LE STARTUP AMERICANE FANNO CASSA

La quotazione in borsa di Uber Technologies sembra la perfetta occasione per fare qualche considerazione di fondo sulla schiera di “unicorni” (così vengono chiamate le nuove imprese dell’era digitale che superano la valutazione di un miliardo di dollari) i cui sopravvalutatissimi titoli stanno per riversarsi ancora una volta a Wall Street, sulla scia della nuova ondata di liquidità che le banche centrali continuano a immettere sui mercati.

 


Secondo una stima indipendente al momento si possono contare più di 340 di quegli “unicorni” quando ce n’erano circa un decimo in numero solo cinque anni fa (39 per l’esattezza), la maggior parte dei quali (21 per l’esattezza) oggi sono già quotati in borsa, cambiandone radicalmente i connotati.


Non che sia andata così male: se prendiamo l’andamento delle famose FAANG (Facebook Amazon Apple Netflix e Google), le loro quotazioni negli ultimi tempi hanno corso ben più dell’indice più usato per valutare l’andamento della borsa americana, come si può leggere dal grafico qui riportato:


Ma la proliferazione di queste società (gli “unicorni” sono soltanto la punta dell’iceberg di un’intera generazione di startup che hanno trovato risorse presso gli investitori privati) e delle loro favolose valutazioni è probabilmente anche il risultato della ricerca spasmodica -da parte degli investitori- di nuove più rischiose opportunità su cui investire la montagna di liquidità sulla quale essi sono seduti. Nel 2018 per la prima volta gli investimenti complessivi nelle startup tecnologiche da parte degli americani hanno superato i 100 miliardi di dollari !


Solo pochi anni fa qualcuno aveva denunciato il fenomeno del cosiddetto “savings glut”(cioè la congestione dei risparmi, che non erano mai stati così alti a causa del miglioramento delle condizioni generali di vita, dell’invecchiamento progressivo della popolazione ricca, eccetera…) facendo notare al tempo stesso che le opportunità di investimento mobiliare non si erano moltiplicate allo stesso ritmo, spingendo in tal modo al rialzo i titoli a reddito fisso (e al ribasso i loro rendimenti) e a nuove vette le quotazioni delle principali borse del pianeta. Già questo fenomeno può spiegare in buona parte la montagna di quattrini che si riversano sugli investimenti più rischiosi.

Ma come si può riuscire a distinguere tra l’oceano di nuove iniziative quelle che faranno le migliori performances, quando supereranno la fase iniziale di perdite di bilancio? La risposta più onesta è che molto spesso non si può. Quello che oggi conta di più tra le vincenti della loro categoria è piuttosto la loro capacità di attrarre risorse finanziarie per crescere dimensionalmente.

Uber da questo punto di vista, con la sua teorica valutazione di 100 miliardi di dollari è la perfetta prova di tale affermazione! Dopo dieci anni di sonore perdite economiche (ha bruciato circa 20 miliardi di dollari) il suo giro d’affari, 11,3 miliardi nel 2018, è salito del 42% rispetto al 2017, che invece aveva visto il raddoppio rispetto a 2016. Il numero di utenti mensili è balzato del 34% a 91 milioni nell’ultimo anno e sua volta era cresciuto ben di più, del 51%, nel 2017. Le risorse finanziarie di cui è stata dotata hanno infatti permesso a Uber di espandere il proprio modello di business a qualsiasi servizio dove avrebbe potuto utilizzare dei collaboratori esterni per fare consegne, di qualsiasi cosa, nonostante la quasi totalità di quei servizi sia in perdita.

Lyft, che si è quotata in Borsa pochi giorni fa a livelli ben più bassi (24 miliardi), ha semplicemente spinto meno sull’acceleratore perchè aveva meno risorse da spendere per la sua crescita. E la notizia che le operazioni di quotazione sembrano andare benone sta spingendo Pinterest, l’ennesimo social network in forte perdita, a scaldare anche lei i motori per la borsa!

