COSA CI FA DONALD TRUMP AL FORUM DI DAVOS (LA FIERA DEI MULTIMILIARDARI CHE VOGLIONO ORIENTARE IL MONDO)?

Alla vigilia della nuova edizione del forum globale dell’economia di Davos è passata quasi completamente in sordina la denuncia dell‘ulteriore crescita disparità economica tra ricchi e poveri, da parte dell’organizzazione britannica non governativa OXFAM. In particolare la ONG citata segnala che nel primo semestre 2017 l’1% più ricco della popolazione mondiale continua a detenere più ricchezza del restante 99%. Inoltre nel 2017 l’82% dell’incremento della ricchezza globale è andata in tasca all’1% più ricco mentre il 50% più povero della popolazione mondiale non ha affatto beneficiato di tale incremento.

 

Ecco dove sta andando il mondo, diversamente dall’italia (per fortuna indietro in questa tendenza) dove ancora il 20% più ricco detiene solo il 66% della ricchezza. Secondo Voi a Davos   multimiliardari  riuniti a congresso per interrogarsi sulle sorti dell’umanità (e influenzarle) metteranno questa inquietante tendenza al centro del loro dibattito?

Ovviamente no. Così come gli americani dicono che nessun tacchino accetterebbe un invito a tavola per il giorno del ringraziamento! Quale multimiliardario vorrà mai accorrere a congresso per sentirsi dire che deve ridistribuire ai poveri una parte maggiore della propria ricchezza?

DAVOS = GLOBALIZZAZIONE

Il Forum di Davos nasce quasi mezzo secolo fa per iniziativa del professor Klaus  Schwab all’insegna della volontà di incrementare la globalizzazione dell’economia, vista allora inizialmente come la catena di trasmissione della ricchezza dai paesi ricchi a quelli meno avanzati. Il Forum ha sempre avuto poi la volontà di porsi domande sulle maggiori tendenze e minacce globali. Ma non ha mai nascosto a nessuno che -dal momento che vi si discute di economia, innovazione scientifica e regolamentazione dello sviluppo- i capitani d’industria e della finanza che sono lì riuniti si interroghino costantemente anche su come fare a trarne profitto.

La cosa di per sé non sarebbe uno scandalo se non fosse che a quel dibattito partecipano anche i più potenti politici del mondo e gli esponenti delle più importanti organizzazioni sovranazionali, gli stessi che dovrebbero invece preoccuparsi della tutela delle classi più svantaggiate, dello sviluppo economico dei paesi meno avanzati, della redistribuzione del reddito. Ovviamente il confronto tra gli uni e gli altri è utile, ma l’eventuale promiscuità è un’altra cosa.

DEFICIT COMMERCIALE E DISOCCUPAZIONE: CONSEGUENZE DELLA GLOBALIZZAZIONE INDISCRIMINATA

Al centro della prima globalizzazione e poi della crescita del commercio mondiale sino all’industrializzazione dell’intero continente asiatico c’è sempre stata la politica americana.

L’America, da Bill Clinton fino ai tempi di Barack Obama, ha sempre incoraggiato queste tendenze, sino a che la situazione non è tuttavia diventata insostenibile e non è stato eletto Donald Trump alla presidenza di quella nazione, proprio in risposta all’esigenza di contrastare una deriva contraria agli interessi del popolo americano .

Quello che molte testate giornalistiche non dicono è che Trump è stato eletto nel 2016 perché chi ha beneficiato della globalizzazione sono stati solo i privati imprenditori e investitori, mentre l’America negli ultimi 17 anni ha accumulato un deficit commerciale di oltre 4000 miliardi di dollari e si è indebitata verso l’estero per quasi 8000 miliardi di dollari, una cifra pari a circa il 41% del suo Prodotto Interno Lordo e superiore al Prodotto Interno Lordo di quasi tutte le altre nazioni!

L’export cinese verso gli USA vale da tempo oltre la metà delle sue importazioni e, non a caso, la Cina ha accumulato enormi risorse in Dollari (oltre 2000 miliardi) in buona parte oggi reinvestite in titoli del Tesoro americano.

IL DISCORSO DI TRUMP

È dunque probabile che Donald Trump che chiuderà i lavori della fiera dell’economia globale faccia qualche annuncio a forte impatto mediatico, come la denuncia di tutto ciò e degli interessi che vi sono dietro, magari proponendo ulteriori misure di ribilanciamento del commercio mondiale. La cosa è assai temuta da tutti coloro che rischiano di vedere danneggiati i propri interessi ed è questo il motivo per cui a questa edizione di Davos parteciperanno proprio tutti, persino Claude Junker che fino all’anno scorso aveva sempre snobbato il Forum. È persino arrivato un  messaggio di Papa Francesco.

