LA RIVINCITA DEL SOGNO AMERICANO

Se c’è un’auto che negli ultimi due-tre anni ha incorporato il “sogno erotico automobilistico” di moltissimi cittadini del mondo dotati di tasche sufficientemente profonde da permettersi una “seconda auto di lusso” (visto che non può essere la prima a causa della limitata autonomia di percorso) questa è stata proprio la Tesla.

 

Se ci aggiungiamo poi le promesse (solo parzialmente mantenute) di essere la prima a guidare da sola e di costituire un salto quantico nel bel mezzo di una tecnologia oramai stantía delle altre automobili, oltre che un design accattivante e la certezza di non passare mai inosservati, ecco che si può tentare di comprendere i motivi per i quali per comperarne una (a prezzi non esattamente d’occasione) bisogna ancora oggi mettersi in coda per quasi un anno e i motivi per cui decine di migliaia di esponenti della classe media hanno deciso di “finanziare” una società quasi in bancarotta sottoscrivendo l’opzione da 3mila dollari ad acquistare il “modello3” con un paio d’anni di anticipo.

Un nome accattivante, un design minimalista, la certezza di non fare rumore nè fumo nonostante un’accelerazione da brivido, un abitacolo avveniristico e l’illusione di rientrare nella cerchia degli eletti sono state le leve di marketing sapientemente agitate dal poliedrico e problematico imprenditore che ci ha costruito sopra la sua fortuna (e forse anche la sua rovina) per far sentire i suoi attuali e futuri clienti praticamente a bordo di un‘astronave della confederazione galattica.

A giudicare da quanto osservato sino qui Elon Musk è stato soprattutto un abile stratega di vendita, non soltanto nei confronti degli acquirenti delle 4 ruote di sua produzione ma anche e soprattutto nei confronti dei mercati finanziari, che fino a ieri gli hanno perdonato tutto digerendo quasi senza protestare le ripetute richieste di sottoscrivere ingenti finanziamenti e capitali per le sue scintillanti avventure (fino a una decina di miliardi di dollari nel complesso), e riuscendo poi anche a evitare la bancarotta pur avendone già bruciati oltre 6 miliardi.

L’ultimo colpo di scena di Tesla poi ha sorpreso tutti: invece di proseguire sulla strada verso il fallimento annunciato dai più l’azienda è stata in grado di esibire un buon utile di periodo è una ancor più ingente generazione di cassa nel 3.o trimestre 2018, sferrando un colpo mortale alla speculazione dei “ribassisti” (quelli che vendono le azioni allo scoperto per guadagnare dalle aspettative non ancora realizzatesi), da sempre i più grandi nemici dichiarati dell’imprenditore più “americano” (pur provenendo dal Sud Africa) che la borsa ricordi.  Nell’ultimo periodo fiscale Tesla è riuscita infatti a incrementare significativamente le consegne di autovetture prenotate in precedenza alimentando altresì l’aspettativa di poter continuare sulla medesima linea anche nei prossimi mesi e di non dover più chiedere al mercato altri aumenti di capitale. Il titolo è cresciuto del 22% in due sedute e sembra continuare a riprendere vigore.


Ma per il nuovo corso politico americano -in guerra contemporaneamente con quasi tutto il resto del mondo e che vuole dimostrare al popolo di riuscire a risvegliare la supremazia tecnologica e industriale della nazione- la posta in gioco riguardo al successo di Tesla è molto più alta della “rivincita” di un imprenditore contro gli speculatori finanziari: è lo stesso concetto di “sogno americano” che “deve” riuscire a raggiungere il suo lieto fine perché molti altri ne possano seguire l’esempio. Non mi stupirei perciò di qualche “mano invisibile” che arrivi in extremis a supportare una delle più affascinanti storie industriali dell’ultimo secolo, proprio adesso che sull’auto elettrica e sull‘intelligenza artificiale è sfida aperta con i Cinesi, i Giapponesi, gli Israeliani, i Tedeschi e persino gli Indiani !

