IL SEGRETO DEL SICURO SUCCESSO DELL’IPHONE X

Non c’è bisogno di consultare i testi sacri della microeconomia e del marketing per rendersi conto del concetto di “consumo cospicuo” (ovvero quel genere di spesa che si fa più per mettersi in mostra che per una reale utilità) eppure noi uomini razionali continuiamo a stupirci nell’osservare il fenomeno in natura: più il prezzo sale piu l’appetibilità cresce!

 

Apple ha giocato anche questa volta una partita decisamente rischiosa innalzando ancora il prezzo del suo prodotto di punta: il telefonino del decimo anniversario (da cui prende il nome: X in numeri degli antichi romani è un 10, concetto ovvio per l’americano medio, meno per noi che ne saremmo I discendenti) perchè la concorrenza asiatica è decisamente agguerrita quanto a prezzi e prestazioni, eppure sembra averla vinta ancora una volta, a giudicare da numeri e fatti delle ultime ore! Non per niente il titolo azionario ha raggiunto in borsa una nuova vetta nella capitalizzazione, battendo tutti I records e tutti I concorrenti!

Nell’interpretare correttamente l’arena competitiva in cui si trova, Apple ha scelto di giocare la carta della sua superiorità tecnologica per poggiarla su una piattaforma di “lusso percepito” che non ha eguali: è evidente che chi può permettersi un telefonino così avanzato esprime indirettamente uno status symbol. E gli status symbols, si sa, non hanno prezzo.

LA NASCITA DEL MITO

Una serie di fattori incidono sulla “creazione del mito”: l’attesa spasmodica (è arrivato mesi dopo la sua presentazione), il prezzo elevato, le nuove funzionalità (seppur relativamente poco essenziali), l’inconfondibilità e persino un pizzico di eccentricità. Se aggiungiamo che a farlo è una delle aziende che più ha giocato la carta dell’affezione al brand da parte dei suoi clienti, ecco che la ricetta è completa: un nuovo mito è nato! E poi, anche questo si sa, se il suo prezzo è elevato la gente tende ad attribuire all’oggetto maggior valore, generando un processo opposto a quello teorizzato dalla microeconomia che ipotizza (sbagliandosi) l’esistenza dell’ “homo oeconomicus” (che si presume razionale) : più il suo prezzo sale più sale il suo desiderio.

Io personalmente non credo che lo acquisterò mai, perché sono più interessato ad altri aspetti di strumenti come il telefonino quali ad esempio l’ampiezza dello schermo (ne esistono anche da 6 pollici e mezzo) o la durata della batteria, ma devo ammettere che la ricetta del nuovo cavallo di battaglia è oggettivamente vincente ed è inoltre profondamente coerente con la filosofia Apple da un decennio a questa parte: la perfezione dell’oggetto, la sua esclusività, un prezzo decisamente superiore alla media, l’innovazione.

L’IMPORTANZA DELLO SMARTPHONE

Viviamo inoltre in un mondo estremamente interconnesso nel quale il telefonino è divenuto un oggetto essenziale della nostra vita quotidiana, molto più di quanto potesse già esserlo pochi anni fa. Oggi le funzionalità di messaggistica, di collegamento ai numerosi social network, di partecipazione alle chat e soprattutto alle “communities” come quella di Waze per gli automobilisti, sono divenute una componente essenziale della nostra vita, per non parlare delle mail: se dopo qualche minuto che ce ne hanno inviata una non rispondiamo prontamente siamo arrivati all’assurdo di avere buone probabilità di lasciare offeso qualche nostro amico o collega!