C’è addirittura chi diceva che lo shutdown delle spese governative americane fosse stato imposto dai rivali di Trump anche per impedirgli di venire a partecipare a Davos! Cosa evidentemente esagerata, ma che indica lo stato di allerta generale.

Trump, che di norma è sempre molto coerente con i suoi elettori, probabilmente chiederà un riequilibrio strutturale del commercio mondiale, cosa che non farà piacere alla maggioranza dei convitati. Ma le conseguenze del possibile mancato accordo su questo tema potrebbero riguardare un nuovo innalzamento delle tariffe doganali o l’abbandono di altri trattati sul libero scambio. È da leggersi in questo senso l’accorato appello lanciato dal presidente indiano Narendra Modi nel suo discorso introduttivo.

Ma D’altronde non ci sono solo gli USA a voler contrastare un deficit commerciale strutturale, bensì anche la Gran Bretagna e la Francia, non a caso percepite in questo momento come forti alleate di Trump nella guerra santa verso il liberismo a tutti i costi.

RISCHI DI NUOVE GUERRE COMMERCIALI O DI NUOVE CRISI FINANZIARIE GLOBALI

Nel suo intervento Trump potrebbe rinunciare alla partecipazione a un comunicato congiunto in linea con il tema del Forum (“Creare un futuro condiviso in un mondo diviso”) e chiedere invece nuove regole per il commercio internazionale per frenare le peggiori conseguenze del globalismo indiscriminato.

E sarebbe piuttosto facile per i suoi avversari denunciarne la bieca volontà di erigere nuove barriere commerciali.

Ma le aberrazioni in termini di deindustrializzazione, disoccupazione e deficit pubblico (derivanti da quanto succedeva sino ad oggi) hanno danneggiato soprattutto il welfare delle classi sociali più deboli e questo fatto non è un elemento messo a fuoco dai principali media che partecipano al coro dei detrattori di Donald Trump.

In ogni caso l’eventuale irrigidimento delle reciproche posizioni non sarebbe privo di rischi per il sistema finanziario globale e per il commercio internazionale. A meno che ciò non sia addirittura espressamente desiderato da chi potrebbe trovare il modo di specularci sopra…

Stefano di Tommaso




SORPRESA! L’ECONOMIA GLOBALE CRESCE PIÙ DEL PREVISTO

Nell’anno che si è appena concluso il Financial Times stima che la crescita economica mondiale possa essere arrivata al 5% annuo, un ritmo doppio rispetto agli anni 2015-2016 e che non si vedeva dal secolo scorso. Sino a pochi mesi fa nessuno lo aveva previsto e ancora oggi molte testate internazionali (come l’Economist, ad esempio) fanno fatica ad ammetterlo.

Parliamoci chiaro, per molti commentatori è come se ciò corrispondesse alla sconfitta politica degli avversari della Brexit, del Trumpismo e del nuovo corso politico di Francia, Cina, India e Giappone, in barba a quelli che fino a ieri tifavano per il partito della guerra, per l’esplosione del terrorismo internazionale, per l’invasione indiscriminata dei migranti in Europa e per la destabilizzazione di Medio e Estremo Oriente. C’erano evidentemente forti interessi privati a destabilizzare il pianeta che, per qualche motivo, sono stati disattesi, e un esercito di pennivendoli pronti a fornirne una giustificazione razionale.

Il mondo sembra invece essere giunto a una svolta radicale negli ultimi mesi, ancorché essa non sia stata riportata dai media, e dunque senza che se ne sia ancora percepita l’effettiva portata. Per ora ne parlano solo gli economisti e gli investitori, consci del fatto che qualcosa di eccezionale sta prendendo forma e tuttavia niente affatto sicuri della sua “durabilità”. Le borse dunque crescono, ma con estrema circospezione, mentre i money managers le seguono sempre più scettici, e continuano a cercare ogni forma possibile di copertura dal rischio di un ribaltone.

L’ANNO DEI RECORD

 

 

Certo il 2017 è stato l’anno dei record, non solo per l’ascesa costante del valore delle attività finanziarie di tutto il mondo, per la ripresa economica dei paesi emergenti che nessuno si aspettava e addirittura per la distensione geopolitica internazionale che si è riscontrata ex post, ma anche perché tra gli allarmi della Brexit che avrebbe dovuto danneggiare Gran Bretagna e intera Europa e l’elezione di Trump -il Presidente americano più contrastato dai media che la storia ricordi- i commentatori che facevano più notizia erano le cornacchie che suonavano campane a morto rispolverando fantasmi del passato come l’iper-inflazione che sarebbe seguíta agli stimoli monetari delle banche centrali, la stagnazione secolare cui saremmo dovuti precipitare in assenza di miglioramenti della produttività del lavoro (concetto coniato da Sanders nel 2013), o addirittura sperticandosi in previsioni apocalittiche di un nuovo poderoso crollo dei mercati finanziari (chi non ricorda gli allarmi lanciati prima da George Soros e poi da Ray Dalio) o addirittura l’eventualità che precipitassero a picco il prezzo del petrolio e il volume del commercio internazionale.