 

Stefano di Tommaso




BORSE: IL “VOLO VERSO LA QUALITÀ“ E IL GIOCO DELLE ASPETTATIVE

L’America di Trump non smette di stupire tutti: nonostante gli aumenti dei tassi di interesse della Federal Reserve vadano avanti da un anno e mezzo (più o meno da quando è stato eletto Trump) la sua borsa continua a galoppare, la sua economia si trova tecnicamente ancora in fase espansiva dopo ben nove anni da una delle crisi più terribili della storia recente, le sue aziende continuano a crescere (il fatturato delle quotate nella prima metà del 2018 è cresciuto su base annua mediamente del 10% ) e a fare grassi profitti (cresciuti nella prima metà del 2018 di circa il 24,5% su base annua). Qui sopra è riportato un confronto dell’indice principale di Wall Street con quello delle borse europee e quello dei paesi emergenti: il contrasto, a partire dallo scorso Giugno in poi, non poteva essere più evidente!

 

Gli analisti finanziari hanno denominato questo fenomeno “volo verso la qualità”, spiegando così la razionalità della propensione di chi investe a spostare i capitali dove gli affari vanno meglio e le disgrazie di chi ne resta a bocca asciutta.

I CAPITALI FUGGONO E LA BORSA ITALIANA TREMA

Sull’altra faccia della medaglia c’è infatti l’andamento della borsa italiana, le cui oscillazioni nel medesimo periodo sono state più ampie anche della media europea e la cui discesa persino più accentuata, come si vede dal grafico qui riportato:

 

L’Italia sconta il timore che la nuova coalizione governativa possa accelerare la deriva centrifuga dell’Unione Europea ma soprattutto paga lo scotto di un debito nazionale che non accenna a smettere di crescere, mentre l’ombrellone europeo che ne ha puntellato fino ad oggi la sostenibilità (e non ci viene fornito gratis) è stato annunciato che presto verrà chiuso, sospingendo dunque capitali e imprese italiane a varcare i confini per trovare minor tassazione, meno rischi-paese e migliori infrastrutture.

IL CASO DELLA TURCHIA

C’è poi il caso-Turchia, con il solito copione della svalutazione-inflazione-recessione che sta andando in onda in questi giorni a causa del fatto che il suo leader-tiranno Erdogan, ha fortemente deluso gli investitori stranieri e non ha voluto in alcun modo piegarsi di fronte alla richiesta americana di riequilibrare le proprie esportazioni (di acciaio innanzitutto, di cui l’America era il primo cliente) con altrettante importazioni. Colpita e affondata dalle sanzioni americane e dalla sfiducia degli operatori economici (anche interni), la Turchia deve confrontarsi con una fuga di capitali senza precedenti come si vede dall’evoluzione del tasso di cambio nei mesi estivi.

 

MA LA LIQUIDITÀ FUGGE DALLE PERIFERIE ANCHE PER ALTRI MOTIVI

Il punto però è che il medesimo andamento lo troviamo un po’ dappertutto tra i Paesi Emergenti: da Giugno in poi anche le borse asiatiche puntano al ribasso e il motivo è sempre lo stesso : l’America si sta riprendendo le risorse finanziarie che prima aveva disseminato in giro per il mondo esprimendo dati “fondamentali” economici migliori. La più attenta selezione (da parte di chi alloca le risorse finanziarie) alla qualità degli investimenti, degli ambienti macroeconomici e delle prospettive di sviluppo premia dunque le economie più virtuose.

Questo significa che invece in molti paesi del mondo la liquidità si riduce e ciò amplifica la crisi dei mercati finanziari di nazioni come la Turchia ma anche dell’Italia e di altri paesi mediterranei, per non parlare degli altri paesi emergenti, a partire da quello che è ancora classificato come tale ma di fatto è divenuta la seconda potenza economica globale: la Cina.