È probabilmente un’esagerazione ma è anche la dura verità: noi di quel piccolo computer palmare che, tra le altre cose, effettua anche telefonate, non possiamo più fare letteralmente a meno, nemmeno quando ci rechiamo alla toilette! E dunque esso è parte della nostra vita, della nostra immagine, dell’idea che proiettiamo di noi. Penso anzi che per un motivo molto simile tanta gente abbia scelto di indossare uno smartwatch: per sottolineare l’aspetto più moderno della propria persona. E se lo smartphone è diventato parte della nostra vita, allora cosa vuoi che siano 1000 (o più) Euro ? E’ una spesa che ammortizziamo molte molte volte al giorno per 365 giorni del nostro anno.

APPLE FA BENE A FARLO PAGARE CARO

Morale: Apple fa bene a farci pagare caro quel nostro voler apparire aggiornati, tecnologici e interconnessi! E se il telefono incorpora qualche importante innovazione come il “riconoscimento facciale” ecco allora che ne vale anche la pena o quantomeno troviamo una giustificazione para-razionale alla spesa. Ma la verità è che anche per questo Iphone (come per i suoi predecessori) la maggior parte della gente non saprà nemmeno come utilizzarne le funzioni avanzate. Si limiterà a metterlo in mostra. In fondo è un oggetto unico e ancora piuttosto raro. Giusto, no?

Stefano di Tommaso




LE BORSE DIVENTERANNO PIÙ SELETTIVE SULLA BASE DEI PROFITTI INDUSTRIALI

Il dibattito sulle iper valutazioni delle imprese, che emana dallo struggimento degli operatori delle borse valori alle prese con il più enigmatico di tutti i lunghi cicli borsistici di rialzo degli ultimi decenni, si concentra oggi sulla possibilità che, nonostante i corsi azionari abbiano superato di slancio tutti i massimi storici precedenti, in realtà i profitti delle imprese possano in futuro risultare in grado di correre ancora più in alto, giustificando dunque nel tempo ciò che oggi sembra eccessivo.

Da tempo chi scrive sostiene un’ardua tesi:gli investitori sono da troppo tempo alla ricerca di valide alternative alle scelte di asset allocation praticate sino ad oggi perché i corsi azionari attuali arrivino a sgonfiarsi in un baleno. Sebbene sinora i fatti sembrano aver dato ragione a questo assunto, se vogliamo evitare di cadere nel ridicolo con affermazioni fideistiche non possiamo che cercare delle risposte a una domanda di fondo: quali e quante imprese stanno effettivamente moltiplicando la loro redditività? Non tutte evidentemente!

Ovviamente non si può prescindere dai presupposti fondamentali che stanno pilotando da oramai otto anni la corsa al rialzo dei valori mobiliari:

  • i tassi straordinariamente bassi ma contemporaneamente la bassissima inflazione rilevata,
  • la grande liquidità disponibile sui mercati che è seguìta alle politiche monetarie espansive,
  • la “congestione dei risparmi” di un’intera generazione di “baby boomers” che si approssima alla pensione e che riversa sui mercati una domanda eccessiva di carta finanziaria,
  • l’ampiezza delle oscillazioni negative precedenti,
  • la grande ripresa economica globale in corso,
  • l’aspettativa che i profitti delle imprese continuino a moltiplicarsi.

Sebbene l’argomento dei profitti aziendali non sia l’unico a tenere alte le quotazioni borsistiche, forse esso dal punto di vista microeconomico merita qualche ulteriore approfondimento perché il dibattito in questione ha effettivamente preso corpo a seguito di un’impennata degli utili delle grandi corporation quotate a Wall Street e tutti si chiedono se, conseguentemente, c’è da attendersi la stessa impennata anche per le altre imprese nel mondo, fino alle più piccole e alle meno globalizzate (ad esempio le PMI dei paesi emergenti) e, a maggior ragione, fino a quelle meno tecnologiche.

