LE BORSE DIVENTERANNO PIÙ SELETTIVE SULLA BASE DEI PROFITTI INDUSTRIALI

Il dibattito sulle iper valutazioni delle imprese, che emana dallo struggimento degli operatori delle borse valori alle prese con il più enigmatico di tutti i lunghi cicli borsistici di rialzo degli ultimi decenni, si concentra oggi sulla possibilità che, nonostante i corsi azionari abbiano superato di slancio tutti i massimi storici precedenti, in realtà i profitti delle imprese possano in futuro risultare in grado di correre ancora più in alto, giustificando dunque nel tempo ciò che oggi sembra eccessivo.

Da tempo chi scrive sostiene un’ardua tesi:gli investitori sono da troppo tempo alla ricerca di valide alternative alle scelte di asset allocation praticate sino ad oggi perché i corsi azionari attuali arrivino a sgonfiarsi in un baleno. Sebbene sinora i fatti sembrano aver dato ragione a questo assunto, se vogliamo evitare di cadere nel ridicolo con affermazioni fideistiche non possiamo che cercare delle risposte a una domanda di fondo: quali e quante imprese stanno effettivamente moltiplicando la loro redditività? Non tutte evidentemente!

Ovviamente non si può prescindere dai presupposti fondamentali che stanno pilotando da oramai otto anni la corsa al rialzo dei valori mobiliari:

  • i tassi straordinariamente bassi ma contemporaneamente la bassissima inflazione rilevata,
  • la grande liquidità disponibile sui mercati che è seguìta alle politiche monetarie espansive,
  • la “congestione dei risparmi” di un’intera generazione di “baby boomers” che si approssima alla pensione e che riversa sui mercati una domanda eccessiva di carta finanziaria,
  • l’ampiezza delle oscillazioni negative precedenti,
  • la grande ripresa economica globale in corso,
  • l’aspettativa che i profitti delle imprese continuino a moltiplicarsi.

Sebbene l’argomento dei profitti aziendali non sia l’unico a tenere alte le quotazioni borsistiche, forse esso dal punto di vista microeconomico merita qualche ulteriore approfondimento perché il dibattito in questione ha effettivamente preso corpo a seguito di un’impennata degli utili delle grandi corporation quotate a Wall Street e tutti si chiedono se, conseguentemente, c’è da attendersi la stessa impennata anche per le altre imprese nel mondo, fino alle più piccole e alle meno globalizzate (ad esempio le PMI dei paesi emergenti) e, a maggior ragione, fino a quelle meno tecnologiche.

LE SUPER VALUTAZIONI DELLE AZIENDE TECNOLOGICHE

La corsa della tecnologia sembra infatti avere molto a che vedere con le iper valutazioni espresse da Wall Street: sono soprattutto i grandi colossi tecnologici e i dominatori di internet quelli che hanno pesantemente alzato la media delle valutazioni. Le quotazioni borsistiche di questi ultimi viaggiano a multipli di prezzo che superano le duecento volte gli utili. La famosa media del pollo di Trilussa è sempre in agguato dunque è ciò che può giustificarsi nel caso di quei colossi globali potrebbe non essere valido per le imprese periferiche e meno tecnologiche.

I mercati finanziari infatti, se nei prossimi giorni non esprimeranno addirittura una più o meno pesante correzione, quantomeno è probabile che proveranno a ragionare sull’ennesima “rotazione” dei portafogli azionari, allo scopo di selezionare meglio le proprie scelte e, auspicabilmente, di provare a diversificare il più possibile i rischi sistemici del possedere assset finanziari che sembrano a tutti troppo “cari”.

Ma ricordiamoci che sono molti molti mesi che i grandi investitori (e sinanco i banchieri centrali) ci ripetono la stessa solfa: l’eccesso di ottimismo che si registra nelle borse porterà presto ad una loro discesa e, dal momento che quel “presto” non arriva mai, da queste colonne nei mesi scorsi abbiamo più volte ironizzato sul tema con analogie letterarie come “Aspettando Godot” o “Il Deserto dei Tartari”! Il punto è che nessun ciclo borsistico può durare in eterno e nessun gestore di portafogli di investimento può permettersi di non chiedersi cosa succederà dopo che quello attuale si sarà esaurito.

Al riguardo c’è chi afferma con certezza che chi investe a questi livelli otterrà scarsi risultati in futuro, chi esprime una fede indiscriminata verso la crescita economica globale che supporta le valutazioni estreme dei mercati, e chi continua a scavare sul fronte della giustificazione razionale delle valutazioni elevate, per trovare non solo risposte al quesito fondamentale sopra descritto (cosa succederà “dopo”) ma anche per riuscire individuare nuove strategie di investimento o nuove ragioni per “ruotare” ancora una volta i portafogli titoli.