Il problema della Cina non è troppo diverso da quello della Turchia: dall’inizio di Giugno i dazi americani stanno danneggiando l’industria e le esportazioni cinesi ma soprattutto stanno danneggiando le prospettive dell’economia cinese, così i capitali fuggono da quel paese e la sua moneta si svaluta, riducendo il potere di acquisto (di beni importati) della popolazione:

 

DAZI E SANZIONI PER ORA HANNO FUNZIONATO (PER L’AMERICA)

Non c’è dubbio quindi che le politiche di Donald Trump per riportare capitali e investimenti in America stiano funzionando alla grande, checchè ne scrivano gli oppositori.

E poi dazi e sanzioni significano forti incassi per le casse federali americane, con i quali si può addirittura arrivare a finanziare gli sgravi fiscali!

Ovviamente alla lunga il sistema rischia di incepparsi, poiché buona parte dei lauti profitti delle aziende americane sono stati sino ad oggi realizzati all’estero, dove i consumi potrebbero cominciare a contrarsi seriamente a causa della forza del Dollaro.

Ma per il momento non è così: i consumi interni agli USA crescono e gli investimenti in tecnologia creano posti di lavoro e tengono alte le aspettative, che sono fondamentali perché le aziende distribuiscano a valle denaro e l’economia cresca. Non è un caso se la crescita del prodotto interno lordo americano è più alta del solito. D’ora in avanti la partita si sposta invece sulla capacità dell’America nel risultare convincente a riequilibrare le bilance commerciali con il resto del mondo e, riuscendovi, azzerare le tariffe doganali. Il grafico qui sotto illustra l’aggravamemto del deficit commerciale con la Cina (e dunque il motivo dell’innalzamento dei dazi):

 

È IL MOMENTO DEI TITOLI “TECNOLOGICI”

E poi se c’è un comparto industriale che -non solo a Wall Street, ma sicuramente lì innanzitutto- sta andando alla grande il borsa è proprio quello delle aziende “tecnologiche”, sia perché in molti casi ha mantenuto le promesse di redditività agli investitori, che per per il fatto che i loro fatturati andranno progressivamente a soppiantare quelli delle altre imprese, destinate inevitabilmente anche a svalutare nel tempo i loro valori di capitalizzazione di borsa.

D’altra parte gli investitori globali si stanno posizionando tutti su un atteggiamento più cauto per il futuro, aumentando la quota di liquidità detenuta, il reddito fisso e i beni-rifugio, sottraendo dunque risorse agli investimenti azionari che infatti stanno in molti casi arretrando.

LA LIQUIDITÀ DEI MERCATI GIOCA UN RUOLO IMPORTANTE

Qualche eccezione (per ora) è data dall’immissione ancora di nuovi mezzi freschi da parte di alcune banche centrali (tra le principali quella europea, quella cinese e a tratti quella del Giappone) e, soprattutto, l’eccezione è data dai forti programmi di buy-back (riacquisto di azioni proprie) delle grandi Corporation americane che dispongono di fortissima liquidità e la distribuiscono in questo modo indirettamente ai loro azionisti. Il fenomeno vale molti miliardi di dollari ed è una delle principali ragioni per le quali Wall Street “tiene” più di altre piazze, come si vede dal grafico riportato:

 

La morale dello scenario appena tratteggiato però è molto chiara: l’America corre perché taglia la tassazione e incoraggia gli investimenti. Le borse che avanzano sono quelle che hanno in listino le aziende più redditizie, mentre quelle che arrancano di più sono le piazze che esprimono le maggiori incertezze riguardo al futuro.

 

 

IL GIOCO DELLE ASPETTATIVE

È in questa prospettiva che si deve leggere l’incremento dello spread italiano, nonché la presa di beneficio dei maggiori investitori stranieri: se il nuovo governo riuscirà anche a favorire la ripresa economica e gli investimenti produttivi allora le migliori prospettive torneranno ad attrarre capitali e questi faranno ri-crescere il listino nostrano, caratterizzato tra l’altro dall’esibire oltre un centinaio di belle ma piccolissime imprese quotate all’Alternative Investment Market (AIM) e in attesa di passare al listino principale una volta raggiunte le dimensioni per farlo. Se lo facessero tutte, allora il numero delle imprese quotate al listino principale di Milano crescerebbe notevolmente, e così la sua liquidità complessiva.