LE SUPER VALUTAZIONI DELLE AZIENDE TECNOLOGICHE

La corsa della tecnologia sembra infatti avere molto a che vedere con le iper valutazioni espresse da Wall Street: sono soprattutto i grandi colossi tecnologici e i dominatori di internet quelli che hanno pesantemente alzato la media delle valutazioni. Le quotazioni borsistiche di questi ultimi viaggiano a multipli di prezzo che superano le duecento volte gli utili. La famosa media del pollo di Trilussa è sempre in agguato dunque è ciò che può giustificarsi nel caso di quei colossi globali potrebbe non essere valido per le imprese periferiche e meno tecnologiche.

I mercati finanziari infatti, se nei prossimi giorni non esprimeranno addirittura una più o meno pesante correzione, quantomeno è probabile che proveranno a ragionare sull’ennesima “rotazione” dei portafogli azionari, allo scopo di selezionare meglio le proprie scelte e, auspicabilmente, di provare a diversificare il più possibile i rischi sistemici del possedere assset finanziari che sembrano a tutti troppo “cari”.

Ma ricordiamoci che sono molti molti mesi che i grandi investitori (e sinanco i banchieri centrali) ci ripetono la stessa solfa: l’eccesso di ottimismo che si registra nelle borse porterà presto ad una loro discesa e, dal momento che quel “presto” non arriva mai, da queste colonne nei mesi scorsi abbiamo più volte ironizzato sul tema con analogie letterarie come “Aspettando Godot” o “Il Deserto dei Tartari”! Il punto è che nessun ciclo borsistico può durare in eterno e nessun gestore di portafogli di investimento può permettersi di non chiedersi cosa succederà dopo che quello attuale si sarà esaurito.

Al riguardo c’è chi afferma con certezza che chi investe a questi livelli otterrà scarsi risultati in futuro, chi esprime una fede indiscriminata verso la crescita economica globale che supporta le valutazioni estreme dei mercati, e chi continua a scavare sul fronte della giustificazione razionale delle valutazioni elevate, per trovare non solo risposte al quesito fondamentale sopra descritto (cosa succederà “dopo”) ma anche per riuscire individuare nuove strategie di investimento o nuove ragioni per “ruotare” ancora una volta i portafogli titoli.

I SETTORI PIÙ INTERESSANTI E QUELLI MENO

Scendiamo perciò nel dettaglio dei principali settori economici:

1. Le maggiori imprese supertecnologiche (come Tesla, ad esempio) scontano nelle loro valutazioni la capacità di raggiungere risultati clamorosi in grado di ridefinire il mercato della mobilità personale e quello degli accumulatori di energia di nuova generazione. Quanto tale fiducia sia ben riposta è difficile dirlo, ma resta l’ineluttabilità del fatto che qelle imprese sembrano destinati a cambiare più radicalmente e più velocemente del previsto i loro mercati di sbocco. Casomai i dubbi degli investitori riguardano la presunzione di relativa inerzia dei produttori tradizionali di autoveicoli e sistemi di energia (tutte da dimostrare) e la presunzione di forte capacità organizzativa e industriale da parte di imprese come quella del tetragono Elon Musk di riuscire a realizzare le quantità richieste dal mercato nei tempi annunciati. Qualora le risposte a tali dubbi siano positive, quanto spazio di mercato resterebbe allora alle altre imprese che si sono buttate all’inseguimento dei leader globali? La mia personale convinzione è che non tutti gli operatori super tecnologici riusciranno infatti a tramutare le loro mirabolanti innovazioni in forti profitti e, in un mondo sempre più globalizzato, i leader mondiali di mercato sono dunque quelli più probabilmente in grado di riuscire a raccogliere i maggiori frutti della loro “brand awareness”. Perciò quanto sopra può valere tranquillamente anche per Amazon, per Google, Apple e Tencent e può dunque fornire un deciso supporto razionale alle astronomiche valutazioni di borsa che essi esprimono;

2. Le imprese invece che fondano sì i loro punti di forza sulla rete internet, ma scommettono soprattutto sulla loro capacità di moltiplicare la clientela e i profitti grazie alla mera digitalizzazione e al business che ne consegue di sostituzione delle attività tradizionali (ad esempio gli operatori dell’entertainment come Netflix quali valide alternative a quelli come Sky di Rupert Murdoch), secondo la mia umile opinione rischiano grosso: non è così scontato che i loro predecessori non saranno in grado di rinnovarsi velocemente!