È quello che recentemente gli economisti hanno battezzato come “esuberanza irrazionale”: l’eccesso di ricchezza (e di aspettative sulla crescita economica) porta a scommettere su nuovi modelli di business persino laddove non c’è alcun indicatore che possa far presumere razionalmente la prospettiva di un profitto. Ovviamente la misura di questa esuberanza è cresciuta soprattutto negli ultimi anni, insieme con la ricchezza degli investitori, come si può vedere dal grafico:


Ma il fenomeno della montagna di liquidità che -aperte le cateratte della borsa- si riversa sugli unicorni al momento della quotazione ha molti altri risvolti sociali e industriali. Innanzitutto quello sulla competitività con i loro concorrenti del passato: inutile far notare che il momento è drammatico per tutti coloro che si occupano di consegne locali “alla vecchia maniera” nelle città dove Uber o Lyft sono presenti. Nessuno di loro dispone delle risorse che hanno questi colossi per perdere ancora denaro! E’ chiaro che per tutti gli altri i margini si schiacciano e il modello di business in può più prescindere da internet e dalla pubblicità online, cosa che a sua volta riduce le entrate pubblicitarie dei giornali locali, delle televisioni regionali e delle affissioni.

Ma la cosa più buffa sono i prezzi delle case, che nelle città più interessate (San Francisco e Los Angeles) alla pioggia di denaro che si sta riversando da Wall Street sono già in passato schizzati alle stelle e ancora una volta si apprestano a crescere. Molti dei beneficiari delle gigantesche valutazioni hanno infatti dormito in un appartamento in comune con molti altri giovani fino a poco tempo fa, e adesso vogliono spostare sull’economia reale i guadagni realizzati su quella “di carta”.

Rischia di andare un po’ come per l’oro del Portogallo, arrivato nel diciassettesimo secolo assai copioso dalle colonie d’oltreoceano, è stato capace di bruciare l’economia reale nel giro di pochi anni, arrestandone il normale funzionamento. Ma per fortuna questa volta il fenomeno sociologico è ben più esteso. Da ogni parte del mondo si investe e si è investito nelle società che sono destinate a cambiare per sempre il volto industriale del mondo. E i frutti che ne derivano vanno anch’essi in tutte le direzioni.

Se poi sarà davvero una manna o viceversa risulterà essere stata una (pericolosissima) moda del momento, lo sapranno soltanto i posteri. Per ora possiamo soltanto cercare alche paragone, come ad esempio la statistica degli ultimi 55 anni qui sotto riportata, che distingue tra imprese valutate poco in relazione ai loro elevati profitti (primo istogramma), quelle dell’indice più diffuso della borsa americana (secondo) e quelle valutate molto e con bassi profitti (terzo):


È chiaro che partire dal 1963 può essere un po’ distorsivo, ma è altrettanto vero che abbiamo già visto scoppiare la bolla speculativa delle “dot.com” dei primi anni ‘90 ed è piuttosto elevato il rischio che anche stavolta la bolla delle aspettative scoppi prima che il nuovo corso si consolidi.

Stefano di Tommaso




BANCHE ITALIANE AL BIVIO

È di qualche giorno fa una duplice batteria di riflettori che ha acceso l’attenzione dei media sull’andamento delle banche italiane: da un lato un sibillino resoconto sullo stato di salute dei loro bilanci pubblicato da Equita Sim, denominato “Hit but not Sunk” (colpite ma non affondate) e dall’altro lato lo scandalo della truffa dei diamanti, che ha rivelato non soltanto la propensione delle aziende di credito nazionali a trasformarsi in un supermarket della qualsiasi, ma anche lo scarso regime di verifiche che avvolge il mondo dorato della sollecitazione del pubblico risparmio. Tuttavia, a causa di una serie di fattori contingenti, da circa un mese a questa parte i titoli azionari delle banche quotate in borsa sono tornati a crescere, proponendo un legittimo dubbio sulle prospettive del comparto creditizio in Italia.

 

LA TRUFFA DEI DIAMANTI

Se torniamo per un istante alle questioni sollevate dalla truffa dei diamanti proposti alla clientela come forma alternativa di investimento, non può sfuggire il fatto che quello bancario dovrebbe essere un setttore fortemente regolamentato e vigilato dalla Banca d’Italia. Se infatti gli “asset manager” (i gestori di patrimoni) sono numerosi e spesso indipendenti, le reti di vendita che lanciano i promotori finanziari a caccia dei risparmi da gestire e indirizzare sono in numero molto minore e anche quando sembrano indipendenti sono spesso controllate o partecipate da banche e assicurazioni (altro settore che, direttamente o indirettamente, sollecita il pubblico risparmio).

