmeno risposto e nessuna testata giornalistica italiana l’ha riportata! Cosa che la dice lunga circa l’ “indipendenza” dei media nostrani su ciò che sta accadendo.

L’EUROPA È QUELLA CHE RISCHIA DI PIÙ

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Il fatto che mezza Europa (e quella che conta di più) si dissoci formalmente dalla linea della NATO in Ucraina (chiedendo a gran voce di riaprire i negoziati di pace), pur nel silenzio di molti media, rischia di delegittimare la già scarsa influenza dei vertici europei e di mettere a nudo la dura realtà di un comando molto americano e assai poco democratico della stessa alleanza atlantica. Ma fa anche ben sperare in un ammorbidimento -almeno tattico- della linea dura sinora espressa senza che nessuno fiatasse. Qualora la Russia dovesse rispondere alle provocazioni che partono dalle basi militari NATO, sarebbe coinvolta l’Europa stessa, dove è situata la maggioranza di quelle basi, oltre alla Turchia che ha già abbandonato ogni ipotesi di tavolo negoziale arrivando addirittura a vietare il sorvolo dei propri territori ai velivoli russi!

Qualsiasi guerra infatti è sempre stata originata da interessi economici, oltre che politici. E questa guerra non fa eccezione. Ci sono giganteschi interessi economici dietro a chi soffia sul fuoco dell’estensione del conflitto, a partire dalle grandi multinazionali che si occupano di energia e da quelle che producono armamenti. Ma mentre in passato le aree di conflitto erano sempre state geograficamente limitate a specifiche aree asiatiche o mediorientali, oggi la minaccia di una guerra globale termonucleare è divenuta più concreta, e dipende dal fatto che la Russia ha sempre parlato chiaro: se sarà colpita risponderà ai “mandanti” (cioè anche oltre i Balcani e oltre Atlantico) e non soltanto ai meri esecutori di eventuali attacchi.

LA STAGFLAZIONE PUÒ IMPEDIRE IL RIMBALZO DELLE BORSE

Un rischio come questo ne rilancia un altro: quello di avvitarci in una “stagflazione”, cioè quella micidiale combinazione di inflazione dei prezzi e stagnazione dell’economia. Di fronte a tale scenario occorre tenere conto di alcune dinamiche -scontate ma pur sempre molto importanti- che intervengono quando l’inflazione erode il potere d’acquisto delle famiglie e la recessione comporta la riduzione degli investimenti tecnologici e produttivi: i consumi scendono, le vendite di impianti vengono rinviate, le esportazioni si riducono e in generale i profitti delle aziende languono. Se ci aggiungiamo il fatto che quasi certamente i tassi d’interesse continueranno a salire, ecco che il valore attuale dei flussi di cassa attesi dalle imprese (elemento chiave nella valutazione delle stesse) non può che ridursi. E le quotazioni delle borse non potranno non tenerne conto, regredendo a loro volta. Forse anche decisamente.

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Ecco dunque spiegati i timori di una mancata ripetizione del “rimbalzo” delle borse che si era visto subito dopo l’attenuarsi dell’incubo pandemico, a metà del 2020. Se mancheranno i “fondamentali” non si capisce su quali basi le borse potrebbero riuscire a rimbalzare! Si potrebbe obiettare che la liquidità in circolazione potrebbe restare ancora abbondante, e che peraltro essa viene alimentata non soltanto dalle banche centrali, ma anche dal riacuirsi di quel fenomeno che gli americani avevano chiamato in passato “savings glut” (cioè congestione dei risparmi) dal momento che la maggior prudenza dei risparmiatori occidentali li spinge ad incrementare le loro riserve monetarie e a trovare relativamente poche opportunità dove investire, restando per lo più liquidi.

GLI SQUILIBRI VALUTARI DANNEGGIANO I PAESI EMERGENTI

Dunque potrebbe essere l’abbondanza di liquidità nonostante tutto che salverà le borse? Dipende, principalmente da ciò che faranno le banche centrali: se la recessione in arrivo le riporterà alla moderazione è possibile. Ma anche qui occorre rilevare due atteggiamenti molto diversi nel mondo: da un lato ci sono le banche centrali di Cina, India e Giappone che propendono verso una linea morbida per evitare di accentuare i problemi congiunturali. Dall’altro lato ci sono quelle del Regno Unito, dell’America e adesso anche dell’Eurozona, che invece meditano un’accentuazione dei rialzi dei tassi di interesse. Il problema è che se soltanto una parte delle grandi economie mantengono un atteggiamento espansivo delle proprie politiche monetarie allora intervengono grandi squilibri nei livelli di cambio delle valute, a favore di chi rialza di più i tassi (cosa che in parte sta già avvenendo). Costringendo chi non li voleva rialzare ad adeguarsi giocoforza.