Se viceversa il governo non riuscirà a fare nulla di tangibile allora l’attenzione del mercato dei capitali si sposterà ancora una volta sulla sostenibilità del debito pubblico e lo spread con i tassi tedeschi volerà inevitabilmente alle stelle, aprendo la strada a un copione già osservato prima in Grecia e poi in Turchia. Entrambe guarda caso bagnate dal Mediterraneo e devastate da fenomeni di immigrazione di massa, come del resto il nostro Paese!

Stefano di Tommaso




CHI HA GUADAGNATO E CHI HA PERSO DALLE GUERRE COMMERCIALI?

Difficile aggiungere validi commenti alle tonnellate d’inchiostro che sulla stampa di tutto il mondo si sprecano sui pericoli del protezionismo. Meglio cercare di guardare i fatti che qui vengono riportati con l’andamento degli indici delle borse:

•Globale (indice MSCI WORLD in Dollari) 


•Americana (SP500)


•Europee (Stoxxs Europe 600)

 


•Giapponese (Nikkei)

 



•Hong Kong (Hang Seng)

 



•Cinese (SSEC)


Stupiscono due fatti al di là di ogni considerazione: le principali borse del mondo, che alla fine del 2017 sembravano aver toccato le stelle con un dito, nella prima metà del 2018 non sono quasi affatto discese a livelli più bassi, nemmeno nei Paesi Emergenti (tra l’altro misurate in Dollari che si sono evidentemente apprezzati contro molte valute locali!).

Contrariamente a quanto leggiamo tutti i giorni i risultati che emergono dai grafici che seguono non potrebbero essere più chiari: l’America è quella che ci guadagna di più (nonostante il super-Dollaro) e l’Asia (Giappone escluso) è quella che ci perde. Difficile pensare che gli investitori non abbiano alzato le antenne per cercare di capire prima degli altri cosa sta succedendo. E se non sono fuggiti a gambe levate non vi viene qualche dubbio? Siete sempre dell’idea che Trump sia un pazzo che sta mettendo a ferro e fuoco il mondo?

Le ultime proiezioni indicano che quest’anno il prodotto interno lordo americano crescerà di quasi il 3%, poco meno del doppio di quanto dovremmo fare in Italia e significativamente di più di quanto farà la Germania. Se poi cerchiamo di capire qual’è la vera crescita economica cinese dobbiamo alzare le mani, perché gli osservatori internazionali concordano nel ritenere che le statistiche (comunque in discesa sul limitare del 6%) siano in realtà tutte falsate e che il vero passo è poco superiore alla metà di quel numero.

Purtroppo il bombardamento quotidiano cui siamo sottoposti, di commenti di parte e notizie parziali, ci fa talvolta perdere il senso della realtà, convincendoci che la “deriva populista” cui sembra condannato l’Occidente (a partire dalla Brexit) sta distruggendo le basi della società civile cui ci eravamo abituati. Purtroppo è quasi vero l’opposto: i partiti che stanno guadagnando terreno sono votati da un crescente malcontento popolare che le èlites che fino a oggi hanno governato il mondo (e che controllano buona parte della diffusione dell’informazione) non accettano di riconoscere.

Nessuno scrive che l’Europa e la Cina fino all’anno scorso applicavano unilateralmente dazi nei confronti dei prodotti americani e che l’America di Trump aveva più volte chiesto di rimuoverli. Allora Trump è passato ai fatti. E il risultato è che i capitali corrono a sottoscrivere titoli del Tesoro americano e il Dollaro sale, anche perchè le multinazionali riportano a casa la liquidità che prima lasciavano oltre oceano, mentre salari e consumi degli USA crescono a un ritmo superiore a quelli di tutto il resto del mondo.