LA SCARSA EFFICACIA DELLA VIGILANZA

Da notare che i compiti istituzionali della Banca d’Italia, compiti fortemente ritagliati e ridimensionati dal conferimento di buona parte di quelli precedenti alla Banca Centrale Europea (BCE) ai tempi della nascita della Moneta Unica , dovrebbero riguardare principalmente la vigilanza sugli istituti di credito, mentre al contrario il numero di persone stabilmente assunte continua inspiegabilmente a crescere…

Nemmeno questa volta, come era già successo nei casi più eclatanti di Banca Etruria, e poi delle popolari venete, alcun ispettore si è accorto di nulla, e nemmeno è stato citato dai media che se ne sono occupati, come fosse un problema di qualcun altro. Il sospetto perciò che le maglie della vigilanza siano larghe anche in altri ambiti come quello della contabilizzazione delle minusvalenze o del calcolo della correttezza dei costi applicati alla clientela, accentua la sensazione di rischio che provano gli investitori per l’intero comparto bancario, quando esaminano la possibilità di prendere posizione sul mercato borsistico ovvero di partecipare ad un aumento di capitale.

LA TENDENZA DI LUNGO PERIODO È AL RIBASSO

E se prendiamo l’indice borsistico relativo al comparto banche, non a caso si nota una costante discesa del medesimo da un anno a questa parte:

Per Scauri, il gestore azionario Italia di Lemanik Asset Management, è meglio ridere nei portafogli di investimento il settore bancario alla luce del rallentamento del pil italiano, della crescente pressione da parte del regolatore europeo (la BCE, che si fida sempre meno di Bankitalia) e della difficoltà nel generare un accettabile margine di interesse.

Tornando però al report sopra citato di Equita, viene fatto notare che il giro di vite della Bce sui crediti deteriorati potrebbe anche lasciare indenni le banche, che sono in grado di gestire la richiesta della Vigilanza senza troppi scossoni.

CALERÀ ANCORA L’EROGAZIONE DEL CREDITO

Ma a pagare il prezzo del meccanismo con cui Francoforte chiede alle banche di svalutare completamente i crediti deteriorati entro| il 2026 – saranno probabilmente le famiglie e le piccole e medie imprese italiane: l’erogazione del credito nei prossimi anni potrebbe stringersi del 15% rispetto ad oggi, con un calo cumulato dei prestiti atteso nell’ordine di 185 miliardi in 7 anni. In un mio precedente articolo facevo notare che, nel corso del 2018, i prestiti delle banche alle piccole e medie imprese si sono contratti in totale del 5%, cioè di 40 miliardi di euro, nonostante che le sofferenze creditizie verso le medesime imprese si siano ridotte del 31%, vale a dire di 53 miliardi (da 173 miliardi a 120).

Inoltre prosegue il rapporto di Equita, entro il 2020 le banche dovranno rifinanziare una raccolta pari a 200 miliardi, di cui 188 miliardi attraverso il programma di liquidità della Bce ma stima che se il 40% dell’esposizione con la Bce dovesse essere rinnovata, non ci dovrebbero essere “rischi di ulteriore deleveraging sugli impieghi” e perciò “le banche dovranno emettere almeno 70 miliardi di bond e ridurre di 27 miliardi (-18%) i Btp nel loro portafoglio. Il contesto in cui operano le banche italiane viene definito dunque “sempre più sfidante”.

LA MINACCIA “DIGITALE”

Da non sottovalutare poi il pericolo di disintermediazione che proviene dalle cosiddette FinTech (le società tecnologiche che puntano a rimpiazzare il ruolo della banca creando sulla rete digitale un punto d’incontro “autonomo” tra domanda e offerta di capitali). Uno studio della BAIN&Co evidenzia proprio in Italia il massimo del rischio di riduzione della raccolta di depositi a causa di ciò.

 

Per non parlare dell’ulteriore rischio di disintermediazione che proviene dai sistemi digitali di pagamento che stanno progressivamente rimpiazzando quelli bancari.

