GUERRE COMMERCIALI IMMAGINARIE

Ho appena letto l’articolo di Martin Wolf sul Financial Times di ieri (“TRUMP DICHIARA GUERRA COMMERCIALE ALLA CINA”) nel quale afferma che il Governo Americano è alternativamente matto o sfrontato nel richiedere alla Cina “concrete e verificabili azioni” per raggiungere risultati nelle seguenti direzioni (traduzione testuale):
•Ridurre lo squilibrio commerciale tra i due paesi di 100 miliardi di dollari nei prossimi 12 mesi e di altri 100 miliardi nei successivi 12 mesi

•Eliminare i sussidi di stato che distorcono la concorrenza delle imprese cinesi con quelle americane e conducono ad un eccesso di capacità produttiva delle prime

•Rafforzare la tutela in Cina della proprietà intellettuale straniera

•Eliminare l’obbligo delle imprese straniere di trasferire tecnologia alle imprese cinesi per ottenere il permesso di procedere a joint-ventures in Cina

•Cessare i cyber-attacchi alle imprese americane, il loro spionaggio, la contraffazione dei loro prodotti e la pirateria sui loro diritti

•Rispettare le leggi americane sul controllo delle esportazioni

•Ritirare la richiesta al WTO di imporre tasse sulla proprietà intellettuale straniera

•Cessare azioni di ulteriore rivalsa in risposta alle iniziative degli USA volte al riequilibrio dei rapporti commerciali e alla tutela della loro sicurezza militare

•Bilanciare in pari misura le restrizioni e le tariffe imposte agli scambi commerciali USA-CINA

•Permettere controlli sanitari e sulle condizioni umane di lavoro nelle imprese cinesi che vogliono esportare alimentari in USA.

Al di là della mia incondizionata condanna ai giornalisti ed intellettuali che ritengono di potersi permettere toni così dispregiativi delle istituzioni di paesi terzi che vantano governi davvero eletti democraticamente, ditemi Voi se le richieste di Trump, benché maledettamente dirette ed esplicite e dunque contrarie ai bizantinismi della diplomazia, possano risultare “ridicole” o “impossibili” !

 


A me viene da pensare il contrario e da rivolgere un applauso a chi ha avuto il coraggio di sfidare lo “status quo” e denunciare le disparità di trattamento che sembravano divenute normali sotto le precedenti amministrazioni governative americane.

Ma è chiaro che nel fare ciò, per qualche ineffabile motivo, il presidente americano ha contro l’intero establishment della stampa internazionale.

Il bello è che lo stesso autore sulla medesima testata afferma al termine dell’articolo che in effetti la Cina dovrebbe riconoscere di essere divenuta una superpotenza economica e militare e dovrebbe finalmente accettare i principi del diritto internazionale e quelli del libero commercio aprendosi ad una discussione franca e multilaterale sul commercio internazionale. Ma secondo il medesimo autore non dovrebbe essere l’America da sola e per prima che getta il sasso nello stagno bensì una commissione congiunta con l’Europa e il Giappone. Come dire che l’urgenza non esiste.

Difficile aggiungere commenti a quanto riportato senza rischiare di essere di parte. Basta solo leggere con autonomo giudizio quanto scritto dal medesimo defraudatore delle dignità altrui.

(le immagini riportate sono tratte dal medesimo articolo)

Stefano di Tommaso




IL PARTITO DELLA GUERRA

Dopo l’attacco alla Siria da parte delle forze congiunte di America Gran Bretagna e Francia, qualcosa di importante è cambiato -e in peggio- sullo scacchiere della geo-politica. Qualcuno parla di nuova guerra fredda, ma anche i tempi sono cambiati.

 

LA PROVOCAZIONE

Che sia vero o meno che il governo siriano volesse un attacco alla popolazione con armi chimico-biologiche a Duma (ed è fortemente discutibile che lo sia) oramai non è più così importante: quel che conta è che l’attacco alleato (piuttosto pesante e apparentemente assai inutile) è stato sferrato ugualmente, sfidando le ire di una Federazione Russa che aveva fatto sapere senza mezzi termini che difenderà il suo partner siriano addirittura colpendo le basi da cui sono partiti i missili.

