ECCO PERCHÉ I MERCATI FINANZIARI NON BRILLERANNO

I recenti scossoni sui mercati finanziari stimolano il dibattito sulla durata e le possibili evoluzioni dell’attuale super-ciclo economico, ma l’osservazione delle più recenti tendenze dell’economia globale pone molti più interrogativi di quanti ne aiuti a risolvere.
Eppure le possibili risposte alle questioni che emergono appaiono estremamente stimolanti per riuscire a farsi un’idea di dove possono orientarsi i mercati finanziari.

 

Solo pochi mesi fa le borse valori sembravano dolcemente addormentate sopra un letto di fiori: le loro quotazioni, giunte e persistentemente piuttosto stabilmente ai massimi storici, avevano cancellato la tradizionale volatilità e il susseguirsi ininterrotto di notizie economiche positive aiutava la speranza che i livelli stratosferici di capitalizzazione delle borse potessero arrivare a una giustificazione razionale attraverso la crescita degli utili aziendali.

LE RAGIONI DI BREVE TERMINE

Poi alcuni “cigni neri” sono comparsi all’orizzonte :

– dapprima i timori d’inflazione (più volte rientrati),

– dopo è comparso lo spettro del protezionismo (anch’esso oramai di fatto fugato),

– infine lo scandalo del mancato rispetto dei dati personali da parte del più grande social network del mondo (purtroppo confermato) e i timori che possa presagire a una maggiore regolamentazione di tutta la sfera del business su internet.

 Tutti elementi che hanno condotto al ribasso le borse in generale e in particolare l’intero comparto dei titoli cosiddetti “tecnologici”, che sono ancor oggi quelli che esprimono i moltiplicatori di valore più elevati e pertanto sono più sensibili alle attese circa i profitti futuri.

Ma quanto i suddetti timori possono influire sulle quotazioni di lungo termine? La risposta è quasi ovvia: assai poco. Le vere ragioni per cui i mercati finanziari non brilleranno neanche nel prossimo futuro è da ricercarsi altrove.

LE RAGIONI DI LUNGO TERMINE

Agli analisti più attenti infatti le recenti vicende sono solo sembrate delle “occasioni” per scatenare vendite di titoli che forse sarebbero arrivate comunque. Da almeno un anno infatti quasi tutti i grandi gestori di portafogli indicavano  la volontà di assumere una posizione più prudente riguardo alle borse valori, ma sono spesso stati sopraffatti dagli ulteriori e importanti rialzi che queste hanno realizzato ancora in tutto il 2018 e sono talvolta dovuti correre ai ripari riacquistando ciò che avevano venduto.

I motivi di fondo della prudenza degli investitori erano molto più importanti :

– L’aspettativa di riduzione della grande liquidità in circolazione, dai più vista quale principale causa dei forti rialzi delle borse valori,

– L’attesa di passaggio alla maturità dell’attuale ciclo economico positivo americano, già durato straordinariamente più della media ma evidentemente non eterno, che comporterà una riduzione delle attese di profitto che oggi sono ancora molto alte,

– La dichiarata volontà delle banche centrali di avviare il rialzo dei tassi di interesse (qualcuna come la Federal Reserve Bank of America lo ha già fatto diverse volte, qualcun’altra come la Banca Centrale Europea lo ha solo ipotizzato per il prossimo anno), con le ovvie conseguenze che esso può portare in termini di attualizzazione dei rendimenti futuri.

Il grafico sotto riportato indica la strategia condivisa da molti di essi nel medio termine e, di conseguenza, la necessità di riuscire a monetizzare una quota importante del portafoglio azionario:

Il ragionamento degli investitori pertanto non fa una piega: se nel medio termine l’allocazione dei portafogli avrà un assetto più prudente, allora forse è meglio cominciare a vendere subito, prima che i prezzi scendano ulteriormente.