 

Inutile ricordare com’è andata: è successo l’esatto opposto a dir poco! Non solo, ma il grosso della crescita economica globale è provenuto dalle regioni asiatiche e da quelle più periferiche, senza esplosioni demografiche e in modo sincronico con la ripresa delle economie più avanzate! Ancora oggi La prima economia mondiale resta ancor oggi quella americana, ma se guardiamo invece ai valori espressi in base alla parità di potere

d’acquisto allora nel 2017 la Cina ha già superato gli Stati Uniti d’America.

I GRANDI TIMORI

Come sempre in questi casi non ci possono essere certezze di essere entrati in una nuova era di prosperità, anzi!

 

Ma cosa affermano allora (e anche con una certa autorevolezza) le cornacchie? Che il mondo sta sperimentando oggi una crescita pagata al carissimo prezzo dell’esplosione del debito globale, tanto privato quanto di stato, arrivato nel complesso alla mirabolante cifra di 233.000 miliardi di dollari, più che raddoppiato (+163.000 miliardi di dollari) rispetto a vent’anni prima. E che la fase aurea in cui ci troviamo potrebbe presto rovesciarsi con le strette monetarie e gli aumenti dei tassi d’interesse già avviati dalle banche centrali i cui effetti tuttavia non sono ancora manifesti. Dunque la fase in cui ci troviamo potrebbe essere fortemente ciclica e instabile perché basata su nuovi debiti.

Il timore è particolarmente evidente se osserviamo i debiti pubblici di Cina e America, che si stima siano arrivati entrambi a superare gli 11.500 miliardi di dollari (quello italiano, uno dei maggiori al mondo, è poco sopra i 2.200 miliardi), pur sempre un’inezia tuttavia, se si guarda anche all’escalation dei debiti privati. Timori fondati peraltro, se osserviamo le previsioni di ulteriori espansioni di tali debiti pubblici, in America a causa del taglio fiscale che ancora non è chiaro come sarà finanziato, e in Cina perché è l’apparato statale che sta sostenendo i numerosi casi di default delle amministrazioni locali.

GLI INVESTIMENTI TRAINANO LA CRESCITA

Sul fronte degli ottimisti tuttavia le cose non stanno poi così male perché, contrariamente ai sostenitori dell’illusione monetaria fornita dall’accresciuto valore delle attività finanziarie detenute dai privati (che potrebbero averli indotti ad una maggior spesa per consumi) quello che rilevano le statistiche invece è che il maggior contributo alla crescita economica non l’hanno fornito i consumi bensì gli investimenti, e che questi ultimi si sono rivolti principalmente alle nuove tecnologie, alla digitalizzazione e alla robotizzazione degli stabilimenti produttivi, mentre sono parallelamente calati (in termini relativi) gli investimenti rivolti allo sviluppo energetico.

Tutti fattori che dovrebbero congiurare per una crescita basata sul calo dei costi di produzione e sulla limitatezza dell’inflazione di risulta. Una tendenza che fa dunque ben sperare che il fenomeno della crescita del 2017 non sia soltanto un’anomalia statistica.

Stefano di Tommaso




IL DIBATTITO SULLA “NET NEUTRALITY” RIMANDA A QUELLO SUL LIBERO MERCATO

Da noi in Europa sono giunti solo alcuni echi della polemica che infuria in America a proposito dell’abolizione della normativa imposta da Obama che garantiva la “net neutrality”. L’argomento sembra ben lungi dall’essere stato esaurito dopo che l’amministrazione Trump ha preso la sua decisione. Probabilmente per molto tempo ancora se ne discuterà, almeno in America, perché ci sono le elezioni e perché oramai tutto passa da internet e, con l’abolizione di questa normativa, coloro che investono per fornire l’accesso a internet (le società di telecomunicazioni) vogliono guadagnarci di più. Ma la questione non sembra così semplice: ci sono vantaggi e svantaggi a liberalizzare le modalità di fornitura di accesso alla rete. Esistono vincenti e perdenti con la liberalizzazione e, soprattutto, dopo di essa il futuro della digitalizzazione potrebbe essere diverso!

COS’È LA NET NEUTRALITY

Cos’è la net neutrality? È la fornitura dell’accesso a internet così come siamo abituati a conoscerla oggi: lineare. Cioè ogni informazione, che siano messaggi, foto, video o musica (e soprattutto da chiunque provengano e a chiunque siano destinati) passa allo stesso modo e alla stessa velocità, perché a nessuno può essere garantita una velocità maggiore per arrivare all’utente finale: così ad esempio oggi Netflix, Spotify e Youtube hanno sino ad oggi la stessa velocità di qualsiasi altro servizio.

LE CONSEGUENZE DELLA REGOLAMENTAZIONE “ISP” VS. “OTT”!