I SETTORI PIÙ INTERESSANTI E QUELLI MENO

Scendiamo perciò nel dettaglio dei principali settori economici:

1. Le maggiori imprese supertecnologiche (come Tesla, ad esempio) scontano nelle loro valutazioni la capacità di raggiungere risultati clamorosi in grado di ridefinire il mercato della mobilità personale e quello degli accumulatori di energia di nuova generazione. Quanto tale fiducia sia ben riposta è difficile dirlo, ma resta l’ineluttabilità del fatto che qelle imprese sembrano destinati a cambiare più radicalmente e più velocemente del previsto i loro mercati di sbocco. Casomai i dubbi degli investitori riguardano la presunzione di relativa inerzia dei produttori tradizionali di autoveicoli e sistemi di energia (tutte da dimostrare) e la presunzione di forte capacità organizzativa e industriale da parte di imprese come quella del tetragono Elon Musk di riuscire a realizzare le quantità richieste dal mercato nei tempi annunciati. Qualora le risposte a tali dubbi siano positive, quanto spazio di mercato resterebbe allora alle altre imprese che si sono buttate all’inseguimento dei leader globali? La mia personale convinzione è che non tutti gli operatori super tecnologici riusciranno infatti a tramutare le loro mirabolanti innovazioni in forti profitti e, in un mondo sempre più globalizzato, i leader mondiali di mercato sono dunque quelli più probabilmente in grado di riuscire a raccogliere i maggiori frutti della loro “brand awareness”. Perciò quanto sopra può valere tranquillamente anche per Amazon, per Google, Apple e Tencent e può dunque fornire un deciso supporto razionale alle astronomiche valutazioni di borsa che essi esprimono;

2. Le imprese invece che fondano sì i loro punti di forza sulla rete internet, ma scommettono soprattutto sulla loro capacità di moltiplicare la clientela e i profitti grazie alla mera digitalizzazione e al business che ne consegue di sostituzione delle attività tradizionali (ad esempio gli operatori dell’entertainment come Netflix quali valide alternative a quelli come Sky di Rupert Murdoch), secondo la mia umile opinione rischiano grosso: non è così scontato che i loro predecessori non saranno in grado di rinnovarsi velocemente!

3. Lo stesso può valere per i nuovi colossi del commercio elettronico come Alibaba e Zalando, che rischiano di incontrare decisi ostacoli nel loro processo di cambiamento delle abitudini della gente al riguardo della distribuzione commerciale perché l’umanità è molto conservativa se il possibile rinnovamento delle abitudini della gente non porta anche dei radicali miglioramenti nella vita quotidiana. In molti casi perciò è ragionevole porre qualche dubbio su talune mirabolanti valutazioni di titoli come Netflix laddove esse non siano congiunte a vantaggi radicali nella vita di tutti i giorni.

4. Un ragionamento invece a favore delle supervalutazioni che oggi il mercato esprime può riguardare i leaders globali nei mercati del lusso e del lifestyle, come ad esempio Ferrari o LVMH, che storicamente si sono sempre mostrati in grado di saper raccogliere la sfida del rinnovamento ma che poggiano le loro pretese di mercato su una loro potentissima “brand awareness”. Per essi l’avanzata delle economie emergenti e lo sviluppo demografico e sociale dell’umanità sono fonte probabile di ulteriori soddisfazioni rispetto ai rispettivi “follower” di mercato e per quanto pazzi possano risultare i prezzi da essi praticati, è possibile che i loro ampi margini restino sostenibili.

5. Al contrario per molte delle grandi imprese che oggi risultano leader nei settori B2B (business to business) ci sono seri dubbi circa la sostenibilità di elevate valutazioni di mercato perché ogni minima novità di mercato potrebbe propagarsi, negli ambiti professionali, alla velocità della luce.

6. Ciò può valere per le compagnie aeree, per colossi informatici come la IBM, per i giganti dell’industria di base come Thyssen o General Electric, o sinanco per i grandi (e innovativi) produttori di sistemi informatici come SAP o Oracle e persino come i grandi produttori di beni di largo consumo come Hewlett-Packard o Samsung la cui offerta commerciale non risulti tuttavia “iconica”, a prescindere da quanto capaci siano di cavalcare le innovazioni. In molti di quei settori la concorrenza dei nuovi astri nascenti provenienti dal sud est asiatico o la possibilità che nuove proposte a valore aggiunto provengano da soggetti completamente nuovi rischia di porre dei limiti alla corsa nel tempo dei loro profitti.