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Inutile ricordare quanto il Dollaro forte può danneggiare le economie emergenti, che restano fortemente dipendenti da questa valuta per i prestiti internazionali ottenuti, ma anche per il finanziamento delle infrastrutture. Né può aiutare il fatto che le esportazioni di materie prime e semilavorati avvengono quasi sempre in Dollari, poiché il controllo di queste ultime è spesso appannaggio delle grandi multinazionali, con poche eccezioni. Dunque gli squilibri valutari possono danneggiare le economie emergenti le quali a loro volta contribuiscono non poco alla crescita economica globale, che spesso si basa più sull’andamento della demografia (che cresce soprattutto nelle aree più svantaggiate) di quanto possa basarsi sulla produttività del lavoro.

QUALI SETTORI ECONOMICI ANDRANNO MEGLIO?

In caso di grave recessione globale saranno quasi soltanto i titoli anticiclici (cioé i beni di prima necessità, gli alimentari e i farmaceutici) a limitare i danni. Tutti gli altri sconteranno il combinato effetto delle minori vendite, della decrescita dei margini, dell’incremento dei tassi e della riduzione degli investimenti. Se invece le tensioni si allenteranno, per lo scampato pericolo di un nuovo conflitto mondiale, o per la riduzione dei costi energetici, o ancora perché la minaccia di una nuova ondata pandemica regredirà, allora la congiuntura economica potrebbe evolvere in senso positivo nella seconda parte dell’anno.

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In quest’ultimo caso saranno gli investimenti produttivi per la rilocalizzazione (reshoring) delle produzioni strategiche e quelli per incrementare la produzione di energie da fonti rinnovabili a guidare la ripresa, anche perché l’orientamento strategico resterà il medesimo e si tornerà a parlare dell’esigenza di ridurre le emissioni nocive.

Però anche nel migliore degli scenari è probabile che l’inflazione continuerà a mordere ugualmente e resta altresì probabile che le tensioni geopolitiche permangano ancora molto a lungo. Per questi motivi anche caso si riesca scansare il pericolo di una recessione globale, i portafogli azionari degli investitori continueranno probabilmente a ruotare, privilegiando i comparti energetici e quelli finanziari. In particolare le assicurazioni che potranno imporre rialzi dei prezzi delle polizze forse più che proporzionali all’incremento dei rischi e in generale tutti gli operatori che potranno beneficiare dell’incremento dei tassi di interesse potranno accrescere i propri margini.

I conti economici delle banche potranno riprendersi altrettanto in funzione dei maggiori margini che derivano da interessi comunque in crescita, ma sicuramente dovranno prima scontare l’ennesima ondata di insolvenze derivanti dall’attuale periodo di incertezza. Dunque per le aziende di grande dimensione il comparto finanziario potrebbe essere quello che guadagna di più in caso di mancata recessione mondiale (perché i tassi continueranno a salire) o quello che perde di meno, in caso di profonda recessione.

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Qualora infine la recessione sarà evitata non escluderei un ritorno di fiamma degli investitori per le nuove tecnologie, non per tutte però e nemmeno a qualsiasi prezzo: saranno più beneficiati probabilmente i settori legati alla difesa, al risparmio energetico e alla ricerca chimica, nonché ovviamente all’intelligenza artificiale. Potranno invece (continuare a) farne le spese i settori dell’entertainment, del commercio elettronico, degli accessori e i social networks, perché considerati troppo ciclici. Difficile pensare bene invece (almeno nel medio termine) delle public utilities, della logistica, dei trasporti e delle comunicazioni.

COMUNQUE VADA IL MONDO ACCELERA

Se anche il mondo quindi non sta entrando in recessione, lo scenario globale non sembra nemmeno dei più rosei. Gli sconvolgimenti in atto sono comunque di enorme portata. Potranno forse riuscire a non risultare particolarmente dannosi per l’economia globale, ma per certo provocano sin da oggi una brusca accelerazione delle evoluzioni in corso, così come è successo con la pandemia.