La normativa sulla net neutrality insomma tendeva ad abolire il “digital divide” (le barriere e le limitazioni -per taluni più decentrati o più svantaggiati- all’accesso alla rete dati), obbligando gli “ISP” (internet service provider, i fornitori di accesso a internet) a garantire le stesse modalità di fruizione dell’accesso a chiunque. Se il vantaggio di tale normativa era evidente, lo svantaggio lo era molto meno: sino ad oggi i profitti di coloro che hanno investito per fornire l’accesso a internet sono stati necessariamente plafonati e, di conseguenza, anche i loro investimenti. Ma ancor meno evidente è il fatto che questa situazione ha -per assurdo- privilegiato i cosiddetti “OTT” (over the top, cioè le grandi multinazionali della “rete”, come le cosiddette “FANG”: Google, Microsoft, Facebook, Amazon eccetera). Non essendo queste ultime obbligate a condividere i loro profitti con gli ISP, se li tenevano tutti per loro.

Risultato: gli ISP guadagnavano poco e investivano ancor meno mentre gli OTT ne hanno largamente approfittato, lasciando che a fare gli investimenti per le infrastrutture fosse qualcun altro. Abolire dunque una normativa che permetteva alle OTT di guadagnare di più equivale evidentemente a dichiarare loro guerra, sortendo l’effetto di riallineare i loro profitti a quelli delle società di telecomunicazioni.

CONSIDERAZIONI SULLA DEREGOLAMENTAZIONE DEL SETTORE

La scelta di abolire la net neutrality lascia invece ampie possibilità di manovra per le società di telecomunicazione (che sono i principali “ISP”, ad esempio in Italia sono gli oligopolisti TIM, Vodafone e Tre-Wind), di diversificare la loro offerta sul traffico dati, frammentando il mercato sul modello delle tv a pagamento. Diviene possibile consentire cioè ai fornitori di contenuti così come agli utenti di taluni servizi di avere maggiori velocità e priorità di accesso rete pagando di più agli ISP. In tal modo gli OTT potrebbero essere messi in condizione di spartire i loro lauti profitti con gli ISP.

Che non si tratti della solita polemica tra “democratici” e “repubblicani” circa la regolamentazione dei mercati lo si capisce dalla portata della questione: se tutto ciò che conta al mondo d’oggi (notiziari, video, musica, informazioni, divertimento, lavoro, contenuti, messaggi e persino la posta certificata) passa dalla “rete”, allora l’accesso alla medesima diviene un bene primario. Come l’acqua da bere. Ed esattamente come per l’acqua, qualcuno dovrà pur investire negli acquedotti, ma al tempo stesso nessuno può essere lasciato libero di esercitare una posizione dominante, alzandone troppo i prezzi o discriminandone il consumo, a pena di disagi sociali e minor crescita economica complessiva.

CONSERVATORI CONTRO LIBERISTI

Detta così (maggior equitá tra i diversi operatori della rete e deregolamentazione del settore) l’abolizione della normativa sulla net neutrality può sembrare una cosa positiva, e forse da numerosi punti di vista lo è. Il famoso Robert Kahn, primario inventore di internet, sostiene che la net neutrality sia in realtà solo uno slogan dogmatico che rallenta la sperimentazione o i miglioramenti nel cuore di Internet. Il punto di vista di Kahn è condiviso peraltro dalla maggior parte degli ingegneri di rete con più lunga esperienza. (nell’immagine di repertorio il presidente USA George W. Bush (a destra) durante la cerimonia di consegna della Medaglia presidenziale della libertà del 9 novembre 2005 a Robert Kahn -al centro- e a Vinton Cerf).

Per fare un paragone caro alla scienza economica, la deregulation di molti settori economici ha permesso lo sviluppo degli investimenti privati mentre la segmentazione dell’offerta ha consentito la moltiplicazione delle opzioni a disposizione del consumatore. Incrementando le offerte e il numero di chi le propone (e dunque anche la competizione) migliora -alla fine dei conti- anche il rapporto prezzo/qualità dei servizi. È in fondo questo il paradigma di base del capitalismo e dunque anche quello dei politici conservatori americani: la liberalizzazione del mercato alla fine diviene un fattore positivo, inducendo più opportunità per chi investe nelle reti di telecomunicazione ma anche più concorrenza, a condizione che quest’ultima venga salvaguardata da una idonea normativa “anti-trust”.

E la speranza che, alla fine dei giochi, lasciando libera l’iniziativa privata, chi ci guadagna sia il consumatore finale, l’uomo della strada, è ciò che concilia l’opportunità per qualcuno di investire di più e fare grandi profitti, con l’obiettivo di fondo del legislatore di trovare un approccio diverso alla necessità di non penalizzare troppo le classi meno agiate: poiché la libera concorrenza agisce da calmieratrice dei prezzi.