I CRITERI DI SELEZIONE DEI SETTORI INDUSTRIALI

La vera discriminante nell’analisi delle effettive capacità di moltiplicazione dei profitti prospettici non sembra perciò l’eccesso di valutazioni ai prezzi attuali delle maggiori imprese quotate, quanto la loro capacità di mantenere la testa della competizione nel loro settore industriale con i margini economici che ne conseguono (vedi Apple), la loro capacità di esprimere un’effettiva brand awareness globale, e soprattutto la possibilità che la loro capacità di fare business in maniera del tutto nuova possa riuscire ad estendersi a sempre nuove categorie di prodotto (vedi Amazon) mentre al contempo su quelle meglio presidiate vengono lentamente alzate barriere all’entrata dei nuovi competitors.

Al contrario in buona parte dei settori industriali rivolti al B2B e in quelli meno protetti da nicchie di mercato e situazioni fortemente localizzate nemmeno le imprese maggiori potranno mantenere il passo con le attuali valutazioni e la possibile avanzata della de-regolamentazione globale potrebbe mettere in discussione molte aziende leader industriali dei nostri giorni. Le stesse argomentazioni non lasciano purtroppo molto spazio alle supervalutazioni che le borse praticano di molte imprese troppo localizzate o troppo piccole, che dovranno affrontare difficoltà ulteriori nel reperire le risorse per la crescita dei propri profitti. Temo anzi che i fattori di sconto nei prezzi di tali imprese dovranno accrescersi.

I veri rischi degli investitori perciò non risiedono nell’ampiezza dei moltiplicatori di prezzo pagati oggi in borsa, bensì nella rispondenza di tali valutazioni alla loro capacità propulsiva a livello globale e nel cavalcare le grandi ondate di modificazione delle abitudini della gente.

Se queste considerazioni significano che in media i valori azionari sino ad oggi espressi dalle borse potranno proseguire la loro corsa o dovranno necessariamente ridursi in futuro, è materia che qui lasciamo alle personali valutazioni di ciascun lettore. È mia personale convinzione che in assenza di forti scossoni geopolitici o relativi a grandi catastrofi invece i mercati finanziari possano proseguire la loro navigazione relativamente indisturbati, ma che saranno necessariamente costretti a proseguire nel processo di selezione dei migliori asset, così come potranno beneficiare ancora a lungo della relativa calma che regna sui titoli a reddito fisso.

I fattori fondamentali all’opera oggi per tenere bassi i tassi di interesse è possibile che non verranno rimossi nel prossimo futuro. Per prevedere quello più remoto invece ci stiamo ancora attrezzando…

Stefano di Tommaso

 




(FOLLI ?) VALUTAZIONI DI BORSA

Quanto sono folli le (attuali) valutazioni di borsa? Mano mano che le borse toccano sempre nuovi massimi gli analisti, gli economisti, gli investitori e persino i banchieri centrali continuano a chiederselo da molto tempo e in particolare da almeno un anno i timori di un loro crollo si fanno più insistenti.

 

LO SCENARIO “GOLDILOCKS” E I TIMORI DI TORNARE A UN NUOVO 2008

 

La fatina dei mercati dai riccioli d’oro (la oramai mitica bambola Goldilocks che preferisce un ambiente misurato: non troppo freddo, non troppo caldo ecc…) continua a regalarci uno scenario incantato nel quale la crescita economica economica globale è meravigliosamente in atto ma non è troppo forte (e dunque non fa crescere l’inflazione né i costi dei fattori di produzione), le borse galleggiano sui massimi di sempre ma senza strappi e nemmeno rilevanti oscillazioni, il commercio mondiale ha ripreso la sua corsa nonostante la diffusione di tecnologia e informazioni non necessiti più di dover produrre solo in alcune parti del mondo (perché la globalizzazione prosegue alla grande e le fabbriche sono oramai dappertutto) e dunque i mercati finanziari assaporano i frutti (e i profitti) dell’espansione economica mondiale apparentemente senza doverne scontare i tipici aspetti negativi (fiammate salariali, tassi di interesse in aumento, dinamiche dei prezzi in tensione, valori degli “assets” troppo speculativi, eccetera).

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: da più di un anno si è diffuso tra gli investitori il timore di vivere all’interno di una gigantesca bolla speculativa attanaglia ogni categoria di investimenti nel mercato dei capitali e perciò coloro che si aspettano brusche correzioni di rotta sono oramai divenuti la maggioranza. Ovviamente questo ha determinato una loro pesante sotto-performance rispetto all’andamento dell’indice di borsa, come è mostrato dal grafico qui riportato.

Il punto è che da altrettanto tempo sentiamo cornacchie gracchiare pervicacemente contro le smisurate valutazioni implicite delle imprese quotate in borsa e ogni volta dobbiamo constatare che esse hanno avuto torto. E si dà il caso che le cornacchie siano giustappunto animali estremamente intelligenti, come del resto lo sono i professori, i premi Nobel e i capi degli uffici studi di tutto il mondo che le impresonano ma quando la campana suona a morto così a lungo e poi invece tutti gli astanti risultano essere in buona salute, allora bisogna chiedersi: “cosa sta succedendo”?