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E se il mondo accelera le sue evoluzioni, ci saranno come sempre molti vincitori e molti vinti. Molti settori economici raggiungeranno la maturità o il declino più in fretta di come si sarebbe potuto supporre, altri oggi appena agli albori inizieranno a primeggiare. Come sempre in questi casi l’importante è non restare con le mani in mano: se arrivano le onde è meglio trovare una qualche supporto per tentare di restarvi a cavallo, piuttosto che farsene travolgere. E quel supporto -invariabilmente- sono le disponibilità di capitale, di cui ci sarà sempre più bisogno.

Stefano di Tommaso




AVVISAGLIE DI RECESSIONE

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Molti segnali indicano la prossimità di una recessione: in Italia forse già in corso, nel resto d’Europa alle soglie, in Cina, in Giappone e negli Stati Uniti d’America soltanto possibile o comunque non ancora conclamata. Il rischio ovviamente è che la recessione in arrivo si estenda a tutto il mondo e possa auto-alimentarsi. È l’ovvio risultato dell’iperinflazione in atto e delle conseguenze della stessa, a partire dalla rarefazione degli investimenti, dal calo dei consumi e dal rallentamento della velocità di circolazione della moneta.

 

I MAGGIORI COSTI DEI FATTORI PRODUTTIVI

L’Eurozona ha chiuso il mese di Marzo con un’inflazione media del 7,5%. Gli Stati Uniti d’America con il 7,9%. Ma è chiaro a tutti che il meccanismo di trasferimento dei maggiori costi delle materie prime ai prezzi al consumo è appena iniziato. E che dunque la crescita di questi ultimi non potrà che proseguire. Per non parlare dell’inseguimento -molto probabile ma non ancora avviato- al rialzo del costo della vita da parte delle retribuzioni salariali. Anch’esso è da mettere in conto, di necessità, entro al massimo un semestre solare. Se ne deduce che l’inflazione dei prezzi al consumo che le statistiche ufficiali stanno osservando in questo primo trimestre del 2022 è giocoforza soltanto una parte di quella che dovrà palesarsi nei prossimi mesi per effetto dello shock da offerta intervenuto a monte delle filiere produttive, molto tempo prima dello scoppio della guerra. La guerra lo ha solo accentuato.

Ovviamente i rialzi dei costi di materie prime ed energia hanno spesso spiazzato le imprese che li hanno subìti, costringendole a ridurre il volume di produzione e a cercare nuove e più efficienti combinazioni di fattori. E -appunto- non è ancora iniziata la fase di richieste di adeguamenti salariali, che aggiungeranno altri problemi alle imprese medesime. La riduzione dei margini industriali che ne è derivata e che sarà visibile nei prossimi bilanci determinerà un possibile flesso nelle valutazioni aziendali, nonché nel gettito fiscale.

Come si può leggere dal confronto grafico qui sotto riportato, che copre l’arco dell’ultimo ventennio negli U.S.A. , un aumento troppo elevato dei costi di produzione (indicati dal Producer Price Index, misurato sulla scala di destra) conduce tipicamente in qualche mese di tempo ad una decisa frenata della produzione industriale (ISM Manufacturing Index, misurato sulla scala di sinistra):

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LA FIDUCIA DEGLI OPERATORI ECONOMICI NEL MONDO

Il rischio dunque di una recessione prossima ventura riguarda anche gli Stati Uniti d’America, che oggi hanno resistito molto meglio dell’Europa alla sventagliata di rincari. Ma l’indicatore economico più significativo per predire una recessione è sempre stato il calo della fiducia nel prossimo futuro. E ora tanto i produttori quanto i consumatori ora la vedono piuttosto nera. In Italia un segnale davvero inquietante è stato il calo delle vendite delle autovetture: un -30% secco a Marzo 2022 la dice lunga sulla (s)fiducia dei consumatori di casa nostra! Ma anche in Asia la situazione sembra proprio grigia: il Giappone ha registrato un brusco calo da 17 a 14 dell’indice trimestrale Tankan (che misura la fiducia delle aziende) al livello più basso da quasi un anno.