DUNQUE UN VANTAGGIO PER TUTTI, MA NEL LUNGO TERMINE

Ecco perché qualcosa che è stato salutato come “la morte di internet” o “la fine della democrazia” in realtà può risultare addirittura in un vantaggio per tutti. Il dibattito sulla mano invisibile della concorrenza che scatena lo sviluppo ma placa al contempo le forze in gioco sul mercato è in realtà una questione antica e mai completamente esaurita.

Quel che bisogna tuttavia sottolineare è che acccanto al dibattito sul liberismo esistono molte e altre considerazioni da andare a dipanare prima di poter concludere i ragionamenti in favore della liberalizzazione. Il libero mercato infatti presuppone che esista una democrazia, le cui regole di fondo non siano facilmente modificabili a piacimento di chi dispone di maggiori risorse finanziarie per influenzare il legislatore e che tale democrazia esprima organismi di controllo capaci di tutelare tanto lo sviluppo della libera iniziativa quanto le pari opportunità per chiunque come infine la mobilità sociale.

IL RISCHIO DI ALIMENTARE IL DIGITAL DIVIDE E LA NECESSITÀ DI EVITARE ABUSI DI POSIZIONI DOMINANTI

Anche un bambino si rende invece conto del fatto che accanto alla libertà di iniziativa e alla possibilità di ottenere ampi ritorni dagli investimenti, ci vogliono anche i controlli da parte dell’autorità pubblica. Nel caso di internet ad esempio, lasciare gli ISP liberi di discriminare tra gli utenti nella velocità di accesso alla “rete” e nella selezione dei suoi contenuti a seconda delle tariffe praticate, rischia di penalizzare le piccole imprese, i giovani, gli studenti, le classi meno agiate e soprattutto gli abitanti delle zone rurali, dove probabilmente non arriva affatto una pluralità di ISP e non esiste una vera diversificazione dell’offerta.

È qui (come direbbe Totó) tuttavia che casca l’asino! Gli Stati Uniti d’America hanno in casa il più importante mercato dei capitali del mondo e possono sperare di promuoverne gli investimenti verso nuove reti di telecomunicazione mobile e di ultima generazione (ad esempio nelle reti cellulari già si parla di quelle di quinta generazione: le cosiddette “5G”) che sorpasseranno in velocità anche quelle fisse e ovviamente anche quelle già esistenti, rendendole obsolete.

Gli sviluppi auspicati dall’amministrazione Trump con questa deregolamentazione sono quelli di stimolare copiosi investimenti infrastrutturali nel,settore delle telecomunicazioni, in particolare di quelle mobili, con un effettivo vantaggio nel tempo a favore di tutti (anche in termini fiscali, dopo l’ultima riforma) dalle ricadute in termini dell’apertura di nuove frontiere tecnologiche nella fruizione dell’interconnessione che tali investimenti potranno generare, soprattutto nel settore della “internet delle cose” (“IOT”).

Gli Stati Uniti d’America sono la più longeva democrazia al mondo e al contempo il Paese con il più alto prodotto interno lordo. Dunque possono parallelamente vantare un’effettiva capacità di intervenire applicando la normativa “anti-trust” al fine di impedire ai fornitori di qualsiasi cosa di mettersi d’accordo tra loro al fine di abusare di posizioni dominanti.

NON È PERÒ DETTO CHE CIÒ CHE PUÒ FUNZIONARE IN AMERICA SIA FACILMENTE APPLICABILE ANCHE ALTROVE NEL MONDO

Il (relativo) timore invece è che, una volta che la strada della deregolamentazione si è aperta in America, subito dopo anche altrove nel mondo sarà considerato lecito articolare l’offerta di accesso alla rete, magari senza -al contempo- stimolare alcuna concorrenza tra gli ISP, dal momento che in molte altre parti del mondo gli oligopoli o addirittura i monopoli nella fornitura di beni e servizi sono considerati cosa normale e i loro tycoon sono talvolta anche a capo dei partiti dominanti (e per questo motivo dettano anche legge). Dove insomma la democrazia non è compiuta e il mercato dei capitali non è sviluppato, il liberismo economico risulta assai pericoloso e, con esso, le sue filosofie.

Si pensi ad esempio ai tre oligopolisti del mercato delle telecomunicazioni in Italia: se essi saranno abilitati a segmentare l’offerta di accesso alla rete sulla base del censo, salirà seriamente il rischio che le classi di popolazione meno agiate risultino anche le più reiette perchè non possono permettersi un costoso accesso alla (futura) rete veloce. Ma in questo caso di chi sarebbe la colpa: delle teorie economiche fautrici del libero mercato o di chi non esercita un adeguato controllo sull’abuso di posizioni dominanti?

Stefano di Tommaso

 




LE BORSE CROLLERANNO?