L’IMPORTANZA DELLA CURVA DEI TASSI DI INTERESSE

Ma la vera chiave di lettura dei mercati non riguarda le borse, bensì i titoli a reddito fisso, la cui dinamica esprime talune “singolarità” rispetto alla politica monetaria delle principali banche centrali (che prevede un rialzo generalizzato dei tassi):

– I rendimenti dei titoli a più lunga scadenza non crescono, anzi, scendono, dunque le loro quotazioni crescono, riflettendo una maggior domanda degli investitori più prudenti e, forse, l’aspettativa di una scarsa ricrescita dell’inflazione attesa;

– I tassi a breve invece crescono (principalmente nei paesi anglosassoni), indicando un appiattimento della “curva dei rendimenti” (il grafico dei rendimenti espressi dal mercato per ciascuna delle durate : dalla più breve alla più lunga). Normalmente l’inclinazione è positiva, dunque le durate più lunghe esprimono rendimenti più alti, in teoria grazie al maggior premio per la illiquidità dell’investimento.

Nei periodi nei quali il ciclo economico sta per invertirsi (segnalando una possibile recessione) spesso la differenza tra i rendimenti a lungo termine (tipicamente : a 10 anni) e quelli a breve termine (tipicamente : a 2 anni) si riduce molto, se non diviene addirittura negativa. Questo fenomeno si è dimostrato nel tempo come uno degli indicatori più affidabili dell’incombere di una possibile recessione (vedi il grafico storico 1977-2016 qui riportato):

Oggi -almeno in America- si è in effetti arrivati in zona di rischio, visto che oramai la differenza tra i tassi a breve e quelli a lungo termine è scesa sotto il mezzo punto (vedi grafico):

Ma se si guarda al grafico precedente si può chiaramente vedere che nessuna recessione recente è arrivata sino a quando l’inclinazione della curva è rimasta positiva.

Dal momento tuttavia che la disponibilità di credito e di capitali per gli investimenti risulta particolarmente importante per la salute dell’economia, la gestione dei tassi di interesse risulta cruciale per l’andamento del ciclo economico e questo è anche il motivo per il quale spesso le recessioni sono causate dagli errori di politica monetaria delle stesse banche centrali, molte delle quali hanno come unico obiettivo quello di mantenere basso (ma non negativo) il tasso di inflazione e tendono a rialzare i tassi quando temono che la dinamica positiva di consumi e salari possa surriscaldare l’economia e stimolare un aumento dei prezzi non controllato.

LA BOLLA DEI TITOLI “TECNOLOGICI”

Negli ultimi anni inoltre le banche centrali hanno toccato con mano i possibili danni che può provocare un crollo dei mercati finanziari, ragione per cui tendono a monitorarne da vicino l’andamento per evitare che si gonfino bolle speculative che poi esplodono recando danni all’economia reale. Questo è ad esempio il caso della Federal Reserve, che ha fino ad oggi pilotato abilmente la sua campagna di moderatissimi rialzi dei tassi di interesse proprio in questa direzione.

Ma le quotazioni raggiunte dal comparto “tecnologico” delle principali borse mondiali sono comunque andate oltre ogni ragionevole aspettativa, e non per niente oggi esse sono sotto feroce osservazione. Anche perché il peso che le capitalizzazioni di questi titoli ha acquistato di recente è cresciuto oltre misura sul totale dei principali listini di borsa.

Ecco un panorama dei moltiplicatori toccati dai principali di quei titoli intorno alla prima decade di Marzo:

E’ evidente che in molti di quei casi il mercato si è fatto prendere la mano, tanto da far sembrare titoli come Amazon neanche tra i più cari. Scandalo o meno, c’era da aspettarselo un ridimensionamento di moltiplicatori che in media andavano oltre le cento volte i profitti attesi!

Oggi, anche a causa della forte volatilità rilevata, alla conclusione del primo trimestre del 2018 gli indici delle principali borse mondiali sono (per la prima volta da molti trimestri) scesi al di sotto dei livelli raggiunti nel precedente trimestre (vedi grafico):

NON È’ COLPA DI FACEBOOK

Ma la colpa non è solo di Amazon e delle quotazioni stellari che hanno caratterizzato i titoli che esprimevano le maggiori aspettative di crescita. I recenti ribassi hanno radici nella strana ripresa economica che il mondo moderno sta vivendo.

Si prenda ad esempio la crisi delle vendite al dettaglio, dai più indicate quali vittime dell’insorgere del commercio elettronico. Ebbene, non è vero!

Le vendite online di Amazon, per esempio, nel mercato più sviluppato da quest’ultima (quello americano) contano solo per l’1,5%  del totale delle vendite al dettaglio USA (80 miliardi di dollari su un totale di circa 5.500 miliardi). Il totale del commercio elettronico oggi ammonta all’8,5% circa dei consumi al dettaglio, contro il 2% di dieci anni fa.