E come se ciò non bastasse il governo americano ha deciso di infliggere alla Russia nuove sanzioni commerciali, che tra l’altro è vero che nuocciono soprattutto ai suoi alleati europei, ma alla lunga portano un danno non solo alla Russia, bensì anche a tutto l’Occidente, perché la obbligano a sostituire con i paesi del continente asiatico

i suoi partner commerciali europei. Non per niente la Germania si è voluta tenere fuori dall’iniziativa militare, ma è rimasta ugualmente colpita dalle sanzioni commerciali.

SPINGERE LA RUSSIA TRA LE BRACCIA DELLA CINA

Sembra al momento improbabile che la Russia reagirà alla tenaglia militare-commerciale. Se lo facesse trascinerebbe il mondo verso un forte rischio di terza guerra mondiale, ma questo non significa che non terrà conto dell’accaduto nelle sue alleanze internazionali (con la Cina, in particolare, oramai giudicata interlocutore altamente più affidabile dell’Occidente) e non è detto che gli attuali rapporti di forza (basati sulla supremazia della macchina militare della NATO), non possano presto arrivare a cambiare.

Spingere la politica estera della Russia ad abbracciare quella della Cina (riconosciuta dagli studiosi di relazioni internazionali come il vero problema dell’Occidente nel lungo termine) potrebbe sembrare una cosa semplicemente stupida, ma probabilmente è invece voluta ed anche assai folle, perché il rischio di spiazzamento dell’Occidente negli interscambi commerciali tra la nazione più ricca al mondo di risorse naturali e quella più popolosa e più dinamica nelle nuove tecnologie è elevato. L’unica vera contropartita di tale follia può essere l’allargamento delle occasioni per far nascere nuovi focolai di guerra.

Quel che sembra rispuntare vincente dalle ceneri della diplomazia in questi giorni è infatti il cosiddetto “partito della guerra”, cioè quella coalizione trasversale e ben occultata ai media di ogni parte del mondo costituita di produttori di armi, mercanti ed esportatori di materie prime, finanzieri d’assalto e lobbisti politici, uniti dal fatto che otterrebbero tutti dei grandi profitti dalla deflagrazione di nuovi conflitti e dalle spese straordinarie di cui essi necessiterebbero.

TRUMP È UN OSTACOLO

Nella stessa direzione va probabilmente l’attacco frontale al presidente Trump, reo di non essersi messo (completamente) a disposizione del partito della guerra, pur avendo ordinato egli stesso l’attacco siriano. Che i poteri forti vicini alla fondazione Clinton volessero farlo fuori è noto, ma è più probabile che l’interminabile processo giudiziario denominato “Russiagate” non abbia come obiettivo quello di dimostrare il suo connubio con Putin (impossibile, altrimenti le prove dopo un anno e mezzo sarebbero già saltate fuori), bensì quello più sottile di deterioramento della sua immagine sui media, per riuscire costringerlo -nel dubbio- a guerreggiare con quest’ultimo, anche per dimostrare la sua estraneità alle accuse.

Trump non è stupido e si rende perfettamente conto del pericolo di un conflitto allargato (a partire dagli effetti al rialzo che potrebbe avere sul prezzo del petrolio) e del fatto che ci sono dietro le quinte forti interessi economici in tal senso, ma resta tutto da vedere cosa possa farci per ostacolarne la possibilità.

Non per niente sulla vicenda della Corea del Nord Trump ha appena fortemente voluto e alla fine ottenuto una vittoria significativa proprio nel dialogo con la Cina (da sempre l’alleato occulto di Kim Yong Un), ed ha anche invitato Putin a sedersi ad un tavolo comune per evitare l’escalation militare.