 

 

MA LA BORSA SEMBRA CREDERCI

Le prospettive insomma, comunque le si gira, non sono splendide per il settore bancario, senza contare il fatto che l’apparentemente inevitabile riduzione dell’erogazione del credito per il sistema bancario potrà comportare il rischio di una progressiva disaffezione della clientela, dal momento che si fa largo l’idea che nel prossimo futuro non sarà più la banca il luogo dove trovare risposte a tutte le esigenze finanziarie.

A meno di decise manovre di riduzione dei costi e di recupero di efficienza, i margini di profitto delle banche non potranno non risentirne. Ecco il bivio: riusciranno le banche italiane ad incrementare l’efficienza economica più di quanto il mercato ridurrà i loro margini economici? La borsa sembra crederci oggi, ma per i mercati finanziari anche i semestri possono risultare delle eternità!

 

Stefano di Tommaso




QUOTARSI IN BORSA, O NO?

A Piazza Affari il 2018 è stato un anno di vacche magre per le “initial public offers” (IPOs: collocamenti di azioni destinate ad essere quotate in Borsa) dal momento che fino a ottobre sono state solo due le Ipo che la Borsa di Milano ha visto completate e riguardano Carel Industries e il Gruppo Piovan.

 

DUE SOLE MATRICOLE SUL LISTINO PRINCIPALE

Carel è un’azienda padovana che si occupa di sistemi di condizionamento dell’aria. È stata quotata lo scorso 11 giugno e la sua capitalizzazione di Borsa, nonostante il periodo terribile che sta attraversando Piazza Affari, ha guadagnato il 34,5%. L’IPO di Carel si è tradotta in una quotazione in borsa con una capitalizzazione di mercato pari a 720 milioni ossia circa 3 volte il fatturato.

Piovan invece si è quotata in Borsa la settimana scorsa (ne scriviamo più diffusamente più avanti). Si occupa di progettazione, installazione e manutenzione di impianti per linee di produzione per le materie plastiche e nasce a Padova nel 1934 come officina specializzata nella meccanica di precisione.

PIOVAN, UNA SCELTA IN CONTROTENDENZA

Considerando che l’Ebitda margin di Carel è simile a quello di Piovan, sarebbe stato possibile dedurre che la capitalizzazione di Piovan potesse arrivare a circa 600 milioni di euro. Invece, dato il momento particolarmente negativo, il prezzo di offerta delle azioni Piovan è stato fissato in 8,3 euro per azione, al livello minimo della forchetta di prezzo indicata all’inizio e compresa nel range tra gli 8,3 euro e i 10,1 euro. Al prezzo di quotazione iniziale delle azioni Piovan, la capitalizzazione della società alla data di avvio delle negoziazioni è stata pari a 423 milioni di euro: circa il 50% in meno.

Una scelta, quella del gruppo Piovan, in controtendenza con quello che sta avvenendo in Europa, dove negli ultimi mesi sembra diffondersi una certa allergia alla quotazione in Borsa. Il fondatore, Nicola Piovan si è limitato a ricordare: “Il nostro è un progetto di lungo periodo, siamo un’azienda internazionale con l’85% delle vendite all’estero, non abbiamo debito, andiamo in Borsa per crescere”.

TUTTE LE QUOTAZIONI DEL 2018

Secondo uno studio della società di revisione Price Waterhouse Cooper la raccolta di capitali per mezzo della quotazione in Borsa si è dimezzata nel terzo trimestre 2018, fermandosi a 3,9 miliardi di euro rispetto agli 8,3 dello stesso periodo del 2017. In Italia, nel terzo trimestre sono stati raccolti 144 milioni. Per 12 Ipo nel 2018. È andato bene l’Aim, dedicato alle piccole e medie imprese e alle Special Purpose Acquisition Vehicles (SPAC: società-veicolo che vengono costituite da investitori professionali e quotate in Borsa prima di “contenere” un’impresa candidata alla quotazione. Una volta che ne hanno individuata una si fondono con la medesima e si trasferiscono al listino principale). Mentre quest’ultimo, il Mercato Telematico Azionario (MTA), a causa dei mercati incerti, rischia di eguagliare il record negativo del 2009: anche allora ci furono due sole quotazioni.