Le vendite di Apple in America ammontano a circa 100 miliardi di dollari, di cui due terzi sono relative agli Iphone, con una quota di mercato intorno al 44% dei 150 miliardi di dollari di vendite di telefonini, oltre ai quali ci sono le spese per accessori e servizi collegati (circa 200 miliardi di dollari in totale). Solo 10 anni fa quei 200 miliardi erano solo 10 miliardi di dollari.

Dunque i consumi americani si sono spostati verso i telefonini per circa 190 miliardi di dollari, superando il 3,5% dei consumi totali, cui si sommano altri circa 150 miliardi di dollari relativi agli abbonamenti dei telefonini e ai servizi di rete collegati (un altro 2,7% che porta il totale della spesa per cellulari in USA a circa il 6% dei consumi). Questi 350 miliardi di dollari sono ovviamente stati sottratti ad altri capitoli di spesa, quali l’abbigliamento e gli accessori.

Se prendiamo le spese per la salute e le cure mediche (circa 3300 miliardi di dollari, sebbene non siano catalogate insieme alle vendite al dettaglio), esse sono cresciute moltissimo e oggi ammontano al 60% delle vendite al dettaglio. E’ chiaro che hanno assorbito una parte importante del reddito degli americani e che questo ha contribuito a tenere basse le spese per consumi discrezionali (e quindi anche i livelli di prezzo di questi ultimi).

LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI INCREMENTA LA VOLATILITÀ

E’ chiaro che quanto visto fin qui significa che il mondo moderno (di cui l’America è più o meno sempre un precursore) sta cambiando e con esso la profittabilità dei settori economici.

Nella tabella che segue possiamo prendere nota di quali settori industriali hanno fatto le migliori e le peggiori performances fino ad oggi:

Ma ancora una volta le prospettive oggi cambiano, il rischio di una maggior regolamentazione del trattamento dei dati personali tende a ridimensionare pesantemente le quotazioni dei titoli legati a internet (Google, ad esempio) e ai social network in particolare, e di conseguenza anche gli investimenti dei grandi gestori di portafogli devono ruotare.

Ogni importante rotazione dei portafogli tuttavia porta con sè degli inevitabili scossoni e non riesce mai a svilupparsi nella più assoluta “souplesse” perché I gestori cercano di vendere sui rimbalzi.  La volatilità che i mercati sembrano aver stabilmente acquisito in questi mesi è figlia non soltanto della necessità di vendere titoli ma anche della rotazione verso settori più “difensivi”.

E qui il discorso torna al punto di partenza: se tutti cercano di riposizionarsi verso una maggior prudenza alla fine le aspettative si autorealizzano. Difficile attendersi mesi di mercato “toro” con queste premesse!

Stefano di Tommaso




GLI INVESTIMENTI INDUSTRIALI CRESCONO

Uno studio di Morgan Stanley rivela che la “crescita globale sincronizzata” riguarda anche gli investimenti, con buona pace dell’inflazione e qualche speranza per le borse.

Si è scritto più volte che le buone notizie per l’economia possono risultare cattive per i mercati finanziari ma più difficilmente si è giunti a sostenere anche il contrario: che le cattive notizie per questi ultimi possano risultare positive per l’economia reale. Ebbene, questa volta forse si può dimostrarlo: mentre le borse e i titoli a reddito fisso si teme possano prendersi qualche pausa di respiro a causa della crescita dei tassi di interesse (anche ulteriori rispetto a quelli che oggi auspicherebbero le banche centrali), c’è motivo di credere che la risalita dei rendimenti possa coincidere con un periodo di ripresa degli investimenti produttivi e che questo possa concorrere a determinare un deciso prolungamento dell’attuale super-ciclo economico, risultando dunque foriero di nuove buone notizie per l’industria.

In un recente articolo dell’autorevole colosso dell’informazione Bloomberg si cita infatti una ricerca di Morgan Stanley che rivela un nuovo picco (rispetto al massimo toccato nel 2011) degli investimenti produttivi. Lo ha dichiarato in un’intervista l’autorevole Chetan Ahya, co-head del dipartimento di “global economics” alla Morgan Stanley di Hong Kong.