I ripetuti e crescenti timori relativi alla tenuta degli attuali -stratosferici- livelli raggiunti dalle borse di tutto il mondo mi hanno spinto a compiere un’ indagine sulla loro situazione attuale, sulle ragioni sottostanti gli scossoni percepiti negli ultimi giorni e sugli auspìci che se ne possono trarre per il prossimo futuro.

Tutti gli osservatori economici si chiedono fino a quando durerà l’incantesimo del mercato finanziario, che da più di otto anni continua imperterrito la sua corsa. A dire il vero già intorno alla metà dello scorso anno se lo chiedevano tutti, ma poi è arrivato il cosiddetto “Trump trade”, cioè l’effetto positivo sulle borse derivato dal fascino che il nuovo corso politico americano esercitava sugli investitori, promettendo meno tasse e maggiori investimenti infrastrutturali.
Con il Trump trade è in effetti cambiato qualcosa nel mondo: l’economia globale ha imboccato di nuovo un percorso di crescita e la stessa cosa è accaduta per tutti i paesi OCSE, a partire dall’America, facendo dimenticare i timori di nuovo scoppio della bolla finanziaria. Oggi, a un anno esatto di distanza da quel momento storico, le politiche economiche promesse dal presidente americano non sono ancora state varate e le borse sono salite ancora di un bel po’, ragione per cui i medesimi dubbi si ripropongono.

Un recentissimo articolo della CNBC.COM riportava un questionario al quale hanno risposto circa 12.000 dei suoi suoi lettori. CNBC ha chiesto loro <<se si aspettano a breve uno “storico” tonfo delle borse>>  e ben il 44% di essi ha risposto si mentre un altro 26% nutre dei dubbi al riguardo e soltanto il 30% non lo ritiene probabile.

IL PESO DELLE ASPETTATIVE

La cosa ha dell’incredibile: il 70% degli intervistati tra la “creme” dei professionisti americani della finanza che legge quel magazine online vede dunque la possibilità a breve termine di un crollo di Wall Street! Come si può vedere nello “screenshot” qui sopra riportato, quasi non bastasse, a dare loro manforte ci si è messo anche un premio Nobel per l’economia come Robert Shiller che, intervistato in proposito, ha solo potuto fornire una sensazione, non certo una previsione razionale.

In effetti il mercato azionario americano è cresciuto più degli altri e, dal minimo toccato nel lontano Marzo 2009 (più di otto anni fa), ha più che quadruplicato il suo livello. Chiaramente un tale risultato lascia molto spazio per lo scetticismo circa la possibilità che Wall Street raggiunga ulteriori, mirabolanti vette.

L’ECCESSO DI LIQUIDITÀ HA DROGATO LE BORSE

Ma bisogna ricordare che l’intervento delle banche centrali di tutto il mondo per pompare liquidità (in queste settimane oltre che della BCE è la volta di quella giapponese) e la ripresa della crescita economica globale hanno senza dubbio contribuito a buona parte di tale performance.

La prima cosa che viene da pensare è che, quando tutta quella gente se lo aspetta, è probabile che lo scenario non si verifichi. Se infatti la stessa percentuale di intervistati si comporta di conseguenza, allora dovrebbe limitare decisamente i propri investimenti in titoli azionari, privilegiando la liquidità o degli investimenti alternativi, quelli che possano avere andamenti non correlati alla borsa (immobili, oro, eccetera). Ma se così fosse, allora bisognerebbe ammettere che c’è ancora molta liquidità in circolazione parcheggiata al di fuori del circuito borsistico e che, di conseguenza, i mercati finanziari potrebbero avere ancora molta strada da fare.
Sul versante opposto, occorre tenere presente che le aspettative sui mercati finanziari tendono ad “auto-realizzarsi”, alimentando esse stesse le possibili oscillazioni dei listini.

IL RUOLO DEI BUY-BACK E QUELLO DEI “TRADING SYSTEMS”

Per comprendere le ragioni di chi grida al possibile scoppio della “bolla speculativa ” bisogna tuttavia considerare due fattori “anomali” che hanno contribuito non poco al risultato della citata quadruplicazione dei dollari investiti sulla borsa di New York. Fattori che in precedenza avevano avuto un limitatissimo effetto sulle quotazioni azionarie:

1) un perverso meccanismo di “buy-back” (cioè di riacquisto da parte delle stesse società emittenti) tramite il quale le grandi corporations quotate utilizzano la liquidità che si ritrovano in pancia per comprare azioni proprie (invece di investire nello sviluppo dei propri mercati), principalmente per favorire gli interessi dei manager che hanno in mano delle cospicue “stock-option” (cioè incentivi ai propri manager basati sulla possibilità di ottenere azioni da rivendere poi sul mercato). Sono operazioni compiute tipicamente in frode degli azionisti di minoranza, ma il cui effetto “edulcorante” sulle quotazioni del titolo alla fine non lo disdegna nessuno, salvo il fatto che tende a far crescere artificialmente la misura degli “utili per azione”.