COSA STA SUCCEDENDO?


Le risposte che troppe volte ci siamo sentiti propinare a questa domanda sono state la favoletta (assolutamente fondata, per la verità) della liquidità in eccesso che fa galleggiare anche ciò che dovrebbe andare a fondo, l’altra favola degli effetti perversi di tassi troppo bassi che generano l’assenza di valide alternative all’investimento azionario (come negarla?) e, per i più sofisticati, anche quella della “congestione dei risparmi” (saving’s glut) dovuta ai cicli generazionali della demografia (altrettanto vera) che provoca sovraffollamento nella domanda di attivi finanziari.

Secondo chi ce le propina però, sono situazioni congiunturali che hanno prodotto effetti significativi anche perché fortemente concomitanti ma, per loro natura, sono vicende destinate a smorzarsi nel breve termine perché connesse a fattori tendenzialmente irripetibili.


Sarebbe stato tutto molto credibile se effettivamente i picchi delle quotazioni di borsa (cui rischiamo di abituarci senza più fare domande) fossero risultati temporanei e connessi ad un incremento della volatilità dei corsi, che tipicamente si associa a movimenti di breve periodo. Il breve periodo però è passato da un pezzo e la domanda resta: quanto sono folli le (oramai consolidate) valutazioni di borsa?

Il cittadino americano medio (grande frequentatore dei borsini rispetto alla media degli altri nel mondo) si fida oramai molto più dell’investimento in borsa rispetto al resto degli altri investimenti possibili.

I commentatori che gridano “al fuoco” sempre più a corto di argomenti si sono allora spostati sull’arcinoto concetto di “bolla speculativa”, secondo il quale una serie di concause psico-sociologiche possono determinare un rigonfiamento innaturale dei valori espressi dai mercati, ma prima o poi tale rigonfiamento, come una bolla di sapone, è destinato a scoppiare, esattamente come è già successo in precedenza per i prezzi dei tulipani, per le valutazioni immobiliari, per i crediti al consumo e i titoli derivati. Peccato che la maggior crescita delle quotazioni borsistiche si sia accompagnata alla più bassa volatilità dei corsi che la storia ricordi…

 

Dunque, a causa della durata record del ciclo rialzista (abbiamo superato l’ottavo anno in USA) la situazione degli investitori —soprattutto le grandi banche e società di gestione del risparmio— è perciò divenuta kafkiana, anzi beckettiana e, come nel notissimo dramma teatrale “Aspettando Godot”, la condizione esistenziale dei personaggi cui ogni volta viene mandato a dire “il signor Godot oggi non viene, verrà domani”, pur angosciosa si tramuta in irrinunciabile, poiché, come accade nel dramma di Samuel Beckett, i protagonisti a un certo punto, prima che il sipario cali, riprendono a dire “adesso andiamo” eppur non si muovono. Evidentemente quei protagonisti, come del resto gli investitori sempre più timorosi di crolli sui mercati, sono la metafora dell’animo umano il quale sebbene resti nell’attesa di un evento che non accade mai, si rafforza sempre più nelle sue convinzioni.


GLI EFFETTI COLLATERALI DEGLI ECCESSI DEI MERCATI : VALUTAZIONI ECCESSIVE

Tornando alle valutazioni di borsa, senza dubbio eccessive secondo i più, esse non risultano essere soltanto materia riservata agli investitori e speculatori che operano sul mercato mobiliare. Come minimo invece influenzano anche le valutazioni di tutte le altre imprese, cioè quella miriade di società e gruppi industriali i cui titoli non sono quotati sui mercati borsistici ma risultano ugualmente essere oggetto di stima di valore. Ciò vale innanzitutto per i titoli tecnologici che hanno mostrato negli ultimi anni la miglior dinamica degli utili operativi e che pertanto influenzano le valutazioni persino delle start-up.

Ma non solo. Le borse ai massimi storici dunque influenzano anche il mare magnum di fusioni e acquisizioni che si estende al mondo intero, come pure l’oceano sconfinato delle valutazioni di credito da parte di banche e società finanziarie. Valutazioni che si basano sempre più, secondo le ultime teorie, sul cosiddetto “equity value” delle imprese affidate (cioè sul valore di mercato delle loro quote sociali, più o meno indipendentemente da quello contabile).