Saremmo dunque di fronte all’estensione ai Paesi Emergenti non solo della “crescita sincronizzata” delle economie ma anche della “crescita sincronizzata” degli investimenti. Non ci sarebbe quindi solo una ripresa contestuale in buona parte del mondo dei consumi e dei salari che normalmente porta a far crescere parallelamente i prodotti interni lordi ma anche l’inflazione (la cosiddetta “Curva di Phillips”), ma anche e soprattutto un pari incremento degli investimenti produttivi, in molti casi trainati dalla vivacità della domanda di beni, con il salutare effetto disinflazionistico di ampliare l’offerta di beni e servizi.

Ad esempio la forte domanda di telefoni cellulari intelligenti ha determinato un’attesa di crescita degli investimenti produttivi nel settore dei semiconduttori dell’ordine di oltre il 30%. Secondo la medesima Bloomberg tra i principali operatori nella produzione di automobili le attese per un incremento degli investimenti nel prossimo anno sono ancora più marcati: dell’ordine del 21% per la Cina, del 23% per il Giappone e, addirittura, del 40% per l’Europa. Anche nelle telecomunicazioni esiste in tutto il mondo industrializzato un‘analoga aspettativa a causa dell‘ imminente avvento dei bandi per l’aggiudicazione delle nuove reti di telecomunicazioni cellulari di quinta generazione (il cosiddetto 5g) che in molti casi soppianteranno anche le telecomunicazioni via cavo.

Se l’andamento favorevole degli investimenti produttivi che ci si aspetta nell’elettronica e nel comparto automobilistico fosse riscontrato da ulteriori prove negli altri settori industriali saremmo al cospetto di un epilogo decisamente positivo della lunga campagna di facilitazioni monetarie che hanno portato negli ultimi anni ad una forte crescita della liquidità disponibile sui mercati finanziari ma che sino ad oggi non si era quasi riversata sull’economia reale e che stavolta invece starebbe finalmente indirizzandosi a finanziare gli investimenti pro-ciclici, così come era inizialmente stato ipotizzato dai loro ispiratori.

Se non ci fosse stato il Quantitative Easing insomma l’attuale esigenza di capitali per gli investimenti si sarebbe trasformata in un eccesso di domanda di capitali rispetto all’offerta e a un eccesso di domanda di credito, probabilmente surriscaldando il mercato finanziario e i suoi rendimenti attesi. La grande liquidità in circolazione invece potrebbe finalmente tornare utile proprio mentre le principali banche centrali del pianeta si stavano apprestando a ridurla per timore di fiammate inflazionistiche.

Il contesto economico generale risulta peraltro ampiamente positivo per le ulteriori crescite registrate nei Paesi Emergenti anche a causa della risalita dei prezzi delle principali materie prime e della contestuale debolezza del Dollaro americano, una combinazione favorevole ad attrarre capitali e investimenti anche nelle zone del mondo diverse dal sud-est asiatico dove la ripresa ha fatto sinora fatica a mostrarsi (ad esempio: Sud America).

Lo scenario di crescita sincronizzata anche degli investimenti, tutto ancora da confermare, aiuterebbe necessariamente la crescita dei tassi di interesse ma avrebbe al contempo molti positivi risvolti nei confronti dei timori di un ritorno dell’inflazione galoppante a causa del fatto che in generale gli investimenti tecnologici e distributivi hanno come effetto l’ampliamento dell’ ”output di produzione” come dicono gli economisti (e cioè della capacità produttiva) facendo crescere dunque l’offerta di beni e servizi e la produttività del lavoro. Ciò, come sopra accennato, potrebbe costituire il miglior epilogo possibile della lunga era di interventi delle banche centrali all’indomani della crisi finanziaria che si è sviluppata a partire dal 2008.

Lo scenario avrebbe peraltro un ulteriore effetto positivo sul gettito fiscale di tutte le economie coinvolte nella crescita sincronizzata, dal momento che i profitti aziendali si ipotizza che possano trarne ulteriori impulsi, con la speranza che ciò porti a una riduzione della proporzione tra debito e dimensione delle economie, che sino ha ieri ha guastato i sonni ai governanti e ai banchieri centrali di mezzo mondo (tra i quali quelli nostrani) ma avrebbe l’ulteriore effetto di promuovere anche gli investimenti infrastrutturali, una categoria di capitoli di spesa che necessita di decisi stimoli da parte degli stati nazionali e degli organismi sovranazionali, che per molti motivi ancora mancano all’appello di una vera e propria ripresa economica con i fiocchi !