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La Cina sembra invece andare peggio. Sebbene le previsioni (Morgan Stanley) continuino ad indicare la prospettiva di una crescita del PIL cinese di almeno il 4,6% quest’anno (seppure in riduzione rispetto ad attese ufficiali del 5,5%), è soprattutto la fiducia delle imprese che ha subìto il maggior calo: l’indice PMI manifatturiero di Marzo (che lì si chiama Caixin) è calato di oltre 2 punti dal livello di 50,4 precedente, andando a 48,1, e soprattutto scendendo sotto la soglia psicologica di del livello 50, che segna il confine tra previsioni positive e negative. Per la Cina dunque la situazione è quasi peggiore di quella del Febbraio 2020, quando divenne ufficiale la crisi pandemica. Complice anche questa volta il virus, che ha imposto una serie di lockdown regionali in alcune tra le province più industrializzate dell’ex-celeste impero, oltre evidentemente ai rincari di quasi tutte le materie prime e dei costi dell’energia.

Fa inoltre paura non soltanto l’inflazione dei prezzi dei fattori industriali, ma anche il calo tendenziale del commercio internazionale, tanto per i maggiori costi dei noli marittimi quanto per la minore domanda di beni. Non stupisce perciò che le economie più esposte in Europa al possibile calo delle esportazioni siano quelle della Germania e dell’Italia. La prima è più che altro preoccupata per il calo delle vendite di autoveicoli in tutto il mondo (la cui produzione resta centrale per l’economia tedesca) e per la possibilità che le tensioni internazionali portino ad una riduzione degli ordinativi di impianti e macchinari, per i quali la Germania resta la prima esportatrice al mondo.

IL COSTO DELL’ENERGIA È CRESCIUTO DI PIÙ IN EUROPA

Mentre però la Germania ha ancora la possibilità di usare il carbone per produrre energia (con buona pace per la transizione verde) e ha spento le proprie centrali nucleari ma ne ha molte e può riattivarle in pochissimo tempo, L’Italia invece ha un problema in più: la carenza strutturale di risorse energetiche domestiche che, insieme all’elevata tassazione, rende proibitivo il costo per produrre l’energia elettrica. In campo energetico il nostro Paese è il fanalino di coda tra le grandi economie dell’Eurozona, dal momento che anche la Francia se la cava meglio, con un terzo della sua elettricità proveniente dal nucleare, mentre noi continuiamo a smantellare le centrali esistenti (chiuse da anni) e non estraiamo dal sottosuolo che il 6% delle risorse di gas e petrolio che possediamo.

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Sulla piazza finanziaria di New York poi la settimana scorsa è circolato l’allarme che proviene dall’ “inversione della curva dei rendimenti”, ovvero dal campanello d’allarme che suona con l’arrivare a invertire la normale progressione dei livelli dei tassi d’interesse per le durate finanziarie più lunghe: quando infatti i tassi a breve termine superano quelli a lungo termine, molto spesso nel passato è successo che nel giro di qualche mese si sia materializzata la recessione economica.

L’indicazione fornita da tale grafico è sempre stata piuttosto affidabile e, nel contesto generale di tensioni geopolitiche e industriali, essa rischia di essere verificata anche questa volta. Ecco nel grafico qui riportato un rapido confronto storico tra l’ inversione della curva e le fasi di recessione conclamata del recente passato:

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L’indicazione fornita dall’inversione della curva dei rendimenti sembra peraltro venire confermata anche da un altro segnale tipico del rallentamento dell’economia americana: quello della crescita degli stock delle scorte (inventories) superiore alla crescita degli ordinativi ricevuti dalle imprese (new orders): come si può leggere dal grafico qui riportato essa riguarda tanto la Cina quanto gli Stati Uniti d’America :

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LA CONFINDUSTRIA DENUNCIA: LA RECESSIONE È GIÀ IN CORSO

Si aggiunge al coro di cornacchie poi anche la nostra Confindustria, che parla autorevolmente tramite il suo Centro studi (CSC) e il presidente dell’associazione degli industriali, Carlo Bonomi: “nel 2022 il pil crescerà solo di un +1,9 per cento “ con un’ampia revisione al ribasso (-2,2%)” rispetto alle stime di ottobre, quando tutte le previsioni erano concordi su una crescita superiore al 4%. Aggiungendo tra l’altro che questa ipotesi fa riferimento a uno scenario relativamente ottimista, in cui “la durata della guerra è una variabile cruciale” e che da luglio abbia termine o si riducano incertezza e tensioni.