3. Lo stesso può valere per i nuovi colossi del commercio elettronico come Alibaba e Zalando, che rischiano di incontrare decisi ostacoli nel loro processo di cambiamento delle abitudini della gente al riguardo della distribuzione commerciale perché l’umanità è molto conservativa se il possibile rinnovamento delle abitudini della gente non porta anche dei radicali miglioramenti nella vita quotidiana. In molti casi perciò è ragionevole porre qualche dubbio su talune mirabolanti valutazioni di titoli come Netflix laddove esse non siano congiunte a vantaggi radicali nella vita di tutti i giorni.

4. Un ragionamento invece a favore delle supervalutazioni che oggi il mercato esprime può riguardare i leaders globali nei mercati del lusso e del lifestyle, come ad esempio Ferrari o LVMH, che storicamente si sono sempre mostrati in grado di saper raccogliere la sfida del rinnovamento ma che poggiano le loro pretese di mercato su una loro potentissima “brand awareness”. Per essi l’avanzata delle economie emergenti e lo sviluppo demografico e sociale dell’umanità sono fonte probabile di ulteriori soddisfazioni rispetto ai rispettivi “follower” di mercato e per quanto pazzi possano risultare i prezzi da essi praticati, è possibile che i loro ampi margini restino sostenibili.

5. Al contrario per molte delle grandi imprese che oggi risultano leader nei settori B2B (business to business) ci sono seri dubbi circa la sostenibilità di elevate valutazioni di mercato perché ogni minima novità di mercato potrebbe propagarsi, negli ambiti professionali, alla velocità della luce.

6. Ciò può valere per le compagnie aeree, per colossi informatici come la IBM, per i giganti dell’industria di base come Thyssen o General Electric, o sinanco per i grandi (e innovativi) produttori di sistemi informatici come SAP o Oracle e persino come i grandi produttori di beni di largo consumo come Hewlett-Packard o Samsung la cui offerta commerciale non risulti tuttavia “iconica”, a prescindere da quanto capaci siano di cavalcare le innovazioni. In molti di quei settori la concorrenza dei nuovi astri nascenti provenienti dal sud est asiatico o la possibilità che nuove proposte a valore aggiunto provengano da soggetti completamente nuovi rischia di porre dei limiti alla corsa nel tempo dei loro profitti.

I CRITERI DI SELEZIONE DEI SETTORI INDUSTRIALI

La vera discriminante nell’analisi delle effettive capacità di moltiplicazione dei profitti prospettici non sembra perciò l’eccesso di valutazioni ai prezzi attuali delle maggiori imprese quotate, quanto la loro capacità di mantenere la testa della competizione nel loro settore industriale con i margini economici che ne conseguono (vedi Apple), la loro capacità di esprimere un’effettiva brand awareness globale, e soprattutto la possibilità che la loro capacità di fare business in maniera del tutto nuova possa riuscire ad estendersi a sempre nuove categorie di prodotto (vedi Amazon) mentre al contempo su quelle meglio presidiate vengono lentamente alzate barriere all’entrata dei nuovi competitors.

Al contrario in buona parte dei settori industriali rivolti al B2B e in quelli meno protetti da nicchie di mercato e situazioni fortemente localizzate nemmeno le imprese maggiori potranno mantenere il passo con le attuali valutazioni e la possibile avanzata della de-regolamentazione globale potrebbe mettere in discussione molte aziende leader industriali dei nostri giorni. Le stesse argomentazioni non lasciano purtroppo molto spazio alle supervalutazioni che le borse praticano di molte imprese troppo localizzate o troppo piccole, che dovranno affrontare difficoltà ulteriori nel reperire le risorse per la crescita dei propri profitti. Temo anzi che i fattori di sconto nei prezzi di tali imprese dovranno accrescersi.