Ci sono perciò al momento molti motivi di ottimismo per tenere d’occhio l’andamento dell’economia globale e l’incremento conseguente dei tassi di interesse reali, per una volta con effetti positivi per i salari, oltre che per la prosecuzione dello slancio dei profitti aziendali, tutti fattori che potrebbero controbilanciare positivamente la tendenza dei mercati finanziari a deprimersi contestualmente alla risalita del saggio di interesse al quale si scontano i redditi futuri.

Stefano di Tommaso




ORSI O TORI ? IN BORSA QUALCOSA E’ CAMBIATO

Un anno eccezionale. Questo è sicuramente stato il 2017 e potrebbe risultare anche il 2018. Da quando infatti la Gran Bretagna ha vota per la Brexit e Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America (in media un anno e mezzo fa) i mercati finanziari hanno regalato grandi e insperate soddisfazioni a investitori e risparmiatori e la crescita economica globale si è magicamente sincronizzata, registrando i migliori risultati da molti anni a questa parte. Parallelamente i grandi timori derivanti dalle tensioni geopolitiche e dalle minacce di conflitti nucleari si sono progressivamente sopiti, anche grazie al nuovo corso politico anglo-americano.

 

Ovviamente non tutti i meriti di questa meravigliosa performance vanno ascritti alla leadership politica! La rivalutazione delle borse e di tutti gli altri valori finanziari (ivi compresi i Bitcoin e le altre criptovalute) parte infatti da molto lontano, essenzialmente da subito dopo la grande crisi del 2008, con il varo del Quantitative Easing (QE: allentamento della politica monetaria) in Giappone e in America. E ancora nel 2017 le banche centrali hanno aggiunto oltre mille miliardi di liquidità a quella messa in circolazione dal 2009 in poi, superando nel totale i 15mila miliardi di dollari negli otto anni. Impossibile non tenerne conto quando si vuol comprendere le ragioni delle recenti performance delle borse.


Oggi però che le loro quotazioni sono arrivate davvero molto in alto e il QE sta per essere trasformato in “Quantitative Tightening” (QT: restrizione della politica monetaria) persino nelle aree del mondo dove è arrivato più di recente e dunque la liquidità in circolazione nel mondo sarà progressivamente ridotta. Inoltre con l’aspettativa di ripresa dell’inflazione in conseguenza della ripresa economica l’epoca dei tassi a zero sembra volgere definitivamente al termine e -poiché viene stimata una correlazione vicina al 90% tra gli andamenti delle varie “asset class”- la minor domanda di titoli non potrà non impattare anche nelle quotazioni degli stessi, provocando un loro ribasso e l’attesa di maggior rendimento.

UN CICLO ECONOMICO PROLUNGATO OLTRE OGNI ASPETTATIVA

Ma, per comprendere la strana situazione attuale dei mercati finanziari, occorre tenere presente che i ragionamenti sopra descritti sono validi da almeno un anno e mezzo, dato che già nel 2016 il ciclo economico espansivo era classificabile come uno dei più longevi della storia (e dunque era già allora ragionevole aspettarsi che arrivasse prima o poi una seppur lieve recessione). Ancora all’inizio del 2015 la Federal Reserve Bank of America aveva preannunciato il cosiddetto “tapering” (cioè una riduzione del programma di QE e conseguentemente la prospettiva di ridurre la liquidità immessa in passato, cosa che prelude al QT), sebbene altre banche centrali come quella Europea, avessero iniziato in ritardo con gli stimoli monetari e pertanto non avessero in programma di ridurli a breve.

È in queste nuove condizioni ambientali che nel 2016, mentre la Gran Bretagna votava il divorzio dall’Unione Europea e oltre oceano eleggevano il presidente americano più “populista” che la storia ricordi, sembrava ovvio a tutti che le borse si sarebbero ridimensionate e i titoli a reddito fisso di sarebbero svalutati, riflettendo la volontà delle banche centrali di far risalire i tassi di interesse per prevenire la ripresa dell’inflazione.