Se oggi i moltiplicatori dell’utile (p/e) che girano in borsa toccano la media di 30 volte, allora, pur scontando significativamente per la minor liquidità i titoli che non risultano quotati, difficilmente scendiamo sotto livelli di 15 o 20. I quali però risultano comunque al di sopra delle medie storiche di borsa (mi pare che la media delle medie risulti pari a 16 volte e, ovviamente, si riferisce a titoli mediamente molto “pesanti”. Lo stesso vale per la valutazione dei titoli a garanzia ai fini dei finanziamenti per le acquisizioni: se voglio indebitarmi per 50 per comperare un titolo che viene comunemente valutato 100 sto facendo un’operazione chiaramente molto prudente. Ma se quel 50 che prendo a debito corrisponde alla metà delle suddette valutazioni “prudenziali” di 15 o 20 volte l’utile, allora chi finanzia sta fornendomi un finanziamento che anmonta a 7 o 10 volte l’utile, che comunque rischia di risultare eccessivo.

Ecco dunque che l’economia reale risulta in ogni caso fortemente influenzata dai valori borsistici, sebbene talora sembri che i due mondi (quello dell’economia reale e quello dell’economia “di carta”) non si parlino.

MOLTE (DISCORDANTI) MISURE DELLA SOPRAVVALUTAZIONE

Esistono in proposito numerosi criteri da considerare se vogliamo affrontare il tema delle valutazioni d’impresa senza parteggiare per alcuna delle scuole di pensiero, a partire da quelli suggeriti dal famoso professor Robert Shiller e dal suo “CAPE RATIO” (cyclically adjusted price-to-earnings ratio: il rapporto prezzo/utili ponderato con la misura dell’inflazione e dei tassi di interesse) sulla base del quale egli ha lanciato ripetuti allarmi.

Numerosi sono però altri illustri pensatori come il professor Jeremy (autore del libro “Stocks for the Long Run” del 1994) che non condividono quei punti di vista perché, anche volendo considerare un eccesso nel livello dei moltiplicatori di valore, quando l’aggiustamento dell’indice viene operato sulla base della progressione degli utili in rapporto alla crescita economica, le attese di valore crescono fino a livelli più che accettabili.

Lo stesso vale quando andiamo a prendere il medesimo indice prezzo/valore ma lo consideriamo su base prospettica e lo compariamo con il cosiddetto “Misery Index “, vale a dire con la somma del tasso di inflazione più quello della disoccupazione. Se andiamo a osservare le serie storiche di nota una decisa correlazione inversa tra l’uno e l’altro indice: quando inflazione e disoccupazione sono contemporaneamente più basse è logico che gli investitori risultino più ottimisti e accettino quotazioni basate su multipli di valore più elevati.

Un indicatore ancora più deciso che punta a sfatare il mito delle valutazioni eccessive riguarda l’ultimo grafico qui riportato: l’indice dei rendimenti reali dei titoli azionari (il tasso di rendimento del paniere di azioni che compongono l’indice S&P500 di Wall Street depurato del tasso di inflazione dei prezzi al consumo): se esso risultasse troppo basso questo significherebbe che le azioni quotate risulterebbero troppo care, ma non è così. Se guardiamo alla media di lungo termine (dal 1935, pari al 3,7%) ci troviamo oggi al 2,6% vale a dire poco al di sotto di essa.

A dirla tutta ci sono altri indicatori molto meno rassicuranti da guardare con altrettanta attenzione, in particolare quello preferito da Warren Buffett, il rapporto tra capitalizzazione di mercato e valore del prodotto interno lordo (che rappresenta una misura grossolana del valore dei titoli quotati rispetto ad un anno di attività economica (e soltanto dell’America) oggi apparentemente a livelli preoccupanti: 135%. Ben oltre la misura suggerita in passato dal mago di Omaha (non oltre il 100%).

Non per niente la sua holding di partecipazioni, la Berkshire Hathaway, oggi detiene un livello record di denaro liquido : $100 milioni sul totale dei propri investimenti: $450 milioni. Un segnale di cautela.

Come pure un elemento da non trascurare nelle valutazioni di borsa è rappresentato dalla convenienza (in termini di rendimenti prospettici) ad investire in azioni come alternativa ai titoli obbligazionari, oggi invertita (convengono i bond) sebbene riferita ai rendimenti passati, non a quelli futuri (che è sempre difficile stimare).


ALLORA CHI HA RAGIONE: OTTIMISTI O PESSIMISTI?

Allora forse ha ragione Warren Buffett a preferire investimenti obbligazionari e ad accumulare grande liquidità? A modesto avviso di chi scrive, forse questa volta meno del solito.

A parte il fatto che abbiamo notato in precedenza (il ripetersi da più di un anno di segnali di allarme sulle borse, a posteriori del tutto ingiustificati), bisogna ricordarsi del fatto che l’investimento azionario ha caratteristiche di rischiosità correlate alla speranza di rendimenti futuri che possono differire non poco da quelli passati, soprattutto negli anni di deflazione e bassa crescita che abbiamo appena sperimentato.