DILAGA LA MODA DELLE SPAC

Il fenomeno delle SPAC è dilagato sul mercato: ad oggi ne risultano quotate ben 27, delle quali tuttavia soltanto 12 (meno della metà) ha già definito la “business combination” (la fusione con un’impresa operativa). Dei 3,7 miliardi raccolti sul mercato tuttavia ne è stato investito soltanto 1,2 miliardi. La motivazione sta innanzitutto nelle valutazioni che possono soddisfare i requisiti delle prime: se non sono sufficientemente basse i promotori non guadagneranno abbastanza dell’investimento. Parliamo dunque di multipli decisamente ridotti rispetto a quelli di una IPO!

Per fare un esempio, per la Piovan, quotata “a sconto” a 8,3 euro per azione, il multiplo Ev/Ebitda (valore d’azienda al lordo dei debiti diviso margine operativo lordo) è pari a 13,2 volte, il rapporto prezzo /utili (p/e) a 21,6 volte. Nell’esaminare a quali valori medi d’azienda hanno realizzato la business combination le SPAC, forse arriviamo alla metà di questi multipli. Eppure numerose aziende hanno scelto la strada delle SPAC, tanto per la celerità e la non aleatorietà dell’operazione, quanto per l’assenza di costi iniziali.

QUALI VALUTAZIONI

Peraltro la valutazione di Piovan, se rapportata a un panel di titoli comparabili, è assolutamente nella media: al 18 settembre scorso l’Ev/Ebitda 2017 medio infatti per il comparto dei comparabili di automazione industriale era di 14,1, il p/e di 24,2. In questo basket sono compresi i seguenti titoli: Ag Growth (quotato a Toronto), Alfa Laval (Stoccolma), Ats (Toronto), Bobst (Zurigo), Gea Group (Francoforte), Hillenbrand (New York), John Bean (New York), Krones (Francoforte). La media dei titoli di società di engineering italiane esprimeva invece, sempre al 18 settembre scorso, un multiplo Ev/Ebitda di 14,1 e un p/e di 26,3 volte. Di questo secondo basket fanno parte tutte società quotate a Piazza Affari: Biesse, Carel, Datalogic. ElEn, G.I.M.A.TT, Ima, Interpump, Prima industrie. Ovviamente nell’ultimo mese quasi tutte le borse hanno visto ridurre le loro quotazioni, e in particolare quella di Milano.

HANNO RINVIATO LA QUOTAZIONE

Ad aver rallentano sulla decisione di quotarsi in Borsa nel 2018 sono state numerose aziende, anche di grandi dimensioni: da Sigaro Toscano, parte dell’ex monopolista di Stato del tabacco, controllata dalla famiglia Montezemolo, che ha rinviato la quotazione proprio la scorsa settimana.

Per la stessa ragione (baraonda sui mercati) lo scorso 29 maggio aveva rinunciato alla quotazione la Public Utility della Regione Toscana Estra.

Grande dietrofront anche quello del colosso della ristorazione e distribuzione delle specialità alimentari italiane Eataly, che ha posticipato al 2019 la decisione in merito all’Ipo.

Per non parlare della controllata di Fiat Chrysler nelle tecnologie elettroniche: Magneti Marelli. Valutata 5-6 miliardi di Euro, sta prendendo in considerazione una alternativa alla Borsa con il fondo americano Kkr. In stand-by anche Alpitour (dove ha di recente investito Tamburi e Associati e Nexi (la risultante dell’unione tra Cartasì e ICBP).

Per le cliniche della famiglia Garofalo (GHC), l’IPO sull’Mta invece sembra che ci sarà a breve e il collocamento di azioni sarà tutto in aumento di capitale (riservato agli istituzionali), puntando a un flottante del 25% da momento che il programma prevede a crescita basata su acquisizioni. I vertici della società hanno infatti dichiarato: “nonostante la turbolenza dei mercati, considerando la valenza strategica del programma di acquisizioni e di crescita del Gruppo, GHC continua il suo percorso verso la quotazione e non ci sarà vendita di azioni da parte dei soci di controllo” ( la stessa famiglia Garofalo ).

Il mercato oggi è divenuto estremamente selettivo nel recepire nuove azioni da quotare al listino talchè sono avvantaggiate le aziende dotate di chiaro vantaggio competitivo, elevata e credibile crescita e forte attività di export. Aggiungeremmo poi che vogliano accettare -in tale congiuntura- anche di vedere ridotta significativamente la valutazione attribuita loro dal mercato, come dimostra il caso Piovan.