I veri rischi degli investitori perciò non risiedono nell’ampiezza dei moltiplicatori di prezzo pagati oggi in borsa, bensì nella rispondenza di tali valutazioni alla loro capacità propulsiva a livello globale e nel cavalcare le grandi ondate di modificazione delle abitudini della gente.

Se queste considerazioni significano che in media i valori azionari sino ad oggi espressi dalle borse potranno proseguire la loro corsa o dovranno necessariamente ridursi in futuro, è materia che qui lasciamo alle personali valutazioni di ciascun lettore. È mia personale convinzione che in assenza di forti scossoni geopolitici o relativi a grandi catastrofi invece i mercati finanziari possano proseguire la loro navigazione relativamente indisturbati, ma che saranno necessariamente costretti a proseguire nel processo di selezione dei migliori asset, così come potranno beneficiare ancora a lungo della relativa calma che regna sui titoli a reddito fisso.

I fattori fondamentali all’opera oggi per tenere bassi i tassi di interesse è possibile che non verranno rimossi nel prossimo futuro. Per prevedere quello più remoto invece ci stiamo ancora attrezzando…

Stefano di Tommaso

 




ECCO DA QUALE SETTORE PROVERRÀ UNA PARTE CONSISTENTE DELLA CRESCITA ECONOMICA GLOBALE

(da una ricerca dell’Economist di Venerdì 18 Agosto)

Quasi non ci accorgiamo del cambiamento ma ogni giorno che passa consumiamo -direttamente o indirettamente- qualche frazione infinitesimale di carburanti in meno e utilizziamo un po’ di più i sistemi elettrici per spostarci, illuminare, effettuare lavori, riscaldarci o raffrescarci e molti di questi sistemi elettrici/elettronici non potrebbero funzionare senza le batterie di ultima generazione (quelle al litio e simili).
 

I sistemi di accumulo risultano fondamentali inoltre anche per il recupero di energia e dunque per la sua economizzazione. L’esempio più evidente ai nostri occhi sono le auto ibride-elettriche ma in realtà il fenomeno è molto più pervasivo e riguarda anche tutti gli altri sistemi di propulsione e movimentazione, le abitazioni, le fabbriche, e persino l’agricoltura. Ma siamo solo agli inizi di una nuova rivoluzione tecnologica che ci migliora la vita.

La maggior parte delle persone che oggi acquista (a caro prezzo) un’automobile Tesla oppure (a più buon mercato) una Nissan Leaf non lo fa per aiutare l’ambiente, bensì per i vantaggi di confort, prestazioni e innovatività che esse esprimono. Eppure, nonostante ancora oggi i produttori di auto elettriche perdono denaro (o ne guadagnano pochissimo) a costruirle, un recente studio dell’Economist, indica la previsione di una crescita esponenziale per la produzione di auto elettriche nei prossimi vent’anni.


Ma l’industria delle batterie non si muove solo per le automobili. Il primo utilizzo massiccio al di fuori del settore auto sarà quello dell’autonomia energetica delle abitazioni, che in questo modo potranno trovare conveniente l’utilizzo dei pannelli solari.

Altri fronti di forte innovazione nelle batterie, oltre a quello di migliorare la loro capacità, riguardano il numero di volte possibili di carico e scarico dell’elettricità immagazzinata nonché la sua velocità: più saranno elevati e più le batterie rassomiglieranno a dei supercapacitori e potranno perciò essere utilizzate meglio e più economicamente, dunque anche in altri settori. Ma soprattutto è il loro costo di produzione che si prevede possa crollare letteralmente nei prossimi anni, tanto per le fatidiche economie di scala delle nuove mega-fabbriche quanto per l’avanzare della ricerca tecnologica.