E invece no. Forti della straordinaria crescita dei profitti delle aziende quotate nelle borse e della preannunciata (e poi dopo un anno finalmente votata) riforma fiscale americana, i mercati finanziari hanno continuato a correre in avanti, raggiungendo vette stratosferiche e provocando negli investitori incertezza, ma anche al tempo stesso euforia, e la necessità di seguire il flusso dei listini assecondandolo, seppure con sempre maggior scetticismo. Forse è stato proprio questo diffuso scetticismo che ha impedito nell’ultimo anno e mezzo grandi fiammate delle borse ma anche grandi crolli, generando quei livelli minimi di volatilità dei mercati cui ci siamo abituati. Volatilità che da qualche tempo sembra invece risalita (vedi grafico).

LE RAGIONI DEL PESSIMISMO

Dunque sino ad oggi le economie di ogni area del mondo hanno continuato a crescere -anzi si sono sincronizzate tra di loro- senza quasi generare inflazione, provocando una decisa rimonta dei profitti aziendali e impedendo ai mercati finanziari di perdere fiducia in ulteriori accelerazioni economiche e incrementi dei profitti.

Ma evidentemente più i mercati progrediscono più a chi vi investe vengono le vertigini da altitudine. E al primo scricchiolio delle quotazioni tutti si chiedono se non sia arrivato l’inizio della fine.


Anche perché non si può non prendere atto del fatto che, nonostante l’inaspettato progredire della crescita economica globale ben oltre le durate fisiologiche dei cicli economici e nonostante la bassissima inflazione sino ad oggi registrata, il super ciclo economico volga inevitabilmente alla sua conclusione e il contesto generale tenda a una congiuntura meno favorevole per le attività finanziarie.

Tanto per citarne una, la variabile più banale che può aiutare la ripresa dell’inflazione (e dunque provocare interventi restrittivi delle banche centrali) è l’incremento dei salari, conseguenza quasi ovvia della ripresa economica. Esso fa crescere i consumi e, in assenza di forti correttivi (quali l’espansione del commercio elettronico e l’aumento della produttività del lavoro) fa lievitare anche i prezzi di beni e servizi.

Se vogliamo citarne un’altra eccola: l’aggressiva politica fiscale americana (che mi aspetto venga imitata quantomeno dal Regno Unito) può portare a un maggior debito pubblico da finanziare e alla necessità di collocare un maggior volume di titoli di stato, creando le premesse perché i rendimenti (cioè i tassi a lungo termine) crescano. E data la citata forte correlazione fra gli andamenti delle diverse “asset class”, se i corsi dei titoli a reddito fisso scendono, è probabile che anche quelli dei titoli azionari facciano lo stesso.

Tra l’altro sul mercato finanziario americano da tempo i rendimenti dei titoli obbligazionari hanno oramai superato quelli dei titoli azionari, rendendo ingiustificata la scelta di acquisire attività più rischiose se non ci si può attendere da queste ultime un miglior rendimento. Si veda in proposito il grafico che segue (che tuttavia si ferma al 31.12.2017 mentre oggi il Treasury Bond decennale è tornato al 2,85%):


Ma fino ad oggi altre variabili fondamentali hanno prevenuto un generale “sell-off” (svendita) delle azioni, nonostante le quotazioni stellari e la tentazione di realizzare i profitti accumulati. Quelle ragioni sono state il forte differenziale tra i loro fantastici rendimenti (anche a causa dei crescenti profitti aziendali) e quelli a zero dei titoli a reddito fisso e la grande liquidità in circolazione. Due fattori che, come abbiamo visto, in prospettiva dovrebbero venire meno.

È questo dunque il motivo per il quale ci si aspetta che prima o poi una correzione delle borse faccia breccia sull’eccesso di ottimismo dei mercati riportandoli a un maggior equilibrio e, sebbene sia difficile che essa si trasformi in un crollo generalizzato, bisogna ricordarsi che oltre i due terzi di tutti gli scambi in borsa sono provocati dai “trading systems”, cioè dalle transazioni computerizzate. Queste ultime potrebbero portare ad automatismi che rischiano di autoalimentarsi.

LE RAGIONI DELL’OTTIMISMO

Ma bisogna fare i conti con almeno un altro paio di fattori: la psicologia umana e l’espansione globale dell’economia (vale a dire: l’emersione verso gli standard occidentali dei numerosi paesi emergenti rimasti fino a ieri ai margini della vita civile).