I buy-back dunque aiutano i corsi azionari a rimanere sostenuti nonostante il potenziale effetto depressivo delle vendite realizzate dai dirigenti, ma non solo: essi innanzitutto sortiscono l’effetto di trasferire liquidità dalle aziende ai privati che, spesso, la reinvestono sui mercati finanziari e, in secondo luogo, riducono il numero delle azioni in circolazione che andranno a spartirsi gli utili per azione (Earnings per Share: EPS) realizzati, facendo crescere artificialmente la redditività teorica delle società quotate che li mettono in pratica. Ecco un grafico relativo allo stesso periodo di otto anni testé citato, che evidenzia una crescita “fittizia” dei profitti per azione pari al 265% (più di metà della crescita totale realizzata dal mercato azionario!):

2) La diffusione di algoritmi e sistemi computerizzati per la compravendita ad alta frequenza di titoli azionari (HTFA: high frequency trading algorithms). Essi hanno oggettivamente cambiato i connotati all’andamento fino a ieri caratteristico del mercato dei capitali: fino all’avvento dei sistemi di trading infatti (basati principalmente sui principi dell’analisi tecnica), contavano molto di più le sensazioni umane e i fattori economici “fondamentali ” sul mercato azionario, circa i quali gli analisti finanziari si esprimevano anche in termini strategici.

Oggi, dieci e più anni dopo l’avvento delle contrattazioni computerizzate, l’unica variabile che conta davvero è la liquidità disponibile sul mercato (che, invariabilmente da molti anni a questa parte, cresce per effetto dell’intervento delle banche centrali di tutto il mondo).

Come sarebbe il mercato azionario senza se i regolatori avessero impedito o limitato tanto i buy-back quanto l’avvento degli HTFA? La risposta è quantomai scontata: probabilmente molto ma molto più in basso di dove si trova oggi. Anche questo è un elemento di preoccupazione: quanto è “artificiale” la situazione che osserviamo e quanto invece è motivata da fattori che presumibilmente resteranno in piedi nel prossimo futuro e che troveranno sempre maggiore ragion d’essere sulla base della crescita delle variabili macroeconomiche fondamentali?

IL RUOLO DEI TITOLI “TECNOLOGICI” NELLA CRESCITA DELLE BORSE

Ulteriori elementi di preoccupazione per le borse giungono infine dal “parterre” della medesima Wall Street, dove negli ultimi giorni una serie di titoli “tecnologici” di grande diffusione, come Alphabet (Google) e Amazon la cui capitalizzazione riflette in astratto le attese di enormi aspettative di crescita degli utili sebbene  -alla luce delle recenti preoccupazioni- abbia lasciato nelle ultime settimane sul terreno molti miliardi di dollari.

Senza l’apporto fondamentale della supervalutazione di quei titoli, entro certi limiti da ritenersi assolutamente sensata poiché basata sull’aspettativa di crescite esponenziali dei margini operativi (date le caratteristiche del modello di business delle cosiddette “internet companies”), Wall Street non avrebbe raggiunto le vette che oggi osserviamo. Eppure ogni qualvolta la valutazione di un titolo è basata sul ruolo fondamentale delle aspettative, non si può parlare di certezze circa la stima corretta della medesima e la psicologia può incidere non poco. Sono in molti a pensare che quelle aspettative sono forse cresciute un po’ troppo negli ultimi mesi e che qualche ragionevole dubbio è opportuno porselo.

Tornando a quanto sta succedendo oggi dunque, i due fattori che hanno contribuito a un generale ridimensionamento dei titoli cosiddetti “FANG” (Facebook, Amazon, Netflix, Google, e dintorni tra i quali Microsoft, Snapchat, eccetera) sono stati:

– la naturale rotazione dei portafogli degli investitori, i quali oggi ritengono perlopiù di trovarsi in una fase molto matura del ciclo economico e preferiscono puntare su settori industriali più tradizionali;

– i dubbi relativi alla misura effettiva della profittabilità del business digitale in genere, orientato necessariamente a forti crescite nel suo complesso ma al tempo stesso martoriato da un eccesso di concorrenza, come tutti i settori economici che si trovano ad uno stadio più primitivo del ciclo di vita del prodotto,  oltre che sottoposto a continui colpi di scena man mano che le innovazioni continuano a ridisegnarne gli assetti.

Ora è noto che è grande il peso complessivo sul listino di Wall Street della capitalizzazione di borsa dei principali titoli “tecnologici”, così come in Italia risulta esserlo quella delle banche. Ragione per cui una normale manovra di “rotazione” dei portafogli degli investitori istituzionali rischia di incidere non poco sull’andamento dell’indice generale.