Ma ci sono almeno due fattori di incertezza nelle previsioni di un drastico calo dei costi di accumulo di energia:

– il costo futuro del litio e degli altri metalli pregiati utilizzati nella produzione di sistemi di accumulo, che sino ad oggi in media è sceso anch’esso grazie alle economie di scala di estrazione, ma che in futuro potrebbe riservare delle sorprese, come è accaduto ad esempio per il Cobalto o il Nichel. Si narra che siano in Cina e in Corea del Nord i territori più ricchi al mondo di giacimenti di metalli e terre rare utilizzati per la produzione di batterie e questo potrebbe aiutare a spiegare parte dei sommovimenti geo-politici in corso.

– Il rischio che il perseguire economie di scala da parte di tutti i grandi produttori di batterie possa generare enorme sovracapacità industriale rispetto all’assorbimento da parte del mercato di sbocco. Il fenomeno è già in atto e potrebbe creare molto scompiglio se dovesse degenerare.

Viceversa potrebbe risultare sempre più profittevole recuperare materie prime pregiate dal riciclo di batterie e altri materiali esausti mentre si prevede un vero e proprio boom nell’utilizzo delle nanotecnologie per la fabbricazione dei catodi (uno dei due componenti tecnologici fondamentali di ogni sistema di accumulo di energia, insieme agli elettroliti).

Come dicevamo più sopra tuttavia una parte rilevante che si prevede possa svilupparsi sono i grandi sistemi di accumulo stazionari, utilizzati come riserva di capacità elettrica delle reti di distribuzione per i momenti di picco, come pure per ottimizzare l’utilizzo di energie generate da fonti rinnovabili (sole e vento innanzitutto).

Tesla ha anticipato tutti con la proposta commerciale al grande pubblico della sua “Powerwall” da piazzare in garage, ma molti altri produttori come Nissan, ad esempio, stanno attrezzandosi a fare anche di meglio. Il mercato della sostituzione dei generatori di emergenza (tipicamente diesel, di piccola e media taglia ed estremamente rumorosi) è molto ampio nel mondo ma sino ad oggi sono risultati più cari e più complessi da manutenere.

La doppia prospettiva di riduzione dei costi dei componenti e di maggior diffusione della normativa in materia di emissioni inquinanti potrebbe cambiare decisamente lo scenario e aprire nuove possibilità alla tecnologia che vi sottende. I sistemi di “storage” più grandi (dal megawatt in su) utilizzano infatti anche diversi materiali per l’accumulo e molta più intelligenza elettronica per ottimizzare la propria resa nonché la durevolezza. Il loro utilizzo peraltro si estende quantomeno alla capacità di assicurare continuità all’elettricità fornita, eliminando o riducendo fortemente in un prossimo futuro i rischi di black-out e anche quelli di rottura dei sistemi elettronici cui sono collegati.

Esiste un mondo dorato di applicazioni “premium price” (cioè più o meno indifferenti alle tematiche di costo intrinseco) nella ricerca di sistemi mobili per l’accumulo dell’energia che a sua volta costituisce un mercato molto appetitoso (ad esempio per le applicazioni militari e aerospaziali) sino ad oggi quasi nemmeno sfiorato dalla grande industria, dove probabilmente sarà la capacità di ottimizzare le prestazioni e quella di miniaturizzazione dei componenti a farla da padrona. E come si può ben immaginare i sistemi di controllo e gestione intelligente saranno in questi campi più interconnessi che mai con il successo di queste applicazioni.

La riflessione finale riguarda perciò lo sviluppo economico che può derivare dai sistemi di accumulo di energia, che come si può ben intuire dalle poche considerazioni riportate è molto ampio, e le frontiere dello sviluppo tecnologico ad essi connesso ancora di più. Dunque più ancora che dalla digitalizzazione e dallo sviluppo dei futuri sistemi di intelligenza artificiale i valori in gioco nel campo della gestione energetica nei prossimi tre decenni sono immensi e le opportunità di business sono ancora a portata di mano di chiunque!