Per gli esperti del CSC poi, a fronte del +2,3% di crescita acquisita per “l’ottimo rimbalzo dell’anno scorso” nella prima metà dell’anno, l’Italia sarà letteralmente in recessione tecnica, poiché il PIL calerà dello 0,2% nel primo trimestre 2022 e dello 0,5% nel secondo. Sempre che -appunto- la guerra in Ucraina non prosegua anche nella seconda metà dell’anno. Ma come sappiamo la guerra ha soltanto accentuato le tensioni sui prezzi di materie prime e semilavorati. Tensioni sorte già a metà del 2021. È spiacevole dirlo, ma la strada per la ripresa perciò rischia di essere anche più lunga!

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Stefano di Tommaso




DRAGHI E TRUMP POTREBBERO DELUDERE I MERCATI

Stavolta le borse sembrano più prudenti del solito, in attesa del Consiglio della Banca Centrale Europea di Giovedì, perché le quotazioni incorporano sì l’aspettativa di un giudizio più severo sulla salute dell’economia nell’Euro-Zona ma anche quella (non ovvia ma ugualmente attesa con ansia) che la BCE possa lanciare di conseguenza nuovi stimoli monetari, quantomeno per scongiurare un nuovo “Credit Crunch” nelle zone più svantaggiate. Se gli stimoli saranno annunciati, allora ne beneficeranno innanzitutto le banche e le quotazioni delle borse valori. Quel che non è così scontato però è che le due notizie (la rilevazione dell’andamento macroeconomico e il pacchetto di stimoli monetari) giungeranno nello stesso momento.

 

La BCE potrebbe infatti riservarsi di calibrarne meglio il lancio e rimandarlo ad Aprile. Ma se questo avvenisse non sarebbe un bel segnale per i mercati nè per lo spread tra i Bund e i BTP. Le pressioni dei mercati sul governo italiano e sulla sostenibilità del debito pubblico nazionale potrebbero accrescersi, generando di conseguenza nuovi timori e nuove fughe di capitali dal nostro Paese e, a volerci ricamare sopra, forse queste ultime avidamente agognate dai registi occulti dello spettacolo in scena.

E’ un po’ quel che è accaduto per la sorte del dialogo Cina-America tanto agognata dalle borse internazionali: ci si aspettava che Trump segnasse già nei giorni scorsi due goal spettacolari, tanto al tavolo da gioco dei rapporti commerciali quanto sullo scacchiere ancora più complesso dei negoziati strategici con la Corea del Nord (considerata ancora un vero e proprio satellite della politica estera cinese, che mira a porre una propria zampata significativa sulla futura Corea riunita): il successo probabilmente ci sarà, ma nessuno ne ha davvero fretta, e nel frattempo le borse non brindano. Ora si parla di un consenso generale per la firma dell’accordo commerciale con la Cina al 27 di Marzo, sebbene nemmeno quella data sia certa.

Sullo sfondo poi le preoccupazioni sull’andamento dell’economia nel suo complesso aumentano e molti si chiedono se la crescita economica che ci si attendeva si verificherà davvero, inducendo perciò l’esposizione degli investitori al rischio dei mercati verso atteggiamenti di maggior prudenza ma soprattutto generando un ovvio “volo verso la qualità” dei capitali che, nel dubbio, preferiscono spostarsi sulle piazze finanziarie più liquide e sicure, riducendo la loro presenza dunque nell’Europa periferica (dove siamo noi Italiani), nonché in Cina e in molti altri Paesi Emergenti. Questa tendenza può suggerire a Donald Trump di generare altra pressione sull‘interlocutore cinese attraverso la fibrillazione dei mercati finanziari, anche al fine di indurlo a più miti consigli.

Ma a ben vedere lo stesso concetto può valere anche per i Paesi partner dell’Unione che oggi più influenzano la Commissione Europea (leggi Francia e Germania), non esattamente allineati con l’idea di veder proseguire con successo la manovra del governo giallo-verde in Italia, e dunque meno inchine a vedere la BCE agire troppo prontamente per tutelare i titoli scambiati sulle piazze finanziarie periferiche come la nostra.

Non ci sarebbe da stupirsi dunque che l’attesa di nuovi spunti dei mercati finanziari si trasformi in un lento logorìo, o addirittura in un vero e proprio allarme, pur non potendo imputarne la colpa a Mario Draghi, che resta condizionato alle decisioni collegiali del Consiglio e rimane in uscita a breve termine.