IL MERCATO È ANCORA RICETTIVO PER LE IMPRESE MIGLIORI

Sul fronte delle valutazioni di coloro che investono, sono dunque ancora potenzialmente ricettivi a chi offre opportunità interessanti. Perciò riteniamo che gli imprenditori con simili caratteristiche non dovrebbero farsi spaventare dall’incertezza e avviare ugualmente percorsi di quotazione, tenendo conto del fatto che non si approda alla Borsa per qualche settimana, ma guadando al futuro e tenendo conto anche di tutti gli altri vantaggi di chi non è interessato a cedere la propria azienda.

Questo tanto più se i timori di una nuova crisi del credito nel nostro Paese sono fondati. Molte banche infatti, a fronte del calo del loro rating e delle prospettive di deterioramento di quello delle aziende clienti, potrebbero essere costrette a chiedere al mercato nuovi aumenti di capitale, riducendo, sino a quando non li avranno effettuati, l’erogazione di prestiti alla clientela. La crescita e l’internazionalizzazione invece -si sa- vanno finanziati. E l’ottenimento di capitali freschi da chi non li chiederà indietro dopo 4-5 anni è il modo migliore per fare programmi in tal senso.

Stefano di Tommaso




QUANTO VALE ATLANTIA?

Che la concessione delle Autostrade ai pochi gestori privati che se le sono aggiudicate più o meno in assenza di un Processo di gara pubblica sia sempre stato un affare quantomeno „misterioso“ è fatto noto. Più volte i giornali hanno gridato allo scandalo (o hanno finto di farlo) a proposito dei noti rincari delle tariffe autostradali, cresciute nell’ultimo decennio di una percentuale variabile dal 20% sino al 200%, ben al di sopra dunque tanto dell’inflazione quanto della crescita (più o meno negativa) del P.I.L. del Paese. Ma fino a ieri la nazione si era sopita nell’abitudine di tali angherie sino a non farci più caso. I quaranta morti di Genova e il nuovo clima politico invece ne hanno risvegliato la coscienza collettiva e nel mirino della speculazione è finito il maggior gruppo concessionario d’Italia in fatto di autostrade.
CHI È ATLANTIA
Atlantia è una società quotata alla Borsa di Milano che controlla un importante pacchetto di concessioni, per buona parte stradali (non solo in Italia ma anche in Brasile, Cile, India e Polonia), ma anche aeroportuali (i tre aeroporti di Roma, e i tre della Costa Azzurra francese) oltre che diversificate nei servizi di ingegneria, informatica e sistemi di pagamento e infine nelle costruzioni e pavimentazioni stradali.
Nell’immagine qui accanto riportata si indica che i Benetton controllano la società con il solo 30% dell’88% (cioè con il 26,4%) e che la società fa utili netti dopo le tasse di 1,4 miliardi di euro (superiori agli investimenti di 1 miliardo) su ricavi di 6 miliardi (cioè circa il 23,3% del fatturato) con un margine operativo del 62% circa (del fatturato). Interessante notare che la società appartiene a privati italiani soltanto per il 19,9% del flottante che è pari solo al 45,5% del capitale azionario: dunque soltanto il 9% del capitale di Atlantia è in mano a privati Italiani, se si escludono i Benetton e la fondazione CRT. Ma anche contandoli, il totale in mano nazionale non supera il 25% del capitale e stava per divenire la metà se fosse andata in porto la fusione con ACS (autostrade spagnole) controllato dal gruppo di società di costruzione Abertis, operazione al momento in stand-by.
Ma ancora più interessante è il grafico che segue, da cui si evince che le nostre autostrade sono di gran lunga le più care d’Europa, una parte della quale le mette gratuitamente a disposizione di chiunque:

Il gruppo era già noto per la sua “vicinanza” alla politica ma quello che non era noto ai più era il fatto che i famigerati investimenti infrastrutturali che sarebbero stati a fronte degli astrusi calcoli che stavano alla base dei rincari esagerati in realtà non venivano effettuati!