Ma conciliare lo spirito patriottico (che ha sempre più necessità di dimostrare) con l’esigenza di ridurre le tensioni internazionali è un esercizio notoriamente assai difficile. E non è detto che gli porterà consenso aggiuntivo tra i suoi elettori alla prossima tornata…

Stefano di Tommaso




IL MESSAGGIO DEI MERCATI A TRUMP E FED

Fino al gennaio scorso la narrazione dei commentatori di tutto il mondo sembrava inequivocabilmente e stabilmente positiva: nonostante l’inflazione non si manifesti e i tassi d’interesse restino sostanzialmente bassi, la crescita economica globale stava incrementando il suo passo e questo non poteva che migliorare le prospettive per gli utili delle aziende americane, prospettive che sono alla base degli attuali livelli (stratosferici) delle valutazioni implicite nelle quotazioni delle borse valori (Wall Street e Nasdaq).
Il discorso non era proprio uguale per le altre borse, cresciute senza dubbio molto meno di quelle americane, ma in compenso le loro prospettive -almeno quelle europee- restavano anche più rosee.

 

Poi sono cominciati numerosi sussulti geo-politici, a partire dai primi segnali di una vera e propria guerra commerciale tra America e Cina, cui hanno fatto seguito altrettante oscillazioni delle borse di tutto il mondo le quali hanno riportato in forte ripresa l’indice della volatilità dei mercati borsistici, giunto ai nuovi massimi dell’anno, gli stessi toccati all’inizio di Febbraio, (VIX, detto anche “l’indice della paura”: vedi qui sotto).

LE PROSPETTIVE RESTAVANO BUONE

Tutti i commentatori ne avevano -correttamente- dedotto che i bei tempi in cui le borse che continuavano a crescere mentre la loro volatilità toccava nuovi minimi erano forse andati per sempre. Ciò nonostante quasi nessuno fino alla settimana scorsa aveva ancora preso sul serio la possibilità che i mercati finanziari potessero non solo avere aumentato la loro volatilità, ma anche essere giunti all’inizio di un percorso di discesa generale delle quotazioni, le cui avvisaglie registrate sino a quel momento non lasciavano ancora presagire importanti inversioni di tendenza.

Le prospettive di crescita dei profitti aziendali restavano infatti ancora positive, così come la crescita economica globale non ha fino ad oggi mostrato rallentamenti. Dunque non sembravano ancora esistere -tecnicamente parlando-  le condizioni perché potesse invertirsi la tendenza di fondo che ha sino a ieri animato i rialzi dei mercati finanziari negli ultimi anni.

LA SOPRAVVALUTAZIONE DI WALL STREET

Si veda tuttavia in proposito qui sotto il grafico fornito dall’Economist di questa settimana dell’indice CAPE (quello del rapporto medio prezzo/utili dell’indice della borsa americana ponderato sulla base della media mobile dei profitti degli ultimi dieci anni), pubblicato periodicamente dal gruppo del premio Nobel Robert Shiller per indicare l’andamento del rapporto prezzo/utili una volta smussare le valutazioni implicite espresse da Wall Street sulla base dell’andamento degli utili (se continuano a crescere abbassano il CAPE).

Dal grafico si legge bene che una settimana fa il rapporto tra l’indice SP500 e la media mobile a 10 anni degli utili delle aziende che ne fanno parte era arrivato quasi a 33volte, chiaramente un nuovo massimo, ai livelli della crisi del 1929 e poco sotto quelli dello scoppio della bolla della “New Economy”. Tanto per fornire una comparazione, quello della borsa canadese viaggia a 20volte, quello di Francoforte a 19volte e quello della borsa di Londra a 14volte.  Dunque Wall Street ha fatto molta più strada di tante altre borse, come si può vedere dell’indice cumulato delle borse europee qui sotto riportato (precipitato già a Gennaio e sceso ogni volta a nuovi minimi per ben due volte a Marzo:

GLI ELEMENTI DI “ATTENZIONE” DA PARTE DEGLI INVESTITORI

Se però fino alla settimana scorsa i principali investitori sui mercati borsistici globali restavano ancora moderatamente ottimisti, la loro prudenza era divenuta maggiore che non in passato, a causa della presa d’atto di numerosi fattori d‘ attenzione, quali:

– la maggior volatilità che avrebbe contraddistinto l’anno in corso,
 – la presumibile riduzione della liquidità in circolazione a causa della progressiva riduzione degli stimoli monetari introdotti dalle banche centrali,
 – la prospettiva di incremento dei tassi di interesse,
 – Il crescente costo di petrolio e energia, che fa temere un risveglio dell’inflazione,
 – la prospettiva di un generale ridimensionamento delle quotazioni dei principali titoli “tecnologici”, la cui capitalizzazione complessiva incide non poco sulla composizione degli indici delle principali borse americane e asiatiche,
 – la possibilità che il ciclo economico positivo sia giunto al momento di inversione.