Non è ovviamente questo l’unico scenario possibile: il super governatore potrebbe ugualmente tentare un colpo di scena dai risvolti patriottici o anche soltanto un commento più generoso, e in fondo gli osservatori un po’ ci sperano.

Così come a Wall Street l’attesa della fine delle guerre commerciali tra poco più di un paio di settimane tiene ancora gl’indici sui massimi. Le borse possono contare ancora su un’ottima liquidità e sull’ennesima aspettativa di buoni profitti industriali che saranno pagati a breve dalle imprese quotate, dunque la benzina non manca loro e non hanno troppi problemi anche a divergere vistosamente dall’andamento delle principali variabili macroeconomiche, tutte o quasi oramai orientate all’opposto degli indici di borsa e delle quotazioni dei titoli a reddito fisso.

È per tutti questi motivi che nulla è scontato, e che in queste ore la cautela regna sovrana. Ma in fondo l’attesa è breve. Tra Giovedì e Venerdì qualche carta verrà scoperta.

Stefano di Tommaso




A PROPOSITO DI CICLI ECONOMICI

Le borse stanno vivendo un momento di traslazione dopo lo scoppiettante inizio del 2019, l’arrivo del quale ha regalato a chi investe una performance che potrebbe essere considerata già valida per tutto il resto dell’anno. Oggi l’economia di carta sembra sonnecchiare senza molti timori, mentre è assai difficile affermare che anche per l’economia reale va tutto bene: i dati macroeconomici non sono affatto rassicuranti e l’intero sistema industriale planetario sembra registrare un rallentamento. E ci si chiede se potrà contagiare anche i mercati finanziari.

 

PERSINO L’AMERICA TEME LA RECESSIONE

I dati statistici parlano chiaro persino in America (la stessa che ancora prevede di chiudere l’anno in corso con una crescita del Prodotto Interno Lordo al 3%, e che probabilmente dovrà presto rivedere quel numero al ribasso): il rallentamento della crescita economica è sotto gli occhi di tutti. Persino la disoccupazione in America rischia di riprendersi, sebbene con il 3,7% sia scesa a poco più di un terzo della nostra, mentre calano la crescita della produzione manifatturiera, i prezzi degli immobili, la fiducia dei consumatori, l’erogazione di credito alle piccole imprese, e mentre il debito pubblico supera il livello di guardia. L’America però sul piatto da poker della crescita economica ha da tempo giocato la sua carta migliore: gli investimenti sull‘innovazione, in molti casi destinati a portare dei frutti persino in caso di recessione.

L’INDUSTRIA EUROPEA GIÀ ARRANCA

Il continente europeo purtroppo non se la cava affatto altrettanto bene. Il governo italiano sta cercando come può di creare nuovi stimoli all’economia ma l’impostazione complessiva dell’Unione tende a limitarne l’efficacia: sarà già un bel risultato se riusciremo a contrastare la frenata delle esportazioni e la diminuzione del potere d’acquisto dei consumatori, facendo terminare l’anno poco sopra la parità.

Frenano pesantemente la crescita economica e un certo malessere delle banche, che soffrono per i tassi bassi e la liquidità che vola oltre oceano. La riduzione del credito alle piccole e medie imprese è particolarmente rilevante in Italia, dove rischia nel 2019 di risultare maggiore di quella registrata nel 2018 (oltre 40 miliardi di euro). I fattori esterni congiurano con gli scontri politici per le prossime elezioni europee, a tarpare le ali all’economia del nostro Paese, sebbene è probabile che anche l’anno in corso risulti positivo per il turismo e l’industria alimentare nazionali.

La Germania è risultata ancor più vulnerabile dell’Italia all’arrivo della recessione nel 2019, non soltanto perché fortemente dipendente dall’andamento delle esportazioni, ma anche perché è risultata troppo esposta all’andamento -non positivo- dell’industria automobilistica, sottoposta a sempre più stringenti regolamentazioni ambientali e al cambio di paradigma che viene imposto dalle auto elettriche. Peraltro le condizioni generali dell’economia-molto migliori delle nostre- hanno fatto sì che i consumi tedeschi sino ad oggi non subissero forti ripercussioni.