Stefano di Tommaso




LE VERE RAGIONI DELLE “GUERRE COMMERCIALI”

Nell’ultimo ventennio i commerci internazionali hanno evidenziato una trasformazione dovuta principalmente al processo di graduale ma pervasiva digitalizzazione del mondo. È tuttavia curioso notare che chi ne ha potuto profittare di più sono state le grandi imprese multinazionali Americane e Cinesi che hanno investito maggiormente per essere in testa nel processo di digitalizzazione e nell’efficienza della catena internazionale degli approvvigionamenti produttivi (la cosiddetta “supply chain”).

 

Le grandi corporation transnazionali contano oramai per l’80% degli scambi commerciali globali, per il 75% della ricerca e sviluppo (del settore privato) e per il 40% della crescita della produttività mondiale. La forte crescita dei profitti registrati dalle maggiori società quotate nel mondo si riferisce soprattutto al processo di progressiva digitalizzazione, non soltanto per lo sviluppo del commercio elettronico ma anche e principalmente nell’efficientamento della supply chain in quasi tutti i settori industriali.


LE MULTINAZIONALI RIESCONO A CONTROLLARE LA LORO “SUPPLY CHAIN” E A NON ESSERE COLPITE DAI DAZI

La maggioranza di queste multinazionali si trova in America e in Cina e molto spesso ciascuna di esse oltre ad avere sedi in tutto il mondo, ha anche stretto forti rapporti di collaborazione con aziende dell’altra superpotenza globale. La capacità di gestire la delocalizzazione, e di conseguenza di rendere più efficiente la supply chain e in generale di controllare meglio tutta la filiera produttiva-distributiva rappresenta dunque (e continuerà a rappresentare a lungo) un forte vantaggio per le imprese di maggiori dimensioni e maggiormente globalizzate, perché permette di supervisionare lo scenario competitivo internazionale e soprattutto di venire assai poco colpite dall’erezione delle nuove barriere commerciali, mantenendo un forte controllo sui costi di produzione.


IL SUCCESSO SENZA PRECEDENTI DEL COMMERCIO ELETTRONICO

La premessa è fondamentale prima di prendere atto della conseguenza più macroscopica della digitalizzazione dell’economia: lo sviluppo senza precedenti del commercio elettronico internazionale.


Gli scenari economici e geopolitici globali sembrano essersi totalmente modificati dopo che si è concretizzata la possibilità anche nei paesi più poveri del mondo di fare acquisiti online con un solo click dal proprio telefonino (o tablet/laptop).

LA MINACCIA CONCRETA DELL’E-COMMERCE DI RIUSCIRE AD ERODERE I PROFITTI DELLE GRANDI MULTINAZIONALI

Teoricamente nel medio termine lo sviluppo del commercio elettronico potrebbe riuscire ridurre decisamente i vantaggi attuali delle grandi società multinazionali. Grazie alla possibilità della vetrina di internet in un futuro assai prossimo qualsiasi piccola e media impresa basata nel più remoto dei paesi emergenti potrebbe sperare minacciare seriamente la più grande delle multinazionali ingaggiando una guerra di prezzi e/o di innovazioni di prodotto. Quelle stesse società multinazionali che attirano i migliori cervelli, che detengono il maggior potere finanziario e che sono oggi in grado di esercitare sui governi la maggiore influenza lobbistica. Difficile credere che possano restare a guardare…

Guarda caso nello stesso momento (il 2017) in cui si rendeva evidente che il commercio elettronico globale avrebbe potuto ridurre i loro margini di profitto e soppiantare la predominanza delle economie più avanzate, ecco vedere la luce l’ “invenzione” delle guerre commerciali, che sospinge in alto le tariffe doganali, fa crescere il peso delle “valute forti” e di fatto si oppone decisamente all’ampliarsi del libero scambio globale. La coincidenza è quantomeno sorprendente! Ed è un tema che fa riflettere perchè costituisce la prova che (dall’avanzata del commercio elettronico in un contesto di libero scambio internazionale) sono proprio le grandi corporations che potrebbero risultare i principali “perdenti”.