Ecco al riguardo alcuni grafici:


Poi è arrivata l’ennesima manovra protezionista del presidente Trump, che ha generato il maggiore “sell-off” degli ultimi tempi delle borse americane, più intenso e violento del solito, con il quale sono stati interamente cancellati i guadagni registrati sino ad oggi nell’intera prima parte del 2018.

I “TIMORI” GEO-POLITICI

Contemporaneamente sono anche discese le quotazioni di numerose “commodities” (materie prime e derrate agricole) ed è invece ulteriormente salito il prezzo del petrolio, il primo di solito a prendere un balzo quando iniziano a fischiare venti di guerra o prospettive di disordine internazionale, che -indubbiamente- si sono manifestate al riguardo di:

 – timori di una guerra commerciale tra USA e Cina
 – Ipotesi di confronti più serrati sulle politiche commerciali con l’Europa
 – possibili nuove tensioni in Medio Oriente, e in particolare in Siria, dove la tensione con i paesi come l’Iran, storicamente collegati alla Federazione Russa sembra accrescersi giorno dopo giorno
 – ancora incerte prospettive sul confronto militare con la Corea del Nord
 – ulteriori tensioni commerciali con Messico e altri paesi americani aderenti al NAFTA.

Ecco un grafico che spiega i timori di Wall Street per una guerra commerciale:

IL ROVESCIAMENTO DELLE ASPETTATIVE

Alla fine della settimana scorsa quindi, dopo una delle peggiori settimane finanziarie di sempre,  i pareri degli investitori istituzionali e professionali hanno iniziato a cambiare, alcune loro certezze sono venute a mancare e le prospettive di proseguire la precedente direzione di rotta nella navigazione, seppur attraverso mari più increspati dalla crescente volatilità, sembrano alla fine infrangersi quando si sommano così tanti fattori di incertezza.

Per completare il quadro generale occorre ricordare che una crescita economica a pieno regime è contemplata tra le ipotesi fortemente necessarie perché gli attuali livelli di debito complessivo (privato e pubblico) siano compatibili con le prospettive di crescita dell’economia globale che sino a ieri erano tracciate dalla maggior parte degli economisti.

Il fatto che i mercati però stanno perdendo la loro fiducia, basata sino a ieri sulle aspettative di crescita economica globale, lo si può leggere dal fatto che negli ultimi giorni persino i titoli a reddito fisso vengono venduti per detenere liquidità o altri beni-rifugio, prendendo atto del sommarsi di un po’ troppe questioni economiche e geo-politiche che potrebbero congiurare tutte insieme per invertire lo scenario incantato che si era registrato in precedenza, proprio mentre la Federal Reserve (la Banca Centrale americana) sembra invece testardamente intenzionata a proseguire con il rialzo dei tassi e la cessione dei numerosi titoli acquisiti in portafoglio ai tempi del Quntitative Easing.

Si è detto che spesso le recessioni (o comunque le inversioni del ciclo economico) deflagrano a causa della scintilla delle politiche restrittive delle banche centrali, inultimente o tardivamente preoccupate per la possibilità che rispunti l’inflazione. Questa volta potrebbe essere assai poco diverso: a questo punto della storia i mercati sembrano non avere molto altro spazio per continuare a correre ancora, e le banche centrali (soprattutto quella americana, che è sempre anni avanti alle altre nella politica monetaria) farebbero bene a tenerne conto, vista la dimostrata forte influenza che le quotazioni dei mercati possono avere sull’economia reale.