 

LE CONTROMOSSE DELLE BANCHE CENTRALI

D’altra parte, proprio perché il timore di una recessione globale è oramai generalizzato, le banche centrali si preparano (tutte) a tornare a immettere stimoli monetari (come il Quantitative Easing o il TLTRO), per cercare di prevenire e contrastare la possibilità di una deriva eccessiva, e questo apparentemente ha ottenuto l’effetto di rassicurare i mercati borsistici, i quali ne risulterebbero beneficiari molto prima che il mondo manifatturiero. Addirittura il Tesoro britannico ha accantonato una liquidità di emergenza del valore di 4 miliardi di sterline, mentre la Banca d’Inghilterra non ha escluso la possibilità di intervenire, nello scenario peggiore -quello del “no deal Brexit- con un taglio dei tassi. L’opinione prevalente è che nel breve termine tali contromisure sortiranno un effetto positivo, soprattutto sul fronte dell’erogazione del credito alle imprese, mentre è meno chiaro cosa possa succedere nell’arco di un anno o più.

LE TEORIE ECONOMICHE NON AIUTANO

In congiunture come quella attuale non c’è allora da stupirsi se -nell’incertezza- tutti gli osservatori corrono a scrutare teorie economiche vecchie e nuove che aiutino a chiarire se sono fondati i timori di essere giunti al termine del ciclo economico espansivo. La crescita economica globale sta soltanto prendendosi una “boccata d’aria” o una nuova tempesta perfetta è in procinto di abbatterla? Come sempre è più probabile che la verità sia nel mezzo, il che però non risulterebbe un granché di buona notizia perché contribuirebbe a rafforzare ugualmente i timori e le perplessità degli operatori economici in procinto di effettuare nuovi investimenti.

Ma rispondere sarebbe più facile se potessimo spiegare perché periodicamente la crescita economica si trasforma nel suo opposto. Quali sono le ragioni determinanti? Questa tendenza alle oscillazioni del pendolo è irrinunciabile oppure si può sperare in una crescita economica prolungata senza preoccuparsene troppo ?

QUATTRO SCUOLE DI PENSIERO

Sono queste le domande cui numerosi economisti hanno tentato di rispondere nell’ultimo secolo, sfornando ipotesi per tutti i gusti di cui vorrei fare soltanto quattro rapidissime citazioni:

  • dalla scuola austriaca che vede nelle manovre delle banche centrali la causa prima del disequilibrio che in prima battuta droga i mercati ma poi porta all’effetto opposto,
  • alla teoria Keynesiana secondo la quale il governo può allentare gli effetti della recessione tagliando le tasse ed aumentando la spesa pubblica.
  • Quest’ultima è contrastata dalla “scuola monetarista” secondo la quale il concetto di ciclo economico è controverso e le sue fasi sono da intendersi piuttosto come fluttuazioni irregolari (per citarne solo alcuni) derivanti dalla maggiore o minore disponibilità di denaro liquido e dalla sua velocità di circolazione.
  • Negli ultimi anni si è poi diffusa la cosiddetta “Modern Monetary Theory”, che vede il governo di ciascuna nazione che possiede sovranità monetaria (non l’Italia, dunque) come un monopolista capace di controllare l’economia con la sua spesa, le sue tasse e il suo debito. In questa logica non importa quale sia il livello del deficit o del debito pubblico, purché l’inflazione sia sotto controllo e si possa raggiungere la piena occupazione. Insomma la negazione della concezione della scuola austriaca.

Morale: sembra proprio che non esista alcuna teoria universalmente valida e condivisa da tutti a proposito dei cicli economici, nè una ricetta che ne derivi consigli utili a prevenire o limitare i danni di una possibile recessione! Se questo è vero è come dire che non ci sono prove che le teorie sul ciclo economico rispondano a verità nè che esistono ragioni universali che ne spieghino l’andamento, e nemmeno una teoria condivisa circa gli arnesi di politica economica da usare di conseguenza.

LE “UNIFORMITÀ RELATIVE” FANNO TREMARE

Eppure se guardiamo al passato, esistono eccome delle “uniformità relative” e degli strumenti per Identificare a quale punto del ciclo economico ci troviamo. Questo perché dopo qualche anno di espansione l’economia di ciascuna nazione è sempre tornata a contrarsi, e questo è ciò che sembra accadere già oggi all’Europa, a prescindere dalle teorie e dalle spiegazioni possibili, così pure ci sono segnali di rallentamento della crescita economica anche in America e ancor più in Cina, esattamente come era avvenuto alla vigilia dei precedenti momenti di inversione del ciclo economico.