Stefano di Tommaso




GEOPOLITICA E INDUSTRIA DELL’AUTO

Le innovazioni nella filiera dell’industria automobilistica corrono sul filo delle politiche ambientali, degli interessi strategici dell’industria nazionale e delle infrastrutture cui i consumi si appoggiano. Il risultato è parallelo a quello delle sfere di influenza strategica delle maggiori economie del mondo, l’affermazione delle industrie USA e Cina innanzitutto.

 

Fino a un anno fa sembrava che i mega-investimenti annunciati da Google e Apple per la realizzazione di veicoli elettrici e automatici avrebbero ridefinito gli equilibri nell’industria automobilistica e orientato ogni altra mossa nel mercato. I giganti di internet pianificavano di spendere decine di miliardi di dollari per entrare da vincitori in un mercato stagnante e adagiato su parametri e abitudini oramai completamente desueti, dal momento che le emissioni dannose dei motori termici (i diesel in particolare) dovranno essere gradualmente abolite, non soltanto per gli effetti sulla salute, bensì anche e soprattutto per i noti problemi climatici.

Oggi invece il mercato dell’auto, tanto per decisioni governative, quanto per esigenze derivanti dalle preferenze dei mercati di sbocco, sta ugualmente virando decisamente verso soluzioni motoristiche ibride o completamente elettriche, ma nessuno dei giganti americani di internet che sembrava sarebbero entrati a pie’ pari sul mercato sbaragliando gli “incumbents” ha invece mosso passi decisivi.

Le ragioni per le quali Apple e Google non lo hanno ancora fatto sono probabilmente molteplici, ma in ogni caso la loro sfida sarebbe stata di quelle più rischiose perché, in attesa di possibili (ma improbabili) colpi di scena, chi ha mostrato di volersi muovere maggiormente sono stati i grandi produttori di auto tradizionali e quelli dei paesi asiatici. I primi per difendere un ricco oligopolio, i secondi perché i loro paesi sono assillati più di altri dalle problematiche ambientali

In avanscoperta si è mossa ad esempio la Cina, con la Volvo (divenuta di proprietà cinese) e con la BAIC (un colosso con oltre 16mila dipendenti): la prima ha annunciato che dal 2019 ogni nuovo veicolo sarà elettrico, mentre la seconda ha annunciato la creazione di uno stabilimento in joint venture con Mercedes-Benz dove investiranno insieme 750 milioni di dollari.

Mercedes ha anche annunciato, in occasione del G20, di aver appena investito in Cina oltre un miliardo di euro nella produzione di batterie al litio. L’investimento non è un caso che sia localizzato in Cina, dove più sono reperibili metalli, minerali e terre rare necessari per la produzione di batterie e motori elettrici.

I DUE POLI DI ATTRAZIONE: CINA E U.S.A.