NEL COMPLESSO I MOTIVI DI SCETTICISMO SONO FONDATI

Bisogna francamente ammettere che il quadro sin qui riportato è tutto sommato abbastanza preoccupante: un circuito mondiale delle borse valori fortemente condizionato dall’eccesso di liquidità pompata dagli stimoli delle banche centrali, le cui valutazioni sono giunte ai massimi di sempre tanto come valori assoluti quanto in relazione ai multipli di redditività, per di più condizionata da fattori distorsivi come i programmi di riacquisto delle azioni proprie e i sistemi di trading automatici.

Quali sarebbero i valori attuali dei listini di borsa se non fossero intervenuti quei fattori distorsivi, se gli investitori istituzionali non avessero adottato sistemi di trading che fanno propendere per la crescita dei valori basata sulla liquidità disponibile, se non ci fosse stata l’esplosione delle quotazioni dei principali titoli tecnologici (che però sono principalmente basate sulle aspettative di incremento esponenziale degli utili)?

LE VARIABILI MACROECONOMICHE

La vera risposta probabilmente risiede nelle variabili fondamentali dell’economia, le stesse che sino ad oggi sono state un po’ trascurate nella foga delle ipervalutazioni di borsa e che oggi, forse giunti a un punto di svolta, possono illuminare il cammino dinanzi a noi.
Ebbene però: l’indicazione che proviene da quelle variabili non potrebbe essere più positiva! A partire dalla crescita del prodotto mondiale lordo, stimata per il 2017 ad almeno il 3,6% (la più alta dal 2011) e al di sopra della media storica di lungo termine, pari al 3,5% (media altissima che comprende tanto la seconda rivoluzione industriale quanto l’avvento della grande distribuzione, quello dell’elettronica di massa e quello dell’avvento di internet).

A scriverlo è la Morgan Stanley in un suo recentissimo report dove tra l’altro smentisce le previsioni catastrofiche sulle borse formulate dal già citato premio Nobel Robert Schiller.

Una serie di fattori concorrono a questo giudizio così deciso:

– La crescita attuale si sviluppa congiuntamente tanto nei Paesi Emergenti quanto in quelli più sviluppati, con la relativa sorpresa dell’Unione Europea;
– Il commercio internazionale ha ripreso a correre a ritmi elevati sia in volume che in valore, come non succedeva da un quinquennio;
– Anche gli investimenti sono in decisa crescita nel mondo, persino a prescindere dalla solita Cina (che investe mendiamente il 40% del proprio P.I.L.) e questa è una misura piuttosto importante del fatto che la crescita attuale non sia effimera;
– La ripresa economica attuale peraltro è diversa da quella del 2010-2011, nella quale il movimento di rimbalzo dalla crisi profonda degli anni precedenti e la forte spinta degli stimoli monetari ai mercati finanziari avevano di per sé drogato l’effetto statistico finale.

Una volta tenuto conto di tutti questi elementi risulta più chiaro l’ottimismo di fondo espresso da Morgan Stanley per l’economia globale: la ripresa attualmente in corso rassomiglia di più a quella del periodo 2003-2006 che non a quella del 2010-2011 ed è piuttosto equamente ripartita in quasi tutte le zone del mondo.

LA TURBOLENZA POLITICA AMERICANA CONDIZIONA GLI ANIMI

Se teniamo conto del fatto che alla crescita del prodotto interno lordo globale si accompagnano anche la discesa della disoccupazione (o meglio: il maggior numero di occupati) e la ripresa dei consumi, il quadro complessivo dunque spiega piuttosto bene le attese per un forte aumento dei profitti netti delle società quotate, che si accompagna al tempo stesso ad un miglioramento dell’efficienza produttiva, dunque ad un miglioramento dei margini più che proporzionale all’aumento dei fatturati.

Eppure più andiamo avanti e più tra gli operatori serpeggiano dubbi sulla tenuta degli attuali livelli raggiunti dalle borse, a partire dalla più importante di tutti: quella americana.
E qui il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda dell’ottimo adoperata per osservarlo: gli ottimisti ritengono che prima o poi le nubi della lotta politica si diraderanno per necessità, lasciando spazio a quelle riforme volute da Trump e agli ulteriori effetti afrodisiaci sull’economia e a una maggior distensione internazionale relativamente ai focolai di guerra in essere, mentre i pessimisti temono che quanto visto sun qui sia solo l’antipasto di una lotta furibonda tra poteri più o meno occulti, che si svilupperà attraverso nuove guerre e nuovi stop alle riforme economiche.

È evidente che in questo secondo caso “il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo” come argomentava già Alan Turing, in un suo saggio del 1950: “Macchine calcolatrici e intelligenza”, dove anticipava il futuro luogo comune dell’ “effetto farfalla”.
Per quanto improbabile possa apparire, in un mondo magicamente e per la prima volta nella storia davvero interconnesso, non è un’idea che si può relegare alle sole ipotesi scientifiche!

Stefano di Tommaso