Alla lunga infatti, con la diffusa digitalizzazione, la crescita degli scambi internazionali e quella degli investimenti produttivi nei paesi emergenti, probabilmente assisteremo a un’evoluzione del commercio globale perché la digitalizzazione favorisce inoltre l’incredibile ascesa dell’automazione industriale. Questa riduce i vantaggi della delocalizzazione produttiva (il costo del lavoro conterà sempre meno)e viceversa spingerà le fabbriche (sempre più automatiche) a frazionarsi e, laddove possibile, a spostarsi in prossimità dei mercati serviti o dei distretti territoriali specializzati in determinati comparti produttivi, dove sarà più agevole reperire risorse umane super-specializzate in tecnologia. La creazione e la diffusione di know-how e di formazione professionale continueranno tra l’altro a esercitare un forte ruolo sui cambiamenti economici e commerciali e sulle politiche commerciali di ogni paese, ma sicuramente avvantaggeranno quelli che risulteranno più avanzati in tal senso. E chi sarebbero questi se non -ovviamente- America e Cina?


UN OSTACOLO INATTESO

Quel che si può notare invece è che oggi l’accresciuta frizione commerciale tra America e Cina sta creando un ostacolo apparentemente inatteso allo sviluppo del libero scambio globale di cui avrebbero beneficiato principalmente i paesi emergenti. America e Cina nell’ingaggiare quelle che i media definiscono “guerre commerciali” sono in realtà i due paesi che più stanno avvantaggiandosi delle barriere recentemente introdotte alle loro frontiere, servendole su un piatto d’argento alle loro maggiori imprese globali, a danno del resto del mondo e in particolare degli Europei (che in questo momento sono i più forti esportatori) e, ovviamente, dei Paesi Emergenti.

Le principali “corporation” delle due superpotenze globali appaiono inoltre sempre più interconnesse tra loro e anche per questo motivo sembrano molto attrezzate a limitare i danni che potrebbero derivare loro dagli incrementi delle tariffe doganali. La tesi qui sostenuta è che tanto le multinazionali americane quanto quelle cinesi avranno alla fine parecchio da guadagnare nel processo in corso di incremento delle tariffe commerciali, oltre che nello spartirsi di conseguenza le rispettive zone di influenza nell’ambito dei paesi emergenti loro satelliti.

 

Tra breve e lungo termine dunque si delinea un deciso dualismo: nell’immediato e dal lato produttivo, del know-how e dei diritti di proprietà intellettuale le grandi multinazionali occidentali sembrano le migliori candidate a trarre profitto dalle guerre commerciali in corso (a causa della loro capacità di produrre e approvvigionarsi tanto al di qua come al di là dell’Oceano Pacifico. Dall’altro lato, quello dei consumi e dei mercati di sbocco e soprattutto nel lungo periodo, i dazi e le limitazioni potrebbero danneggiare seriamente la crescita economica, in particolare quella dei paesi emergenti la cui forte dinamica demografica sospinge oggi i consumi globali. Questo ovviamente potrebbe danneggiare le prospettive di crescita dei profitti delle medesime multinazionali.

WHAT NEXT ? GLI INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE

Ma la retorica della politica non potrà proseguire all’infinito sulle note del protezionismo e ci si aspetta che, quale antidoto agli effetti depressivi delle guerre commerciali, essa possa partorire presto l’avvio di grandi progetti infrastrutturali, alcuni dei quali già avviati.

Il che rappresenterà ancora una volta un’ottima possibilità di fare buoni profitti per le grandi multinazionali di quei paesi (Cina e America) che prima degli altri potranno vararli, magari utilizzando risorse pubbliche o stampando altra moneta, visto che le guerre commerciali rafforzano le loro divise.

Il che non potrà che contribuire ad aumentare il divario tra la crescita economica delle due superpotenze e quella di tutto il resto del mondo. Se fosse vero sarebbe un piano diabolico, senza dubbio. Ma se a pensar male si fa peccato, tuttavia spesso ci si coglie!

Stefano di Tommaso