Molti analisti oggi concordano che non solo l’economia globale cresce ben più del previsto, ma soprattutto cresce di più in funzione di fattori demografici in zone diverse da quelle dove precedentemente ha fatto meglio (l’Asia invece che l’America) e in modo esponenziale, a causa del diffondersi della digitalizzazione e delle altre nuove tecnologie. Se una piccola parte delle attese economiche legate a tali tecnologie si tramuterà in realtà allora gli utili aziendali delle principali imprese multinazionali quotate in borsa andranno alle stelle, giustificando ampiamente le attese oggi implicite nelle elevate quotazioni azionarie. Nessuno oggi può dirlo con certezza (e nel frattempo qualche ruzzolone di borsa non potrà che capitare), ma forse meno degli altri può parlare del futuro un ottantacinquenne (per quanto arzillo).

Il mondo potrebbe essere a una svolta che lo vede finalmente assaporare i frutti del progresso tecnologico in corso, come potrebbe invece avvitarsi attorno a nuove minacce o sciagure. I mercati finanziari riflettono tali attese, tanto nel bene quanto nel male, ma di solito non hanno torto. E questa volta le premesse perché gli ottimisti abbiano ragione sulla carta ci sono tutte!

Stefano di Tommaso




Red Shift

Potrebbe essere arrivato il momento di osservare i mercati finanziari attraverso un diverso metodo, dal momento che quello tradizionale con il quale interpretiamo i risultati dell’analisi “fondamentale” basandola sull’andamento delle principali variabili macroeconomiche, ci fornisce invece un quadro assai contraddittorio, che sinora è stato capace di ingannare la maggior parte degli analisti finanziari.

 

IL CANTO DELLE CORNACCHIE

Sono infatti almeno sei mesi (dopo la fine del 2016 quando la borsa è salita in funzione del cosiddetto “Trump trade”) che ci sentiamo ripetere che i listini azionari sono sopravvalutati, che -compiuti i fatidici sette anni- il ciclo economico positivo non può che volgere al suo naturale termine (almeno in America), che il “tapering” delle banche centrali occidentali restringerà la liquidità in circolazione e tornerà ad alzare i tassi (sebbene per quelle orientali il discorso sia, almeno per il momento, assai diverso) e che dunque sia destinata a sgonfiarsi la gigantesca bolla speculativa che ha favorito i listini e pompato anche i valori dei titoli a reddito fisso.

Sembra sopita per il momento persino la speranza di essere entrati in una nuova epoca che -a partire dal mondo anglosassone- inauguri un deciso taglio alle tasse e un forte incremento degli investimenti per infrastrutture, due fattori che avrebbero il potere di  rilanciare decisamente la crescita economica globale.

Eppure i mercati finanziari non sembrano affatto averla presa male. Restano a galleggiare tranquillamente sui massimi di sempre, assorbendo sinanco l’impatto (oramai dato per scontato) del secondo turno di rialzo dei tassi USA a metà Giugno e, anzi, il corso del Dollaro sembra incamminato verso una china discendente nonostante la Federal Reserve abbia chiaramente indicato che i rendimenti del biglietto verde saliranno tre volte ancora, dopo quello imminente.

LA CRESCITA DEGLI UTILI NON PLACA I TIMORI

Aggiungiamo che i profitti delle società quotate che compongono i principali indici di borsa nell’anno in corso sembrano ulteriormente destinati a crescere: del 24% nell’Eurozona e dell’11% in USA. L’America sembra inoltre veder crescere il suo Prodotto Interno Lordo del 2,3-2,5% quest’anno, contro un 1,6% medio dell’Europa (una crescita media che, senza alcune palle al piede di Paesi resilienti come l’Italia, sarebbe superiore al 2%).

Buone notizie, da piena ripresa economica, o da nuovo slancio del ciclo esistente. Ma secondo gli analisti queste cifre non bastano da sole a giustificare i nuovi massimi dei mercati azionari, non bastano per spiegarne il mancato ridimensionamento. Al contrario! Tutti si aspettano a breve qualche pericolo: un crollo delle borse o, quantomeno, una riduzione dei valori d’azienda espressi dai multipli dei profitti.

Sebbene sia quasi impossibile per chiunque formulare delle ipotesi accurate, lo è tanto più difficile quanto più si voglia navigare controcorrente in contrapposizione al coro generale degli analisti e strateghi di borsa che continuano a guardare la quiete dei mercati quale precursore di tempeste che -nella mia umile opinione- non si materializzano forse mai.

Il mio punto di osservazione mi porta invece a vedere un ordinato dispiegamento di fattori di crescita e di consolidamento dell’economia globale, soprattutto nel continente asiatico, nell’ambito di un mondo che -nel complesso- vede espandere la sua popolazione e la sua produzione di servizi digitali (spesso gratuiti ma che generano comunque importanti valori aziendali) a ritmi ben superiori alle risibili percentuali di crescita economica dell’Occidente.