Partiamo da quest’ultimo: la congiuntura favorevole di dollaro basso e materie prime in ripresa sta aiutando non poco gli investimenti infrastrutturali in quei paesi. Non dimentichiamo che appartengono a tale categoria buona parte delle nazioni del mondo e che persino larghe porzioni di popolazioni di Cina e India (la prima è la nuova superpotenza economica mondiale, la seconda si avvia ad esserlo) vivono sotto la ”soglia della povertà”, mentre molti paesi africani e una parte del resto dell’Asia restano a tutti gli effetti “in via di sviluppo” per usare un eufemismo caro ai burocrati delle organizzazioni sovranazionali.


Ebbene la crescita economica sta tirando soprattutto in quei luoghi, sebbene arrivino a beneficiarne anche e soprattutto i paesi più industrializzati che vi esportano macchinari, tecnologie, costruzioni e beni di consumo.

In assenza di nuovi conflitti bellici, di nuove sanzioni indiscriminate, di nuove svalutazioni selvagge, questo fenomeno è destinato a durare, e a portare benefici anche alle grandi corporation quotate alle principali borse mondiali, favorendo la crescita dei loro profitti, attesi per il 2018 in espansione del 12%, cioè tre volte la crescita economica globale.


Ma anche la psicologia può giocare un ruolo importante, sebbene più effimero: oggi i media di tutto il mondo continuano a celebrare una nuova era tecnologica digitale, l’espansione dell’e-commerce, la diffusione della conoscenza e delle scienze, il trionfo delle energie da fonti rinnovabili e in definitiva la maggior sostenibilità ambientale dello sviluppo industriale. Non hanno torto ma sicuramente hanno contribuito alla narrazione di un mondo migliore che sta favoriscegli investimenti e, con essi, la vera crescita economica. Le aspettative -si sa- giocano comunque un ruolo fondamentale in economia. Anche questo fattore porta a pensare che le borse non crolleranno d’un tratto, che l’attuale sistema economico non imploderà tanto facilmente e che l’istinto irrefrenabile degli economisti di ogni epoca di predicare prossimi disastri questa volta non avrà la meglio.

CONCLUSIONI

Difficile perciò che la crisi del 2008 possa ripetersi nel 2018, soprattutto sintantoché il mondo intero continuerà ad arricchirsi. Ma l’investitore medio qualche pausa di riflessione potrebbe anche prendersela, a maggior ragione sintantoché non arriveranno maggiori conferme alle rosee aspettative che supportano le attuali quotazioni stellari.

Stefano di Tommaso




USIAMO AMAZON COME “TERMOMETRO” DELLA FEBBRE DELLE BORSE

Difficile fare previsioni in termini di rendimento dei mercati borsistici quando i momenti sono come quello che stiamo vivendo ! Da un lato le principali aziende quotate a Wall Street sono valutate sempre più esageratamente dagli acquirenti delle loro azioni, dall’altro lato ci sono validi motivi per ritenere che le migliori tra le medesime continueranno a migliorare le loro già ottime performances. E poi oramai da tempo ai medesimi acquirenti non restano grandi alternative per allocare i loro risparmi. Proviamo perciò a misurare la “febbre” del mercato cercando di esplorare il valore intrinseco di Amazon, il titolo più brillante e più controverso di tutte le blue chips, quantomeno per l’abnorme multiplo di valore che la caratterizza (331 volte gli utili prospettici).

 

IL FATTURATO AMAZON CRESCE QUANTO LE BORSE

Nonostante sia diventato un colosso globale Amazon è da considerarsi ancora un’azienda in decisa espansione sui mercati asiatici, quelli che più trainano la crescita economica mondiale. In India per esempio il 2017 lo ha chiuso con un +105%. Nel mondo, in parte a causa dell’esplosione dell’e-commerce, in parte per un’ottima focalizzazione aziendale sulla crescita, Amazon riesce da oltre 10 anni a progredire in termini di ricavi e margini a un ritmo superiore al 20% composto annuo.

Questa focalizzazione sulla crescita dimensionale le ha permesso di ottenere la leadership globale di uno dei settori che stanno cambiando il mondo: quello dell’e-commerce, ma per riuscirvi Amazon ha pagato ovviamente un prezzo. Negli stessi anni ha prodotto ben pochi profitti e nessun dividendo.