Dalla polemica che infuria dopo i fatti di Genova questo è il dato che emerge più evidente e certifica la poca dirittura morale degli organismi che avrebbero dovuto controllarne l’attuazione (e delle forze politiche che vi stavano dietro), come pure di quelli di gestione della società.
Se questo fatto verrà accertato dalla Magistratura allora non sarà stata del tutto fuori luogo la “boutade” del Governo che intende revocare la concessione delle Autostrade per l’Italia (in sigla ASPI) ad Atlantia innanzitutto, la maggiore concessionaria delle Autostrade italiane con circa 3000 chilometri gestiti su quasi 6000 affidati a soggetti diversi dall’ANAS.. Ovviamente di fronte anche solo a tale rischio ipotetico tutti hanno iniziato a chiedersi quanto vale questa società (e di conseguenza quanto dovrebbe quotare il titolo in Borsa) ?
La polemica è ancor più infuocata se si tiene conto del fatto che la rete autostradale nazionale è al collasso in molti giorni dell’anno anche a causa dei ritardi nell’ampliamento delle carreggiate!
LA POSSIBILITÀ DELLA REVOCA DELLA CONCESSIONE
In teoria il Governo può avviare (come sembra aver fatto) la procedura per la revoca secondo l’articolo 9 della concessione in caso di “grave inadempienza” (tra gli obblighi assunti da Autostrade c’è infatti il “mantenimento della funzionalità delle infrastrutture concesse attraverso la manutenzione e la riparazione tempestiva delle stesse”) con una contestazione formale, dopo la quale al concessionario è concesso un primo “congruo termine” non inferiore a 90 giorni, e un “ulteriore termine non inferiore a 60 giorni per adempiere a quanto intimato ”.
In pratica dunque Atlantia avrebbe però davanti a sè almeno 5 mesi per rimettersi in regola, per poi agire in sede giudiziaria e bloccare tale possibilità. Questo spiega anche perché la stessa si è detta pronta a ricostruire il viadotto in cinque mesi (e non sei o quattro).
Ma l’articolo 9 bis della concessione prevede che “Il Concessionario avrà diritto (…) ad un indennizzo/risarcimento a carico del Concedente in ogni caso di recesso, revoca, risoluzione anche per inadempimento del Concedente”. In sostanza, lo Stato sarebbe comunque costretto a risarcire i mancati utili anche in caso di inadempienza accertata (circa € 1 miliardo di utili netti moltiplicato per i vent’anni di durata residua). Niente male per una società che capitalizza in borsa 16 miliardi ! Ovviamente si tratta di una stima della parte di utili che riguardano le concessioni autostradali italiane è sempre nel caso che la revoca le riguardi tutte.
E poi però cosa succederebbe? Assisteremmo al ritorno delle nazionalizzazioni o all’ attribuzione all’ANAS (che oggi gestisce tra l’altro 1000 chilometri di autostrada) degli altri 5870 chilometri appaltati ai privati (di cui 3000 ad Atlantia e 1200 a Gavio)? Oppure si riuscirebbe a cogliere l’occasione della revisione del pasticcio per rilanciare gli investimenti infrastrutturali di-appaltando le autostrade a coloro che sono più disposti a investire in sicurezza e ampliamenti?
Il Governo dovrebbe brigare parecchio per offrire una sponda valida agli oltranzisti della coalizione che vorrebbero agire d’imperio nei confronti della società concessionaria. Più probabile è che venga erogata la mult più alta possibile (€150 milioni) e che il ponte venga rimpiazzato dalla medesima con una spesa di circa 1 miliardi di euro (circa 1,4 euro per azione) oltre a maggiori costi della manutenzione che potrebbero costare meno di altri 3 miliardi per un totale di circa 4-5 euro per azione. Molto meno del calo di 10 euro per azione registrato in questi giorni. Non potendo spingerci oltre nelle ipotesi, cerchiamo allora di capire meglio come il mercato vàluta questa società.
LA VALUTAZIONE DI BORSA DI ATLANTIA
Atlantia al prezzo di 19 euro capitalizza all’incirca 16 miliardi, cioè 13 volte gli utili (P/E ratio), quasi 3 volte il fatturato e 1,8 volte il valore contabile del suo patrimonio netto, dopo copiosi debiti per 28 miliardi di euro residui al 30/6 scorso è un totale dell’attivo di circa €40 miliardi.