A livello territoriale chi pare avere più chances di successo nella conversione dell’industria dell’auto verso la trazione elettrica non sono però i paesi europei, che pure vantano i più importanti gruppi industriali del settore, bensì due poli industriali agli estremi opposti del mercato:
•da un lato gli Stati Uniti, sede della Tesla e della sua “Gigafactory” per la produzione di batterie al litio. L’America è anche il paese dove più sono state sviluppate avanzate tecnologie di intelligenza artificiale per la guida autonoma dei veicoli, per i nuovi sistemi di controllo della trazione, di gestione dell’energia erogata (finalizzati alla riduzione estrema dei consumi) e dove si toccano nuove vette nella progettazione di nuove tipologie di veicoli e di sistemi di controllo. Gli Usa contano di avere un ruolo principale non tanto nella fabbricazione di veicoli bensì soprattutto nella produzione di loro componenti e sistemi, non solo perché quel ruolo in realtà lo hanno sempre avuto, ma anche per merito dei poli di ricerca e sviluppo delle tecnologie che li contraddistinguono;
•dall’altro lato la Cina, un paese che ha tutta una serie di vantaggi a promuovere tanto l’assemblaggio locale di autoveicoli prodotti da terzi quanto la crescita delle fabbriche nazionali di auto elettriche low-cost (con tutto l’indotto tecnologico che queste possono generare), nonché l’investimento in nuove infrastrutture per la ricarica dei veicoli, la produzione delle batterie a partire dal quasi-monopolio di terre e minerali rari che le appartiene e, soprattutto, la necessità di riuscire dotare buona parte dei suoi cittadini (che ancora non li posseggono affatto) di autoveicoli a basso impatto ambientale che appartengano direttamente alla nuova generazione! Già lo scorso anno, la Cina ha costruito il 43% degli 873mila veicoli elettrici assemblati nel mondo, in aumento rispetto al 40% del 2015.


LA SONNOLENZA DEL CONTINENTE EUROPEO E LA SOLITUDINE DEL GIAPPONE

Numerosi sono i motivi per i quali l’industria automobilistica del continente europeo, se escludiamo qualche incursione di WW e DAIMLER-BENZ, non ha davvero investito molto nello sviluppo di nuovi modelli di auto elettrica. Hanno sicuramente contribuito le divisioni nazionali che hanno limitato la completa integrazione dei mercati di sbocco continentali, una certa arretratezza nella domanda di veicoli di nuova generazione e i timori diffusi di successive difficoltà nell’assistenza e manutenzione dei medesimi, ma soprattutto le ulteriori difficoltà derivanti dalla limitatezza della rete delle stazioni di ricarica delle auto elettriche, hanno molto contribuito a polarizzare l’utilizzo delle auto elettriche nel segmento lusso (di chi dunque dispone anche di altri veicoli) e nel segmento cittadino, dove è più facile disseminare un reticolo di colonnine elettriche.

Ma per assurdo chi rischia di rimanere come il fanalino di coda della filiera è chi più di tutti sino ad oggi e prima di tutti gli altri operatori nel mondo aveva investito nella trazione ibrida degli autoveicoli: il Giappone, sede della Toyota-Lexus e caratterizzato da un elevatissimo livello qualitativo di tutte le proprie produzioni, nonché da un deciso grado di loro innovatività. Il Giappone però non può godere né delle economie di scala del rivale continentale né della filiera di produttori di componenti e sistemi che è basata negli U.S.A.


Non per niente Toyota ha deciso di scommettere pesantemente con la sua ultima nata: “Mirai” nell’unica vera alternativa alle auto elettriche: quella che utilizza le cellule a idrogeno: una fonte di energia potenzialmente ancora più efficiente e, contemporaneamente ancora più pulita, dal momento che la produzione e il futuro smaltimento delle batterie elettriche porta con se altri tipi di problemi ambientali. Si veda al riguardo un recente articolo del Financial Times denominato proprio: “La Scommessa del Giappone sull’Auto a Idrogeno” ( https://www.ft.com/content/328df346-10cb-11e7-a88c-50ba212dce4d ).

Il punto è che lo sviluppo di automobili basate sull’idrogeno comporta il dispiegamento di una fitta rete di colonnine di erogazione del medesimo sull’intero territorio, cosa che, a meno di un ribaltamento delle attuali politiche industriali, il Giappone rischia di non riuscire quasi a fare al di fuori dei propri confini nazionali ! Un peccato per il progresso ma un risultato scontato sotto il profilo geopolitico: la Cina ha bisogno di adottare tecnologie americane per far funzionare le sue fabbriche e l’America ha bisogno delle fabbriche e dei consumatori cinesi per fare profitti con le sue tecnologie.  Per tutti gli altri restano solo mercati di nicchia…

Stefano di Tommaso