Il grafico sottostante (riferito agli U.S.A.) può mostrarci ad esempio che l’andamento della disoccupazione tende a scendere ai minimi poco prima che arrivi una recessione (fascia grigia) per poi risalire bruscamente.


Lo stesso discorso si può fare a proposito dell’indice di fiducia dei consumatori, che si riporta rapidamente in territorio positivo (colore verde) subito dopo la fine di ogni nuova recessione per poi declinare progressivamente mano mano che si prosegue nel corso del ciclo economico espansivo.


Il problema di un tale approccio però è che molte considerazioni valide per ciascuna nazione rischiano di risultare poco valide per il mondo intero, dal momento che le oscillazioni della crescita economica sono quasi sempre sfasate tra una nazione e l’altra.

D’altra parte ciò può essere un bene, dal momento che i veri problemi si manifestano quando tutto il mondo contemporaneamente si avvia verso la recessione, e ciascuna area geografica contagia le altre.

Ci sono peraltro sempre maggiori collegamenti tra i mercati finanziari di tutto il mondo e alcune variabili tendono oramai a oscillare in perfetta sincronia. Si guardi per esempio all’inversione della cosiddetta “curva dei rendimenti”: una tendenza manifestatasi con costanza negli ultimi decenni in tutto il pianeta, alla vigilia di ogni recessione c’è stata infatti una sensibile riduzione (sino all’inversione) delle differenze dei rendimenti finanziari tra il breve e il lungo termine, come è mostrato dal grafico che segue:


Se da un segnale così forte dovessimo dunque dedurne qualcosa in termini predittivi, allora sarebbe piuttosto probabile che il momento attuale esprima la potenzialità dell’arrivo di una nuova recessione, così come è successo quasi sempre in precedenza.

IL DEBITO GLOBALE È FUORI CONTROLLO

Ma il mondo deve anche confrontarsi con una variabile che sembra essere uscita fuori controllo soltanto negli ultimi anni: l’espansione del debito globale. Nel grafico qui sotto ne vediamo le proporzioni: alla fine dell’anno in corso probabilmente conviveremo con un debito complessivo globale che è semplicemente triplicato rispetto a quello del 2003, come mostrato dal grafico che segue:


Una crisi di fiducia prossima ventura insomma trascinerebbe con sè una crisi del debito le cui proporzioni si sono sensibilmente ampliate negli ultimi dieci anni. Difficile ovviamente dedurne delle indicazioni pratiche circa le azioni da intraprendere, tanto a livello pubblico quanto dei propri investimenti privati. E di conseguenza è difficile dedurne delle cautele possibili, ma certamente il contesto macroeconomico in cui ci troviamo sembra premonire -senza precisarne il momento- l’arrivo di una nuova recessione globale e il livello di indebitamento cui si è spinto l’intero pianeta non fa presumere nulla di buono circa la sorte possibile delle attività finanziarie in contesti come quello attuale.

Ma, come appena specificato, nessuno sa quando arriverà quel momento. America e Cina -per motivi politici- concordano fortemente nel cercare soluzioni per prolungare la durata dell’attuale ciclo economico, ma ciò non sarà possibile se il resto del mondo andrà ugualmente sott’acqua (e l’Europa ci è molto vicina).

QUALE DIVERSIFICAZIONE DEGLI INVESTIMENTI ?

Non è un caso che oramai già da qualche tempo gli investitori di tutto il mondo cerchino protezione del valore delle ricchezze amministrate nelle più svariate direzioni della diversificazione degli investimenti, ma in un mondo dove gli andamenti di quasi tutte le attività finanziarie sembrano sempre più fortemente correlati tra di loro, è davvero difficile ottenerla.

Qualcuno dice che quella protezione potrebbe arrivare dal mattone e dalle cosiddette “utilities” (attività economiche di produzione di beni e servizi di pubblica utilità) cioè dagli investimenti anticiclici per eccellenza, qualcun altro dice che tale difesa può trovare attuazione investendo di più sui mercati delle economie emergenti del pianeta (quelle meno colpite oggi dalla speculazione), i quali risentiranno meno di un’eventuale crisi perché hanno meno da perdere e perché la crescita demografica sospinge le loro economie.

Ma la verità è che, sebbene molti dati inizino a parlar chiaro circa la possibilità di una recessione globale, resta molto difficile presagire temporali mentre ancora il sole splende a cielo terso, e che in casi come questo si corre persino il rischio di essere additati per il malaugurio!

Stefano di Tommaso