IL “RED SHIFT” DELL’ECONOMIA MONDIALE

Nell’osservazione dell’Universo, il “red shift” (ovvero lo “spostamento verso il rosso” delle onde elettromagnetiche ricevute) è la constatazione dell’effetto “Doppler” relativo all’allontanamento delle galassie da cui esse provengono, effetto tanto più marcato quanto più sono distanti. Il “red shift” è perciò divenuto nel tempo il sinonimo dell’espansione dell’Universo, misurato in frazioni infinitesimali se proviamo a usare il nostro tempo (anni) e il nostro metro (multipli di chilometri), ma di portata inimmaginabile se lo computiamo su base cosmica, cioè osservando gli oggetti più lontani.

Ed è proprio a partire dall’osservazione degli oggetti più lontani che vorrei argomentare la mia personale spiegazione degli eventi economici globali: la crescita economica che si materializza soprattutto in Asia, con i suoi 5 miliardi di abitanti (quasi dieci volte quelli di USA e Eurozona insieme), i quali in massima parte stanno uscendo adesso dalla condizione di indigenza, è un bradisismo espansivo che trova limitato riscontro nelle statistiche ufficiali, innanzitutto per due motivi:

1) La crescita economica è espressa in valori monetari denominati in divise relativamente deboli rispetto a Dollaro e Euro (si dice che il P.I.L. della Cina avrebbe superato quello americano già nel 2012 se lo Yuan non si fosse svalutato ben di più);
2) una parte consistente della crescita economica è invece basata sulla generazione di contenuti e valori digitali, a partire da quello del Bitcoin, che non trovano posto nelle statistiche ufficiali ma che esprimono valori di accelerazione ben superiori a quelli ufficialmente rilevati.

Si legga ad esempio il saggio di Brookings “l’espansione senza precedenti della classe media nel mondo” nel link qui di seguito: https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2017/02/global_20170228_global-middle-class.pdf.

I BENEFICI PER L’OCCIDENTE

Di una parte di questa crescita si avvantaggiano ovviamente le economie occidentali (ecco che le esportazioni europee crescono ben più delle importazioni, e così si rivaluta l’Euro), un’altra parte di quella crescita va a compensare le esigenze della base demografica che si allarga, una parte di essa infine alimenta l’economia sommersa.
Dunque una parte non trascurabile della “crescita che non si vede” va a ingrassare i profitti delle grandi corporations euro-americane i cui certificati azionari compongono gli indici di borsa. Ed è questo il motivo per il quale i loro profitti crescono oggi ad un ritmo che è dieci volte quello delle economie di loro appartenenza.

Con la crescita dell’economia digitale inoltre i valori inespressi generati dal world-wide web sono probabilmente più elevati di quanto evidenzino le relativamente poche aziende tecnologiche ancora quotate nelle borse valori, la cui maggioranza dei titoli non riguarda l’economia digitale.
Prova ne è la maggior crescita -rispetto agli indici di borsa generali- del listini “tecnologici” come quello del NASDAQ, o meglio ancora gli indici dei valori riferiti alle aziende ipertecnologiche, come il “Robo-Index” (si legga al riguardo un mio recente articolo:  http://giornaledellafinanza.it/2017/05/01/arriva-il-robo-index/ ).

IL RISCHIO DI INCEPPO E LO SPAURACCHIO GEO-POLITICO

È chiaro che la crescita dei valori in gioco e dei profitti (attuali e futuri) che li sostengono può teoricamente portare a incendiare la dinamica salariale, può creare una crisi di liquidità se in parallelo non si diffonderanno ulteriormente strumenti di pagamento alternativi come -appunto- quello del BitCoin, arrivando a generare in definitiva un possibile panico per gli investitori ma, come si dice nell’ambiente aeronautico, “un aereo dentro l’hangar è sempre più sicuro di uno in volo, ma non è nato per restarci”!

Così possiamo prendere in considerazione nelle nostre analisi la probabilità di scossoni stagionali nell’estate, di quelli congiunturali derivanti dal rialzo dei tassi, di quelli prospettici dovuti al ritardo con il quale verranno varate le riforme fiscali e i nuovi grandi investimenti infrastrutturali.
Ma se la crescita economica globale mantiene il suo ritmo attuale, allora le prospettive finanziarie resteranno nonostante tutto fortemente positive!
Questo è anche il motivo per cui tutti si preoccupano per le Borse ma nessuno liquida i propri titoli. E se lo avesse già fatto negli ultimi mesi avrebbe senz’altro sbagliato.