Dunque con 3,7 miliardi di euro di EBITDA l’azienda deve sostenere un debito pari a 7,5 volte tale margine: non poco persino per un’azienda così redditizia, soprattutto se dovessero traballare le prospettive di ancora vent’anni di alto reddito e limitati investimenti (720 milioni l’anno scorso).

Se infatti la società dovesse mettere in cantiere investimenti aggiuntivi di circa 2 miliardi di euro il suo cash flow (flusso di cassa netto) diverrebbe pesantemente negativo e la società necessiterebbe di un importante incremento nei mezzi propri, più o meno di pari valore, annacquando l’attuale capitalizzazione di circa il 13%, cioè pari a quei 4-5 euro per azione di cui si scriveva più sopra.
Questo non significa tuttavia che il titolo scenderà ancora, ne che si apprezzerà per tornare alla differenza tra I 28 euro toccati in precedenza (o i 26 prima del crollo) e i 4-5 di riduzione dovuti al crollo del ponte Morandi (dunque da 21 a 23 euro per azione, ben più di quanto quota oggi il titolo), perché a completare il giudizio di valutazione intervengono molti altri fattori, a partire dalle ulteriori prospettive fino al calcolo della redditività prospettica dovuta alla pipeline di ulteriori concessioni, con in più l’incognita della possibile cancellazione “d’ufficio” (e senza rimborso) della concessione API.
Ma se anche lo Stato Italiano dovesse rimborsarle 20 miliardi questa non sarebbe necessariamente una buona notizia per Atlantia, che con quell’importo non completerebbe il rimborso dei 28 miliardi di debito. Persino questa possibilità comporterebbe la necessità di un inevitabile aumento di capitale per sostenere le altre iniziative in corso e ne deturperebbe la valutazione.
COSA PUÒ SUCCEDERE AL TITOLO IN BORSA
Inoltre la volatilità del prezzo del titolo, che sino ad oggi era stata limitata, c’è da attendersi che essa possa crescere significativamente nel prossimo futuro, a meno di una tempestiva fusione della società con qualche altro grande operatore viario internazionale, magari meglio capitalizzato (come la stessa ACS spagnola sopra citata). E senza tale prospettiva questo significherebbe inevitabilmente che la sua valutazione scenderebbe ancora un po’, a parità di tutto il resto.
Difficile perciò tracciare una previsione netta circa la valutazione del titolo, soprattutto dopo i violenti alti e bassi degli ultimi giorni e l’importante ridimensionamento già attuato dal mercato. Quello che si può dire con una certa tranquillità è che la società e anche i suoi azionisti potrebbero trovare dunque un forte giovamento nell’ipotesi suddetta di aggregazione con qualche altro grande operatore internazionale che fornirebbe serenità e sostegno al mercato finanziario. Senza la quale è invece possibile (se non probabile) che il suo Rating venga rivisto al ribasso, spingendo inevitabilmente i grandi investitori oggi presenti nella compagine azionaria di Atlantia a dover abbandonare il titolo.
In assenza di grandi e pesanti iniziative da parte del management (che però è tutto indagato per le probabili omissioni di controlli e misure precauzionali) la spirale discendente della valutazione di Atlantia potrebbe dunque proseguire a causa tanto dela possibile discesa del rating del suo debito (soprattutto in caso di completa revoca delle concessioni italiane) quanto del possibile abbandono di parte della compagine sociale per motivi “statutari”.
(nell’immagine qui sotto un dettaglio della struttura del ponte assai deteriorata dagli agenti atmosferici)

Ma diradate le nebbie dell’incertezza giuridica e gestionale (i suoi amministratori saranno sostituiti?) e gli ulteriori ribassi che ne potranno derivare, i parametri fondamentali del titolo che poi emergerebbero sarebbero probabilmente migliori di oggi, alimentando qualche ricopertura.

Per tutti questi motivi la volatilità attesa nel prossimo futuro di Atlantia è quindi ben più elevata di quella storica, ma per i fegati più forti anche l’opportunità di acquisire a buon mercato un titolo di ampio foottante e con degli ottimi fondamentali può restare valida, soprattutto se si guarda al lungo periodo, fattore essenziale per valutare correttamente la società e che lascia qualche speranza per il futuro.
Stefano di Tommaso