Stefano di Tommaso




IL DECLINO A WALL STREET DELLE GRANDI CASE FARMACEUTICHE DIPENDE DALLE NUOVE SOLUZIONI WEB PER LA SALUTE DELLA GENTE

La digitalizzazione sta facendo -per adesso solo in America- forse la più illustre vittima della sua (breve) storia. La sentenza del mercato dei capitali americano parla chiarissimo al riguardo: con l’esplosione degli acquisti online, dei sistemi online di ricerca dei farmaci alternativi e generici, ma soprattutto con le prospettive dell’arrivo di nuove aziende di servizi che non si limiteranno a rendere più efficienti e più mirati gli acquisti di farmaci (bensì arriveranno ad occuparsi in via preventiva della salute dei lavoratori) gli analisti prevedono un futuro alquanto grigio per le grandi case farmaceutiche: ricavi con bassa crescita dei ricavi e addirittura profitti in declino!

 

Quel che preoccupa di più non è la prospettiva di una riduzione/razionalizzazione della spesa per farmaci (che pure si consolida come tendenza di fondo che coinvolgerà tanto i privati quanto le assicurazioni come pure le pubbliche amministrazioni) bensì la (ridotta) capacità dei maggiori operatori del settore di continuare anche in futuro a godere degli ampi margini sui costi che hanno fino a ieri caratterizzato una delle più “ricche” industrie della storia.

Come si può facile immaginare non è soltanto la pressione politica dell’amministrazione presidenziale di Donald Trump che spinge verso una razionalizzazione della spesa per la sanità e -a partire dall’America- sta dunque lavorando per una riduzione dei margini delle case farmaceutiche, ma anche una tendenza di fondo del mercato di sbocco delle principali aziende del settore che parte da molto lontano.

Di seguito alcuni fattori che stanno scatenando il panico a Wall Street circa i titoli quotati delle aziende farmaceutiche:

•Molti dei principali brevetti che riguardano i prodotti farmaceutici sono scaduti o stanno per scadere, lasciando spazio a farmaci generici che utilizzano il medesimo principio attivo senza dover ammortizzare i costi per la ricerca,

•La possibilità di servirsi online (invece che in farmacia e dietro ricetta medica) apre una pericolosa quanto inevitabile strada al consumatore verso il “fai da te” e verso ulteriori pressioni sul prezzo di tutti quei farmaci che sono distribuibili su canali alternativi,

•L’insorgere di società cosiddette “Pharmacy Benefit Manager” (che si occupano di ottimizzare per conto dei privati, delle assicurazioni e delle pubbliche amministrazioni la spesa farmaceutica) come Express Scripts (100 miliardi di dollari di fatturato),

•La promessa -ancora più dirompente- di tre grandi imprenditori come Jeff Bezos (Amazon), Warren Buffett (Berkshire Hathaway) e Jamie Dimon (CEO JP Morgan) di costituire una nuova realtà che invece di limitarsi a ottimizzare la spesa farmaceutica arriverà addirittura a occuparsi in forma proattiva, preventiva e onnicomprensiva, della salute dei lavoratori.

Tutti fattori che giocano verso una riduzione della spesa per i soli farmaci, e dunque che congiurano per una riduzione dei profitti attesi per il comparto.

Le uniche linee di prodotto farmaceutico che stanno ancora aumentando i prezzi sono quelle degli antitumorali, mentre già per tutte le altre linee (a partire da quelle dove la ricerca è più attiva, come le medicine per la

Sclerosi Multipla, per il Diabete e per la Colesterolemia) si registrano già decise tendenze al ribasso dei prezzi.

 

Quanto questa tendenza al ribasso sui titoli delle aziende farmaceutiche si consoliderà nel tempo è oggi difficile dirlo. Lo stesso presidente americano che ha voluto la revisione dell’ObamaCare e ha avviato indirettamente il citato processo di erosione ha anche lanciato loro un’importante ciambella di salvezza:

il governo avvierà nuovi incentivi per la ricerca farmaceutica allo scopo di evitare che sia quest’ultima la vittima finale del processo di razionalizzazione del settore, dimostrando la serietà del suo intento di portare efficienza nella spesa pubblica e privata senza necessariamente colpire qualche vittima designata.

Ovviamente subito dopo l’annuncio di Trump i titoli in questione hanno goduto di un rassicurante rimbalzo. Resta da vedere tuttavia quale si rivelerà per essi la tendenza di fondo…

 

Stefano di Tommaso