Cosa resta da temere allora? A mio modesto avviso un vero spauracchio, in questa ottica, resta eccome, anzi si dilata, perché può uccidere il vero motore della crescita globale e, indirettamente, silurare i livelli attuali dei listini azionari: è quello della variabile geo-politica!
Il partito della guerra ha sempre tanti sostenitori, troppi, forse, ora che in ballo c’è un’espansione economica come in passato non se ne erano mai viste! Un’espansione corroborata dalla scienza, da un crescente rispetto dell’ambiente, da una relativa pacificazione globale.

Dopo l’astronomia allora è doveroso citare anche la fisica delle particelle: insieme al “red-shift” ci vuole insomma un vero e proprio “quantum leap” (salto quantico) nella qualità della politica internazionale, al fine di riuscire a mantenere le sfere in movimento verso un mondo più complesso sicuramente, ma nel complesso anche migliore.

 

Stefano di Tommaso




CHI FA SOLDI CON LE SCIAGURE INFORMATICHE

Tanium, tra le più grandi start-up tecnologiche della Silicon Valley è forse anche quella che più ha beneficiato dell’ondata di paura che ha seguito l’avvento di WannaCry, il famoso cyber-attacco che ha recentemente mandato K.O. i computer di mezzo mondo.

 

Condotta da un mercuriale amministratore delegato -Orion Hindawi- pronto ad ogni colpo basso e fondata da suo padre, noto genio dei sistemi di sicurezza, Tanium ha sviluppato sistemi di sicurezza informatica impareggiati e unici nel loro genere, perché garantiscono un controllo estensivo e completo di ogni possibile sistema informatico aziendale complesso, impedendone l’hackeraggio anche dall’ultimo dei terminali. Tra i suoi clienti si annoverano le più grandi multinazionali del pianeta e addirittura molti enti governativi.


Non soltanto Tanium è da tempo in odore di una quotazione multi-miliardaria alla borsa di Wall Street. Essa è inoltre uno dei pochissimi “Unicorni” (le start-up valutate dagli investitori più di un miliardo di dollari) capace di generare cassa (pare ne abbia per oltre 300 milioni di dollari) e di raddoppiare ogni anno il proprio giro d’affari (il 2016 lo ha chiuso con un fatturato di 360 milioni di dollari e anche per l’anno in corso ci si aspetta un raddoppio, in parte dovuto al l’ampliamento della sua base di clientela e in parte a causa dell’incremento generalizzato del budget di spesa delle grandi aziende per la propria sicurezza informatica.

L’azienda, spesso citata per il ruvido stile di gestione dell’accoppiata padre-figlio che l’ha fondata (i quali ancor oggi ne controllano la maggioranza del capitale -i signori David e Orion Hindawi- già fondatori di BigFix) non è nuova a scandali e improvvise sterzate di gestione ed è forse anche per questo che è stata di recente additata come la Uber della sicurezza informatica.

Ebbene, tanto per non smentire la sua fama, Tanium ha approfittato dell’occasione del timore generalizzato riguardante la sicurezza informatica generato dal recente attacco globale del virus “WannaCry” per racimolare dai propri investitori ancora un “round” di aumento di capitale (l’ottavo, sembra, dalla sua fondazione) da 100 milioni, sfiorando con quest’ultimo la mirabolante valutazione implicita di quasi 4 miliardi di dollari, rimandando con ciò nuovamente ad una tempistica indefinita la propria quotazione a Wall Street ed incamerando nuova benzina per la propria crescita senza dover minimamente dipendere dalle sorti dei mercati azionari.


L’operazione ha colto tutti di sorpresa non solo perché nessuno pensava che Tanium ne avesse bisogno, ma anche per il fatto che molto di recente gli stessi Hindawi, suoi principali azionisti citati spesso dalla stampa per aver rimpiazzato senza tanti scrupoli numerosi propri dirigenti aziendali di lungo corso quasi solo allo scopo di poter imporre il loro stile di gestione e così controllare meglio la loro società, si erano invece espressi pubblicamente a favore di una grande quotazione in borsa della società, contraddicendo con ciò un sentimento comune di relativa avversità ai mercati finanziari tra le aziende ipertecnologiche della Silicon Valley , che spesso li considerano soltanto un “male necessario” alla propria sopravvivenza.

Ciò nonostante che il mercato finanziario dei titoli “high-tech” quotati a Wall Street abbia registrato nella prima parte dell’anno una performance da capogiro, pari al 20% (oltre il 50% su base annua lizzati), contro un misero 5% degli altri titoli che compongono l’indice Standard&Poor500.

La storia di questo gioiello tecnologico di quell’America dell’America che è la California odierna non è poi molto diversa da quella di numerose altre grandi imprese americane, mirabilmente capaci di dominare una sofisticata e al tempo stesso pronte a ogni manovra pur di difendere la propria autonomia e identità aziendale, ivi compreso il trarre ottimi profitti dalle disgrazie altrui!

Stefano di Tommaso