Volendo perciò ragionare in termini di valore intrinseco dell’azienda possiamo provare a ipotizzare due scenari (positivi): il primo e più realistico è che per i prossimi anni essa continui a crescere in modo lineare anche nei prossimi 5 anni. Un orizzonte ragionevole potrebbe essere 5 anni. Ma in tal caso il fatturato crescerebbe a poco più del doppio.

Il secondo, meno realistico anche per la concorrenza che le si sta sviluppando attorno, è che possa crescere ad un ritmo simile a quello precedente (+21%) e cioè in modo esponenziale e contemporaneamente riesca anche a incrementare i margini (che storicamente si situano allo 0,5% del fatturato) più che proporzionalmente alla crescita (già ottimistica) del fatturato.

I MULTIPLI PERÒ SONO DA CAPOGIRO

Amazon infatti fattura già oggi 161 miliardi di dollari e -con la prosecuzione della crescita al 21% composto annuo- nel 2022 arriverebbe a oltre 410 miliardi. Se proporzionali i profitti crescerebbero dunque a oltre 20 miliardi ( cioè arriverebbero a 26 dollari per azione) ma, nonostante questo possa sembrare un ottimo risultato, non basterebbe di sicuro a giustificare il prezzo attuale di oltre 1300 dollari, cioè oltre 50 volte quegli utili.

Se i diretti concorrenti di Amazon quotano in media 21 volte gli utili il maggior multiplo di Amazon (331 volte) è invece è giustificato oggi in conseguenza di attese di crescita di quest’ultima più che proporzionali.

Attendersi però che ancora tra 5 anni il suo multiplo possa restare a più di 50 volte gli utili è oggettivamente ardito: sarebbe infatti circa il doppio del multiplo medio di mercato (26 volte).

QUANTO VARRÀ TRA 5 ANNI?

Resta ovviamente la possibilità (non così assurda) che i margini di Amazon arrivino anch’essi a raddoppiare, portandosi a circa l’1% del fatturato riportando i multipli prospettici del 2022 al magico numero di 26 volte ed è esattamente ciò che scommette oggi il mercato nell’attribuire a questa regina della borsa il favoloso multiplo di 331 volte gli utili del 2018.

E comunque ricordiamoci che valutare un titolo 26 volte gli utili significa attribuirgli un misero rendimento implicito del 4%.

Forse è proprio qui tutta la magìa del momento che la borsa americana (e con essa tutte le altre di riflesso) sta vivendo: se parliamo delle aziende “regine del mercato” da un lato le loro quotazioni, per quanto ottimistiche, possono non risultare così fantasiose, dall’altro lato le medesime, per quanto possano risultare realistiche (in una prospettiva di forte crescita dell’economia mondiale), sono sicuramente anche animate da fortissimo ottimismo.

Se è vero che gli indici delle Borse valori sono pesantemente influenzati dall’andamento delle blue chips (che “pesano” per buona parte del listino) è altrettanto vero che le altre aziende quotate quasi per certo non raggiungeranno nemmeno una piccola frazione di tali mirabolanti performances. Dunque c’è ragione di attendersi che il mercato incrementi nel tempo la propria selettività. E poi non possiamo escludere che qualcosa possa sempre andare storto, riducendo le aspettative di crescita degli utili e minacciando la tenuta Delle borse.

ASPETTATIVE ESTREMAMENTE OTTIMISTICHE MA RAZIONALI

La morale potrebbe dunque essere quella di dover constatare attraverso il “termometro” prescelto un eccesso di ottimismo per i listini globali, unitamente all’aspettativa generalizzata di maggior selettività degli investimenti.

Ma rimane il fatto che un 4% di rendimento implicito di lungo periodo è pur sempre un risultato che nessun investitore riesce a reperire sul mercato alternativo: quello del reddito fisso (al netto di eventuali perdite in conto capitale al rialzo dei tassi).

Se da qualche parte i quattrini dei risparmiatori devono pur finire, ecco che -nonostante i livelli stratosferici- la Borsa riesce a svolgere meglio di tanti altri mercati la funzione di indicatore dello stato di salute dell’economia reale. E, come se ne può dedurre, il titolo di Amazon conferma di essere un ottimo termometro della sua febbre da risultato.

Stefano di Tommaso